Il momento è eccezionale e per questo ci troviamo nella necessità di accettare le misure eccezionali prese dagli organi di governo per affrontarlo. Proprio l’eccezionalità di questa emergenza rende però importante il chiarimento di un concetto cruciale per il corretto funzionamento della democrazia: la deroga ad alcuni diritti fondamentali, soprattutto in materia di libertà individuali, non può congiungersi alla rinuncia del controllo che le strutture democratiche preposte devono costantemente eseguire nei confronti di chi esercita il potere pubblico.
Mai, quindi, come in questo momento, è fondamentale stimolare i dispositivi istituzionali, in primis quelli parlamentari, nel loro compito di osservatori attivi e fattivi, in quanto ultimo e unico baluardo di equilibrio nella fase di sospensione della democrazia in cui ci troviamo, un passaggio nel quale la dimensione naturale di verifica del potere, quella sviluppata dall’opinione pubblica, è silenziata, così come i centri decisivi di produzione del pensiero critico, dalle università ai luoghi di aggregazione politica e culturale.
Questo concetto, di per sé banale, va sottolineato con forza in una fase della battaglia al Covid-19 in cui i meccanismi psicologici messi in moto dalla paura, alimentati dalla costante retorica della reprimenda, rischiano di allentare le difese naturali che il cittadino pone usualmente di fronte al pericolo dell’autoritarismo: nel momento cruciale della ricerca della sopravvivenza, siamo pronti persino a rinunciare al nostro diritto più sacro, la libertà.
E’ a partire dall’esplicitazione di questo principio che va analizzato in maniera sostanziale l’operato pubblico e che è opportuno fissare alcuni punti cardinali che allontanino definitivamente l’equivoco che considera folklore il comportamento, ahimé invece grottesco e inquietante, di numerosi amministratori pubblici. Specie a livello locale, è una lunga sequela quella dei sindaci trasformatisi in sceriffi al di sopra della legge, personaggi che, con il consenso impaurito delle folle, in parte affascinate dal piglio ducesco, inveiscono, minacciano, dileggiano i propri cittadini, promuovendo le loro azioni di forza come “necessarie”: è numerosa l’umanità che in spregio dei propri stessi diritti civili preferisce ancora essere comandata, anziché governata.
Ne fanno parte non solo coloro i quali invocano misure sempre più restrittive, credendo che solo questo sia il modo di sconfiggere la crisi attuale, ma anche quanti si sentono sollevati dalla punizione della quarantena in casa, perché incapaci di organizzarsi in un sistema di sensata autoregolamentazione. C’è un punto di contatto tra queste due categorie: la più totale assenza del senso del Diritto.
Sin dai primi provvedimenti del governo a carattere nazionale, era evidente come quella di rimanere in casa non fosse una libera scelta demandata ai singoli, quanto una precisa indicazione circa il primo dei comportamenti da tenere in ragione della situazione contingente. Non farlo significava infischiarsene di una chiara normativa statale.
Eppure la Costituzione definisce la libertà personale come inviolabile, con la conseguenza che gli eventuali provvedimenti limitativi, sempre provvisori, possano avvenire in casi del tutto eccezionali. Questo, prima di ogni altra cosa, dovrebbero comprendere quanti plaudono agli autoritarismi giustificati dalla crisi del coronavirus: la restrizione delle proprie libertà personali non è cosa da poco. Non può e non deve essere una rinuncia da poco.
In questi momenti, difficili per tutti, deve essere innanzitutto il buon senso a tenerci in casa, non un ordine. Anche perché l’Autorità competente, qualunque essa sia, viene abbastanza deresponsabilizzata, allorquando si lascia che la sua attività sia esclusivamente quella di vietare e punire. L’amministratore più efficiente è colui il quale governa una crisi, non chi – nel tentativo di girarci intorno – la fomenta.
Noi cittadini, in Italia come nel resto del mondo, rimanendo in casa – com’è giusto, in questo momento, che sia – stiamo di fatto portando sulle nostre spalle il peso delle mancanze commesse dalle istituzioni e, su tutte, i limiti del sistema sanitario.
Ma non è possibile pensare di scaricare integralmente sui cittadini, con il benestare di essi stessi, le conseguenze di una crisi per cui, si vedrà a bocce ferme in che misura, i governi, nazionali e locali, dovranno essere pienamente considerati nell’attribuzione dei livelli di responsabilità.
L’umiliazione del cittadino nella società democratica si compie nell’applauso che il cittadino stesso dedica all’amministratore che esagitato impone la segregazione casalinga. Ma osservare responsabilmente un comportamento di limitazione della propria libertà, costituzionalmente garantito, in un momento di crisi globale, non deve né può significare la rinuncia al controllo dei meccanismi democratici e del rispetto delle regole che anche gli altri, soprattutto se si tratta di istituzioni, devono osservare.
Il rischio più grande di una società dominata dalla paura è in tal senso quello legato all’accettazione perpetua della limitazione delle proprie libertà, un’approvazione rassegnata di misure che, nate provvisoriamente e “per il nostro bene”, modificano per sempre, in maniera drastica, la nostra presenza nello spazio democratico, ben al di là dei tempi dell’emergenza.
Si tratta in primo luogo della costruzione del cosiddetto “capitalismo della sorveglianza”, un’architettura globale di controllo che diventa elemento imprescindibile al nostro movimento e che ribalta completamente la cultura contemporanea della sacralità della concessione dello spazio privato. Corea del Sud e Singapore, in questo quadro, hanno già implementato dinamiche di sorveglianza individuale fortemente invasive, che mai sarebbero state accettate sino a poche settimane fa e che vengono invece studiate in questi giorni come modelli virtuosi da esportare in tutto il mondo.
In secondo luogo, vi è la trasformazione di poteri esecutivi invocati durante la conduzione della crisi come necessari e temporanei, in misure “naturalmente” definitive. Sono già molti i governi che stanno utilizzando l’emergenza sanitaria del Covid-19 per assicurarsi un’ampiezza di controllo che nulla ha a che fare con la gestione del virus e intorno a cui, per architettura istituzionale, diventa difficile verificare eventuali abusi di autorità. Gli esempi sono già numerosi.
Benjamin Netanyahu, premier israeliano, ha autorizzato l’utilizzo civile di un sistema di tracciabilità dei dati telefonici sviluppato dal Mossad, il servizio segreto, per operazioni di controterrorismo: oggi l’applicazione ha un ruolo determinante nel controllo del movimento dei cittadini, che possono essere imprigionati fino a sei mesi, se il sistema dimostra perniciosi allontanamenti dalla condizione di isolamento. Sempre Netanyahu ha ordinato la chiusura a tempo indeterminato della Knesset, il parlamento d’Israele, adducendo ragioni di emergenza sanitaria, e ha definito la sospensione dei processi della Corte Suprema, che avrebbe dovuto giudicarlo fra qualche settimana per delle pesanti accuse di corruzione, un procedimento che avrebbe tagliato le gambe alle sue ambizioni di conquistare un nuovo mandato da presidente. Grazie alla sospensione, invece, oggi Netanyhau si trova di nuovo favorito per il ruolo di capo di un governo di larghe intese.
Sta approfittando della situazione anche il presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, che dopo aver più volte dichiarato che la Costituzione del suo paese è per lui “poco più che carta da cesso”, si è garantito poteri di emergenza che ristabiliscono la legge marziale e lo dotano di un budget di 4 miliardi e mezzo di dollari, di cui potrà disporre autonomamente per la battaglia contro la pandemia.
Thailandia e Giordania stanno invece utilizzando il Covid-19 per limitare la libertà di stampa: entrambi i paesi hanno approvato legislazioni draconiane contro i mezzi di informazione e i giornalisti che pubblicano notizie considerate false o pezzi critici contro la gestione della crisi da parte degli esecutivi in carica.
Il Cile, in cui la dichiarazione di “stato di catastrofe” pronunciata dal governo ha riempito le strade di militari, svuotandole dei picchetti di protesta che per settimane hanno manifestato contro l’operato dell’esecutivo; la Bolivia, dove le attesissime elezioni post-Morales del prossimo maggio sono state rimandate a data da destinarsi, mentre l’autoproclamata presidente Jeanine Áñez continua ad accumulare cruciali posizioni di potere; l’Ungheria, nella quale il Parlamento ha avallato un silenzioso colpo di stato nominando dittatore Viktor Orban. Sono questi altri casi eclatanti di stati in cui provvedimenti innecessari, mascherati da risposte d’emergenza per la gestione della crisi sanitaria, stanno sfigurando il volto del sistema democratico, e che si aggiungono a misure meno evidenti, ma non meno profonde. Fra le tante, vale menzionare i casi della Gran Bretagna, che ha trasformato in sceriffi da far west i sui poliziotti di frontiera; le conferenze stampa quotidiane di Donald Trump negli Stati Uniti, dei comizi elettorali che le grandi testate nordamericane hanno deciso di non trasmettere più in diretta, per evitare di prestarsi a grancasse del partito Repubblicano nella corsa alla Casa Bianca del prossimo novembre; la Polonia, in cui Jarosław Kaczyński, leader del partito di maggioranza e presidente ombra, pur di evitare il posticipo delle vicine elezioni nazionali del 10 maggio, che vedranno una serena riconferma del presidente in carica e suo alter ego, Andrzej Duda, sta promulgando una legge che permette ai cittadini in quarantena di votare da casa, evitando di dichiarare uno stato di emergenza che obbligherebbe, in automatico, al rinvio della consultazione.
Queste e tante altre misure che stiamo accettando di rispettare, in nome del contenimento della pandemia, avrebbero bisogno, in tempi di pace, di lunghi e tortuosi passaggi parlamentari. Si tratterebbe di provvedimenti che scatenerebbero accesi movimenti di opinione, che porterebbero all’organizzazione di manifestazioni di piazza, alla formazione di comitati di protesta, al risveglio appassionato della società civile, disposta al peggio pur di difendere lo Stato democratico.
Lo abbiamo dimenticato, tutto questo, in nome della sopravvivenza individuale.
Ma è importante ricordarsi, sempre e oggi più che mai, di quanto essenziale e imprescindibile sia la nostra libertà, accettando solo e soltanto le limitazioni funzionali alla gestione della crisi. E per buon senso, non per ordine.
Ne va della nostra dignità di cittadini nello spazio democratico.
Da questo, soprattutto, dipende il futuro della democrazia.
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