OST è stata per diversi anni una rubrica ideata e curata da Mattia Grigolo, apparsa su Soundwall Magazine. OST ha raccontato i film attraverso le sue colonne sonore.
Ora è su Yanez.
“La lingua dei segni è una lingua che veicola i propri significati attraverso un sistema codificato di segni delle mani, espressioni del viso e movimenti del corpo. È utilizzata dalle comunità dei segnanti a cui appartengono in maggioranza persone sorde. È una comunicazione che contiene aspetti verbali (i segni) e aspetti non verbali (le espressioni sovrasegmentali di intonazione per esempio) come tutte le lingue parlate o dei segni.”
Ora fate silenzio
e smettete di ascoltare, sentire.
Sforzatevi. Ricordo che, quando lessi per la prima volta “Trilogia della Città di K.” di Agota Kristof, il capitolo che mi colpì di più, negli interi tre libri, fu “Esercizi di cecità e sordità”. Nel romanzo, due bambini gemelli sono stati affidati alla loro nonna durante la guerra, personaggio crudele e perfido, dalla quale i due inseparabili fratelli devono riuscire a difendersi per poter sopravvivere ad una situazione che già di per sé è particolarmente difficoltosa. Mettiamola così: nel capitolo che vi ho menzionato, i due si esercitano a non vedere e a non sentire. A turno, l’uno indossa una benda sugli occhi e l’altro si imbottisce le orecchie con dell’erba. L’uno guarda per il sordo, l’altro parla per il cieco. Il capitolo si chiude così: “Dopo un po’, col tempo, non abbiamo più bisogno di un fazzoletto per gli occhi né di erba per le orecchie. Chi fa il cieco volta semplicemente lo sguardo verso l’interno, il sordo chiude le orecchie a tutti i rumori.”
Ora torniamo all’inizio; fate silenzio e impegnatevi a non ascoltare più niente. Anzi, a non sentire più nulla. Riuscite?
No. E’ banale, ma non esiste un modo per cui voi possiate provare a sentire ciò che non sente un sordomuto, a meno che voi non lo siate.
Questa è una rubrica che racconta le colonne sonore dei film.
Stiamo per raccontare la colonna sonora di un film che non ha una colonna sonora, non ha dialoghi, ma solo rumori di fondo.
Ascoltate Sergey
Ucraina. Il giovane Sergey viene ospitato in un istituto particolare. La scena è questa: Sergey arriva con il bus. Sergey chiede informazioni ad una passante per raggiungere il detto istituto. Sergey cammina, arriva ed entra. Cerca la sua stanza. Nel frattempo, tra la palestra dell’istituto e l’adiacente spazio esterno è in atto una rappresentazione teatrale da parte degli insegnanti e degli studenti. Suona la campanella.
Niente di più facile. Niente di più limpido.
Solo che Sergey è sordomuto e che l’istituto è un centro di accoglienza per adolescenti sordomuti.
Ora rileggete la scena iniziale e rivalutate ogni cosa.
Il regista Myroslav Slaboshpytskiy, che si è occupato anche della sceneggiatura, presenta una realtà incredibilmente lucida sulla drammatica, in un film sordomuti. Sfoggia le sue carte migliori nella verità, quella nera e triste dei non-luoghi ai margini della società, della gente lontana dall’attenzione di un mondo che, talvolta, corre troppo veloce per essere inseguito da tutti.
Ambientazioni di una Ucraina fatiscente, sporca, congelata in un tempo e in uno spazio che sembra essersi bloccato nei volti degli adolescenti che ne tratteggiano la scacchiera, sulla quale si muovono due pedine protagoniste: lui, Sergey, e poi Anna.
Chi insegue sono loro, i sordomuti, gli handicappati, i diversi. I reietti che si costringono a vivere, in qualche modo, rubando dove possono rubare le idee e i giochi di chi non è come loro.
Il gioco del potere, per esempio, in un silenzio irreale, fatto di gesti veloci ed emblematici: chi è più forte non urla, usa le mani. Ora per farsi comprendere, ora per sottomettere.
E c’è una storia d’amore e una di odio, sottili come un filo di nylon che metti lì, dove nessuno lo può vedere, tranne che la tua vittima. Il filo lo tendi bene all’altezza del volto, poi aspetti, per regalare dolore. Non perché sei cattivo e nemmeno perché sei crudele. E’ molto più semplice: perché non hai nulla da vendere e nulla da perdere.
Così Sergey conquista un mondo che non è mai stato suo oppure, forse, non è mai stato di nessuno. Chi può desiderare un mondo del genere? Quello scivoloso dei cinque sensi meno due, delle barriere che nessuno ha costruito, ma che ci sono.
E’ un pianeta dove ogni cosa non ha suono o rumore e per sopravvivere lo devi guardare e toccare.
Sergey tocca, con le nocche e con le carezze. Sente l’amore spingersi fino dove è possibile, senza nascondersi negli angoli muti e si lascia andare, perché è giusto così. Perché noi possiamo utilizzare le parole “ti amo” oppure “ti odio” anche da lontano. Sergey ed Anna non possono.
The Tribe è un film che ti costringe al silenzio, con le parole e con le colpe che puoi sentirti addosso, a pungerti, irritarti pelle e sottopelle, passando nei canali nascosti dell’epidermide, poi ai nervi, arrivando infine nella stanza della coscienza.
Musica, Maestro
La verità è che puoi metterti lì a selezionare il dolore dal dolore, a farne degli schemi. La verità è che il dolore non lo evidenzi, non lo sottolinei, non lo metti via. Il dolore c’è. Quello delle nocche contro gli zigomi e dei palmi sulle guance. La punta delle scarpe contro le tibie e le ginocchia. Questo è il suono del dolore. Un dito che percorre scivolando il manto nudo di ragazzi trasformati in bestie, che per scopare e per amarsi e per prendersi, devono nascondersi. Questo è il silenzio dell’amore.
Allora blocco le dita sulla tastiera, alzo lo sguardo dal monitor e guardo la parete davanti a me, bianca. Vado alla finestra. Apro e ascolto la strada. Mi sforzo di non sentire nulla. C’è una coppia che sta salendo in macchina, si dicono qualcosa, aprono le portiere e le richiudono. Si accende il motore. Ci sono due bambini che giocano con un pallone, ridono e urlano. Il collo del piede contro il cuoio della sfera. Una ragazza passa sul marciapiedi, cadenzando i passi con i tacchi sull’asfalto.
Allora io provo ad immaginare di non sentire alcun suono e capisco che non posso non ascoltare, perché non so cosa vuol dire non sentire.
Allora capisco che tutto questo è inutile e inevitabile nel medesimo istante.
Potrei stare qui a raccontarvi perché The Tribe ha una colonna sonora nonostante non ce l’abbia. Potrei elencare quali fra i rumori di fondo del film ne compongono la main title e quali sono a sostegno delle scene con più tensione. Quali a supporto dei “dialoghi”. Potrei farlo, ma non lo farò.
Il ritmo musicale di una rissa fra adolescenti sordomuti, in un film per sordomuti, ove gli unici rumori sono lo schioccare delle botte. Le porte che si aprono e che si chiudono e che divengono la beat e tensione. Il respiro di un amplesso. Lo strozzarsi del dolore e delle urla che non usciranno mai.
Non lo farò, perché per comprendere realmente cosa sto dicendo dovete guardarvi questo film, ma soprattutto dovete ascoltarlo.
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