Prologo
In Europa si è da poco conclusa la prima fase della “Grande Guerra del Nord”, il conflitto continentale per il controllo del Mar Baltico combattuto fra il 1700 e 1721 dal Regno di Svezia di Carlo XII da una parte e da un’alleanza costituita dalla Russia zarista, l’unione di Polonia-Sassonia e il Regno di Danimarca-Norvegia dall’altra. La neonata Prussia di Federico I si muove su un filo, come un equilibrista, per mantenere la neutralità: non possiede ancora la forza per proteggere i suoi confini. È per questo che Federico I ha appena incontrato, vicino al confine polacco, lo zar Pietro il Grande, che lo rassicura: dalla Russia non deve temere niente.
Ciò di cui il re prussiano deve invece preoccuparsi è la peste. Da due anni, infatti, il micidiale bacillo Yersinia pestis imperversa in Polonia e in molte parti dell’Europa nordorientale, mietendo vittime su vittime: fra il 1708 e il 1714 la fatale epidemia costò la vita a più di un milione di persone. Nel viaggio di ritorno in carrozza verso Berlino, nel cupo ottobre del 1709, la carovana reale attraversa paesi completamenti disabitati, cadaveri miseramente accatastati sul ciglio della strada, cani randagi che si affannano sui corpi e che vengono fucilati sul posto dalla scorta del re. Federico I è sconvolto. Rientrato a Berlino istituisce un Collegium sanitatis con l’incarico di stilare un regolamento generale contro la peste. Per non farsi trovare impreparato all’arrivo dell’epidemia, che minacciava direttamente il Brandeburgo e Berlino, nell’ordine di gabinetto del 14 novembre 1709 re Federico dispone che venga costruita, “lontano dalla città e in particolare dai suoi residenti, in un posto aerato e battuto dai venti”, una Pesthaus, un lazzaretto. È la stessa casa reale che mette a disposizione, nella parte nordoccidentale di Berlino, un terreno al di fuori della cinta muraria, proprio a ridosso della riva superiore della Sprea. Sempre con le sue finanze, Federico I fa costruire un edificio che Berlino fino a quel momento non aveva mai visto: una struttura quadrata a traliccio, rivestita di mattoni, lunga 48 metri per lato e alta due piani, in grado di ospitare settanta letti “con sufficiente distanza fra l’uno e l’altro, perché gli appestati possano essere accuditi comodamente e i morti portati via”. Ognuna delle sale del sanatorio è provvista di grandi finestre e meccanismi di ventilazione, in modo da far uscire il più possibile i miasmi degli infettati. Il lazzaretto fu ultimato nel 1710, ma l’epidemia sfiorò solamente il Brandeburgo e risparmiò i 30.000 berlinesi, lasciando inutilizzato un grande edificio a due piani dotato di stalle e birreria, in mezzo ai campi, davanti alla porta per Spandau.
Comincia così, con una pestilenza sventata e un edificio vuoto, la storia dell’ospedale della Charité di Berlino, oggi una delle cliniche universitarie più grandi d’Europa e uno degli ospedali migliori del mondo, oltre che dei più antichi. Per i tedeschi un simbolo dell’eccellenza del proprio Paese, per i berlinesi un’icona della città.
Numeri
Se agli albori della sua storia, come abbiamo visto, sorgeva fuori dalla cinta muraria, oggi l’ospedale della Charité, la cui denominazione ufficiale è Charité Universitätsmedizin Berlin, si trova nel cuore pulsante del centro cittadino, con il suo iconico grattacielo di ventuno piani (costruito fra il 1977 e il 1982 nell’allora Berlino Est) a comporre lo skyline berlinese. Pilastro del sistema sanitario della capitale tedesca, dal 2003 il nome Charité unisce sotto di sé tutte le strutture e le istituzioni che riguardano la medicina a Berlino e che sono distribuite in quattro sedi principali, dette campi: Campus Benjamin Franklin in Lichterfelde, Campus Berlin-Buch in Buch, Campus Charité Mitte in Mitte e Campus Virchow-Klinikum in Wedding. Per organizzare al meglio insegnamento, ricerca e cura del malato sono stati fondati diciassette CharitéCentren, centri dipartimentali, in cui operano circa cento fra cliniche e istituti. I numeri sono quelli di un grande ospedale: 17.615 occupati (68% dei quali donna), fra cui 5.047 appartenenti al personale infermieristico, 4.988 medici e ricercatori, 301 docenti e 1.265 impiegati nel settore amministrativo. Complessivamente ci sono 3.099 letti e sono stati trattati, fra ambulanti e stazionari, quasi 800mila casi. Sempre nell’arco del 2021 sono state effettuate circa 80mila operazioni e si sono registrate 5.460 nascite. Solo nell’ospedale-grattacielo di Mitte (inaugurato nel 1982 dal segretario generale del partito socialista Erich Honecker e interamente rinnovato fra il 2014 e il 2016) ci sono quindici sale operatorie completamente digitalizzate, con tecnologia ultramoderna. Tutte le branche della medicina sono coperte e praticamente non c’è una malattia che allo Charitè non possa essere curata. Queste cifre, che sono facilmente consultabili su internet, rendono bene l’idea di cosa oggi sia l’ospedale della Charité, ovvero una vera e propria grande azienda, di proprietà del Land di Berlino, con un fatturato annuale di 2,3 miliardi di euro.
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Sua Maestà reale, nella sua clemenza, consente che nel lazzaretto per le guarnigioni venga predisposto anche un ospedale per i cittadini… e che tutti i malati lì dentro, sia soldati che civili, siano curati dal Dottor Eller e dal chirurgo militare del reggimento Senff.
Dall’ordine di gabinetto di Federico Guglielmo I di Prussia del 18 novembre 1726
Con la morte di Federico I, avvenuta il 25 febbraio 1713, e la contemporanea salita al trono del suo unico figlio maschio ,Federico Guglielmo (1688-1740), il lazzaretto fuori le mura viene trasformato in un ospedale militare per le guarnigioni di Berlino e Potsdam. Il primo chirurgo fu Ernst Konrad Holtzendorff (1688–1751), che contribuì a migliorare in maniera determinante l’assistenza medica dei malati. D’altra parte, l’Armendirektorium (l’istituto per l’assistenza sociale ai poveri e malati), vista la crescita demografica di Berlino, chiedeva l’edificazione di un Bürger-Lazareth, “un ospedale caritatevole come ospizio per anziani, mendicanti e donne incinte illegittime”. Va da sé che a quei tempi lo Charité era un ospedale per poveri e tale lo rimase fino alla fine del XIX secolo: benestanti e aristocratici si facevano curare a casa.
Di indole dura e militaresca, Federico Guglielmo I, che sarà per questo denominato il Re Soldato, si era adoperato fin dal suo insediamento sul trono per una riforma radicale del sistema di formazione dei medici e dei “chirurghi” militari. La perdita annuale del 20% delle forze dell’esercito a causa di malattie e vecchiaia esigeva misure radicali. Già nel 1713, ricavandolo da una torre delle vecchie scuderie reali, fa costruire un Theatrum Anatomicum, dove l’anatomopatologo Christian Maximillian Spener (1678-1714) esegue dissezioni di cadaveri spiegando anatomia in tedesco. Nel 1724 viene creato il Collegium medico-chirurgicum per l’insegnamento teorico di discipline come patologia, fisica, chimica e matematica. Quello che davvero manca, visto che a Berlino l’università sarebbe arrivata solo quasi cento anni dopo, è una clinica in cui i pazienti possano essere curati e allo stesso tempo gli studenti formati direttamente al letto del malato. Questo gioverebbe anche ai medici militari, perché avrebbero la possibilità di affinare le proprie competenze. Questa idea, suggerita dal medico ufficiale civico Christian Habermaass, convinse Federico Guglielmo I a trasformare il lazzaretto civico per bisognosi in un centro per la formazione medica militare. Venne aggiunto anche il terzo piano e la capienza fu portata a quattrocento letti: ogni paziente aveva il suo, e ciò non era scontato negli ospedali dell’epoca. L’inaugurazione avvenne il 1° gennaio 1727, con il nome di “lazzaretto e ospedale davanti alla Spandauer Thor”.
Alcuni giorni dopo, il 9 gennaio, Federico Guglielmo fu chiamato a decidere in merito alla questione della tassa sul frumento che il deposito comunale (Stadtmagazin) pretendeva dal nuovo Spital. Visto che la corona aveva già abbondantemente finanziato l’impresa, il re rispose e annotò a margine del suo scritto: “Es soll das Hauß die Charité heißen. F.W.”, la casa dovrà chiamarsi Charité. Con ciò ordinò che l’ospedale potesse fare il pane senza dover pagare la tassa sul frumento, perché alla carità, in francese charité, si deve sentire obbligato non solo lo Stato ma anche il cittadino benestante. Johann Theodor Eller (1689-1760), responsabile della medicina interna, e Gabriel Senff (-1738), medico militare e direttore della chirurgia, ne furono i primi direttori.
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Come abbiamo detto, l’utenza tipica dello Charité era costituita da gente povera, generalmente soldati, indigenti, adultere incinte e prostitute. Al piano terra erano alloggiati i cosiddetti Hospitaliten, le persone vecchie e fragili, mentre al secondo e terzo piano si trovava il vero e proprio ospedale con sale separate per donne e uomini, “stanze per i malati interni” e “stanze per i danni esterni”, nonché un reparto ostetrico e un reparto per i militari. Specialmente all’inizio le cose funzionavano, i pazienti stavano bene; ognuno aveva il proprio letto, riceveva pane e zuppa in abbondanza – la domenica perfino la carne – si riposavano e guarivano. Poi però la popolazione di Berlino inizia ad aumentare in modo esponenziale, quadruplicando i suoi abitanti nel giro di cento anni e facendo così crescere, di conseguenza, il numero dei malati. Presto l’ospedale divenne sovraffollato e invivibile. Le condizioni igieniche e sanitarie peggiorarono rapidamente, quasi un terzo dei pazienti moriva. Nel 1798 il parroco luterano dello Charité, Wilhelm Prahmer, scrisse un’accorata lettera al re Federico Guglielmo III (1770-1840), il quale, dopo aver istituito una commissione, accertò che la situazione era molto peggiore di quello che si diceva. Cronache di fine Settecento raccontano di gabinetti da cui esce acqua fangosa e di ranocchie che sguazzano nelle vasche.
Nel corso dei quarantasei anni di governo di Federico II (1740-1786), undici dei quali passati a fare la guerra, lo Stato prussiano era preoccupato di finanziare non tanto il necessario ampliamento dell’ospedale – sebbene Federico il Grande fosse interessato ai problemi della sanità – quanto il poderoso esercito prussiano, che passò durante il suo governo da 80mila a 220mila uomini. Soltanto nel 1785, un anno prima della sua morte, Federico II approvò lo stanziamento di 40.000 talleri per la costruzione di tre nuove ali dello Charité. Ci vollero 15 anni per portare a termine i lavori dell’imponente costruzione tardobarocca, che più tardi verrà chiamata “Alte Charité” (Un altro edificio annesso nel 1834 e destinato ad ospitare i malati mentali e quelli colpiti dalle malattie infettive sarà chiamato “Neue Charité”. Nel 1836/37 fu edificata la Pockenhaus, la palazzina per gli infettati dal vaiolo, la costruzione più vecchia ad oggi rimasta).
Le innumerevoli guerre combattute dalla Prussia nel corso del Settecento misero in evidenza anche la cronica mancanza di personale sanitario per l’esercito e indussero il nuovo re di Prussia Federico Guglielmo II (1744-1795), nipote di Federico II (che non poteva avere figli a causa della sifilide), a fondare nel 1795 la Pépinière, una scuola riservata esclusivamente alla formazione e al perfezionamento dei medici militari (in seguito la Pépinière, parola francese che significa vivaio, semenzaio, diventerà l’Accademia militare Kaiser-Wilhelm, sciolta con il Trattato di Versailles nel 1918). Qui i cadetti (i cosiddetti Eleven) si sottoponevano per quattro anni a una severa educazione militare e a un’istruzione di carattere generale. La vera e propria preparazione teorica medica la svolgevano ancora al Collegium medico-chirurgicum, ma la formazione clinica in chirurgia e medicina interna la svolgevano allo Charité. Un percorso del genere era costoso, ma lo stato prussiano finanziava gli studi di coloro che si impegnavano a servire l’esercito per almeno otto anni. Illustri medici come Rudolf Virchow (1821-1902), pioniere della patologia cellulare, o Emil von Behring (1854-1917), premio Nobel per la medicina nel 1901, hanno svolto la loro formazione alla Pépinière berlinese grazie ad una borsa di studio dello stato prussiano.
All’alba del XIX secolo, quindi, specialmente dopo il trasferimento degli Hospitaliten, lo Charité svolge la doppia funzione di scuola di formazione medica militare (che manterrà fino al 1945) e di ospedale cittadino per gli abitanti meno abbienti di Berlino. Con la riforma ottocentesca del sistema sanitario e assistenziale prussiano assistiamo, però, ad un graduale distacco dello Charité dall’obbligo di fornire cura e assistenza gratuita ai malati e poveri selezionati dall’Armendirektorium. Naturalmente, l’evento che in questi anni cambierà la storia dell’ospedale berlinese, e anche la storia della medicina, è la fondazione nel 1809 dell’Alma Mater Berolinensis, l’università berlinese, grazie alla quale si provvederà a introdurre nello Charité gli strumenti e le metodologie rigorosamente scientifici che si andavano affermando proprio in quel secolo.
Con la fondazione della Friedrich-Wilhelms-Universität (dal 1949 Humboldt-Universität zu Berlin), il Collegium medico-chirurgicum smise di esistere e i suoi professori passarono quasi tutti alla nuova facoltà di medicina. Gli stessi docenti insegnavano anche alla nuova Accademia militare medico chirurgica, che lo Stato prussiano provvide a fondare nel 1811 al posto del Collegium.
Tuttavia, con la creazione dell’Università, vengono a galla anche le divergenze di vedute riguardo alla politica formativa da adottare per i futuri medici militari e civili. Il re prussiano vuole che lo Charité rimanga prerogativa esclusiva dell’esercito, come centro di formazione per i medici militari, escludendo pertanto gli studenti civili dell’università, che si dovevano anche pagare da soli le lezioni per l’abilitazione. Christian Wilhelm Hufeland (1762-1836), professore alla facoltà di medicina e direttore dello Charité, ritiene invece inopportuna e controproducente la distinzione fra chirurghi militari e civili, così come quella fra medici e chirurghi, perché c’è soltanto “una formazione medico pratica”. Hufeland riconosce la superiorità del modello formativo militare e soprattutto il ruolo cruciale che svolge lo Charité, dove la coesistenza e l’unione di medicina e chirurgia è un modello anche per l’università.
Per Wilhelm von Humboldt (1767-1835), padre spirituale dell’università e direttore della pubblica istruzione prussiana, l’università è invece un luogo di scienza, il simbolo dell’ideale di unione e libertà di ricerca e insegnamento. Humboldt si batte per una netta demarcazione fra il percorso di studi universitario e quello empirico pratico dell’accademia militare chirurgica della Pépinière. In merito allo Charité pensa che i suoi pazienti non siano adatti alla formazione clinica degli studenti universitari: troppi malati distraggono i novizi e rendono l’insegnamento dispersivo. L’università iniziò quindi a costruirsi le sue cliniche. La prima fu addirittura in un appartamento civile al 101 di Friedrichstraße, affidata alla direzione del chirurgo Carl Ferdinand von Graefe (1787-1840). Solo nel 1818 l’università riuscirà ad ottenere dei propri edifici in cui insediare le proprie cliniche, in particolare una medica, una chirurgica e oculistica e una ginecologica, proprio in prossimità dello Charité, nella Ziegelstraße.
Questa separazione fra Università e Charité fu breve. Non ci volle molto tempo, infatti, per capire che nei confronti del gran numero di pazienti e della straordinaria varietà delle malattie (fenomeni entrambi causati dall’esplosione demografica di Berlino, che nel 1905 già contava due milioni di abitanti) le piccole cliniche universitarie potevano fare ben poco. I professori universitari ripresero quindi servizio allo Charité e le cliniche iniziarono a essere integrate nella struttura dell’ospedale. La prima a farlo, nel 1828, fu la clinica medica, ma ci vorrà un secolo, nel 1927, affinché l’ultima clinica, quella chirurgica, venga assimilata allo Charité, facendo diventare l’ospedale definitivamente una clinica universitaria: fino al 1951 l’università e lo Charité rimarranno istituzioni formalmente separate.
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Per almeno metà della sua durata il XIX secolo appartiene ancora, almeno per quanto riguarda la medicina e gli standard igienico-sanitari, all’evo premoderno. Si conosceva certamente l’anatomia umana, così come si sapeva che il sangue scorre attraverso il corpo e che le malattie possono essere contagiose. Tuttavia, il modo in cui queste si trasmettono, così come le loro cause, era del tutto sconosciuto. Per la salute dei pazienti erano ancora determinanti la diagnosi e la prognosi, più che la terapia, per la quale gli strumenti a disposizione erano scarsi: per la medicina interna c’erano il classico salasso, i medicamenti a base di erbe e le sostanze lassative ed emetiche. Per le malattie a trasmissione sessuale ci si affidava agli imbonitori. In ambito chirurgico le cose andavano anche peggio: “chi giace sul tavolo operatorio di uno dei nostri ospedali rischia la vita più dei soldati nella battaglia di Waterloo”, dichiarava all’epoca il chirurgo e ostetrico scozzese Sir James Young Simpson (1811-1870), scopritore nel 1847 delle proprietà anestetiche del cloroformio e considerato per questo uno dei padri dell’anestesia (la narcosi da etere era stata inventata un anno prima dal dentista statunitense William Thomas Green Morton). La sua stessa scoperta contribuì a peggiorare il quadro di metà secolo, perché in tutta Europa era quasi raddoppiato il numero di persone che, sotto anestesia, erano disposte a farsi operare. Ma era anche drammaticamente aumentato il numero di coloro che morivano. Gli storici ci dicono che all’Hôtel-Dieu di Parigi su cento persone che subivano un’amputazione ne morivano sessanta. A Edimburgo quarantatré, a Monaco ottanta, a Berlino quaranta e a Zurigo quarantasei. Il problema era, naturalmente, legato alla setticemia, la malattia infettiva dovuta alla persistente presenza nel sangue di batteri, dei quali, allora, si sapeva ben poco.
L’esistenza di microscopici corpuscoli viventi era stata già osservata nel 1683 dall’olandese Mijnheer Anton van Leeuwenhoeck (1632-1723), in un ristagno d’acqua piovana di una botte e con un microscopio fatto artigianalmente. Tuttavia, ci vollero cento anni per prendere in considerazione l’idea che questi minuscoli organismi potessero essere gli agenti patogeni responsabili di molte malattie. La prima scoperta di un microorganismo patogeno specifico di una malattia – la Spirocheta Borrelia recurrentis, responsabile della febbre ricorrente– fu fatta nel 1868 dal dottor Hugo Franz Otto Obermeier (1843-1873), brillante medico assistente di Rudolf Virchow all’istituto di anatomia patologica dello Charité (fondato nel 1856 proprio da Virchow). Ma altri anni dovranno passare per assistere alla rivoluzione microbiologica dell’ultimo quarto dell’Ottocento.
Credenze secondo le quali le cause di malattie e contagi sarebbero nascoste nei miasmi, ovvero quelle esalazioni malsane che invadevano l’aria provenendo dal terreno o causate da chissà quale altro evento astrale, non erano limitate alla popolazione incolta. Anche Johann Christian Jüngken (1793-1875), direttore per ventisette anni della clinica chirurgica dello Charité (cauterizzava le ferite con i ferri roventi) era convinto che non esistesse nessun microrganismo vivente. E poi: che decisive per il successo di un’operazione chirurgica siano le condizioni igieniche era ancora una cosa sconosciuta. Gli stessi medici dello Charité, come viene scritto in un resoconto del 1924, ispezionano le ferite dei pazienti con le stesse mani con cui fino a pochi minuti prima avevano toccato ciotole con preparati putridi e purulenti. Non sorprende, allora, che i chirurghi si azzardavano ad aprire la cavità addominale solo nelle circostanze estreme e disperate, perché la mortalità postoperatoria in questi casi era tragicamente alta: solo uno su due sopravviveva alla sepsi.
Heinrich Adolf von Bardeleben (1819-1895), chirurgo tedesco e successore di Jüngken nel 1868 alla direzione della clinica chirurgica, credeva invece fortemente, come molti medici del nuovo corso moderno della medicina, che i microrganismi viventi esistessero, ma che venissero dall’aria. È lui che introduce allo Charité i nuovi metodi antisettici del medico scozzese Joseph Lister (1827-1912), considerato il padre della chirurgia antisettica. Nel 1865 Lister scopre che l’acido fenico, un composto chimico che poi prenderà il nome di fenolo, uccide i batteri e può essere usato, insieme alle finissime e costose garze prodotte in Inghilterra, come mezzo antisettico nelle operazioni chirurgiche e nel trattamento delle ferite. Per un certo periodi, così, le sale operatorie dello Charité, come quelle degli ospedali di mezz’Europa, saranno letteralmente cosparse di puzzolenti nuvole di fenolo, così come le tende dei lazzaretti militari dell’esercito prussiano durante la guerra franco-prussiana del 1870-71, cui Bardeleben stesso partecipò come medico militare. Naturalmente, nel giro di poco tempo vengono alla luce anche i nefasti effetti del fenolo per la salute umana e si sperimentano altri metodi antisettici meno pericolosi. Bardeleben crede di aver trovato la soluzione nell’acido salicilico e nel cloruro di zinco, ma, nonostante tutto, allo Charité si continuava a morire di cancrena. La risposta, come noto, non arriverà dalla chimica, ma dalle ricerche batteriologiche di Robert Koch, il primo a dimostrare una diretta correlazione fra microorganismi e malattie.
Il lungo secolo d’oro dello Charité
L’Ottocento è però anche il secolo d’oro dello Charité, un secolo che durerà fino all’avvento del nazionalsocialismo in Germania, includendo dunque tre decenni del Novecento. Per tutto questo periodo l’ospedale berlinese è stata la Mecca della medicina, punto di incontro di studenti e professori di ogni parte del mondo, attratti dai grandi luminari della scienza medica che lavoravano allo Charité. Le origini di questo successo stanno in un fenomeno che è tipico dell’Europa ottocentesca tutta, non solo di Berlino, e che consiste nella progressiva assimilazione dell’ospedale attraverso l’università. Nello sviluppo di questo processo la medicina universitaria, come si legge in un quaderno del 2010 della rivista specialistica Deutsches Ӓrzteblatt, adotta progressivamente i metodi e gli elementi essenziali della medicina ospedaliera basata su una formazione medica militare, ma le conferisce un rango scientifico universitario riconosciuto. Gli stessi grandi lavori edilizi di rinnovamento che si svolsero fra il 1896 e il 1917 – e che diedero allo Charité quell’impronta architettonica riconoscibile ancora oggi nello stile delle basse palazzine in mattoncini rossi – riflettono la divisione, l’associazione e la specializzazione delle varie discipline mediche e scientifiche.
I primi passi di questo processo di “scientificizzazione” della prassi ospedaliera si possono cogliere nell’opera di Johann Lucas Schönlein (1793-1864), dal 1840 direttore della clinica medica dello Charité, il quale sostanzialmente riforma e modernizza la medicina tedesca introducendo, prima al Juliusspital di Würzburg e poi a Berlino, i metodi delle scienze naturali a scapito degli approcci tipici della filosofia della natura. Il suo merito è quello aver concepito la malattia come un processo di cui si possono riconoscere specifici sviluppi e caratteristiche, e in base a questo, quindi, poterle classificare, sulla scorta della tassonomia del botanico Carl von Linné (1707-1778). Schönlein fu il primo ad utilizzare nella diagnostica analisi chimiche e metodi fisici come l’auscultazione, la percussione e la misurazione della temperatura. È il suo allievo Ludwig Traube (1818-1876), primo assistente medico civile allo Charité, che riconosce che la febbre è un sintomo di molte malattie diverse e non una malattia sistemica in sé stessa. Insieme al fisiologo Johannes Müller (1801-1858), Schönlein fonda negli anni 40 la Berliner Schule der Medizin, la scuola berlinese di medicina. D’altra parte, con l’introduzione della narcosi e il miglioramento degli standard igienici attraverso procedure asettiche e antisettiche, anche la clinica chirurgica, grazie a personalità come Carl Ferdinand von Graefe (1787-1840), Johann Friedrich Dieffenbach (1792-1847), Bernhard von Langenbeck (1810-1887) ed Ernst von Bergmann (1836-1907) contribuirà alla fama internazionale dell’ospedale.
Nobel
Numerosi sono i Koryphäen (parola tedesca che indica persona illustre per somma dottrina) che in questo lungo Ottocento hanno fatto dello Charité uno dei principali centri scientifici per la ricerca medica internazionale. Qui possiamo soltanto citarne alcuni, iniziando con colui che a buon ragione è considerato il padre della moderna patologia cellulare, ovvero Rudolf Virchow (1821-1902), professore di anatomia patologica prima all’Università di Würzburg (1849), e poi a quella di Berlino (1856-1902). Con la sua chiamata alla nuova cattedra di patologia dello Charité nel 1856 ha inizio anche la storia del primo Istituto tedesco di anatomia patologica, che proprio Virchow volle far costruire e che adesso, sempre nel medesimo edificio storico di allora, è sede del Berliner Medizinhistorisches Museum (Museo di storia della medicina).
Già da giovane, durante il suo primo soggiorno berlinese, Virchow aveva riconosciuto nella cellula l’unità fondamentale della vita (da cui la legge di derivazione cellulare omnis cellula e cellula, ogni cellula deriva da una preesistente cellula). La sua teoria della “patologia cellulare”, pubblicata nel 1855 e che afferma che “le malattie si basano sul malfunzionamento della capacità cellulare di nutrirsi, accrescersi e riprodursi”, è oggi uno dei pilastri della moderna patologia. Con i suoi studi Virchow contribuì anche alla definizione di quadri clinici morbosi come quelli della trombosi e dell’embolia, enucleandoli dalla più ampia e vaga nozione di “infiammazione venosa”, così come fu lui a coniare nel 1845 il termine Leukämie (dal greco leukós, λευκός, luminoso, lucente per il patologico accrescimento di globuli bianchi). Non comprese invece l’influsso dei microorganismi sulla genesi delle malattie. Virchow fu anche uno dei pochi eruditi universali del suo tempo e uomo politico di vedute repubblicane, che concorse con la sua azione politica alla costruzione di una struttura sanitaria in grado di rispondere alle esigenze di tutta la popolazione berlinese.
Virchow non fece in tempo a vincere il premio Nobel, ma fra coloro che ci riuscirono ci sono il medico e ricercatore tedesco Paul Ehrlich (1854-1915), fondatore della chemioterapia antibiotica e scopritore, insieme al giapponese Sahachiro Hata, del farmaco Salvarstan (arsfenamina) contro la sifilide, noto anche come “Preparato 606”, perché la formula finale arrivò dopo 606 esperimenti sugli animali. Per i suoi contributi all’immunologia Ehrlich riceve il Nobel nel 1908. Oppure Emil von Behring (1854-1917), batteriologo tedesco, primo premio Nobel per la medicina nel 1901 per la scoperta dei sieri antidifterico e antitetanico, cosa che gli fece guadagnare il nome di “salvatore dei bambini” e soprattutto, visto che il siero antitetano risultò estremamente utile durante la Prima guerra mondiale, “salvatore dei soldati”.
Entrambi erano allievi di Robert Koch (1843-1910), considerato insieme a Louis Pasteur il fondatore della batteriologia e microbiologia moderne e il primo, nel 1876, capace di isolare, coltivare e far riprodurre il Bacillus anthracis, usando l’umore acqueo dell’occhio di un bovino come liquido di nutrimento per i batteri. Trasferitosi a Berlino nel 1880 dopo la nomina a membro dell’Ufficio imperiale d’igiene, Koch introduce importanti innovazioni relative alla preparazione dei terreni di coltura, alle tecniche microscopiche e ai processi di colorazione per individuare i germi. A lui va inoltre il merito di aver evidenziato per la prima volta gli agenti patogeni responsabili di malattie come il colera e la tubercolosi: per la sua descrizione nel 1882 del bacillo della tubercolosi (Mycobacterium tuberculosis) Koch riceve nel 1905 il premio Nobel per la medicina.
Altre personalità legate alla ricerca scientifica dello Charité in questo periodo sono il fisiologo Emil Du Bois-Reymond (1818-1896), che dimostra, insieme al collega Hermann von Helmholtz (1821-1894), che tutti i fenomeni in cui è presente la vita sono riconducibili a regolarità di ordine scientifico naturale e non esiste nessun principio o forza vitale, come ancora insisteva a credere, per esempio, il fisiologo Johannes Müller. E poi Bernhard von Langenbeck (1810-1887), uno dei chirurghi più importanti della seconda metà dell’Ottocento, o il medico psichiatra Wilhelm Griesinger (1817-1868), che già più di centocinquanta anni fa ipotizzò ciò che oggi le neuroscienze hanno dimostrato, ovvero che i disturbi e le disfunzioni del pensiero e della percezione hanno dei correlati neurali in precise aree del cervello.
Se oggi le protesi intelligenti sono dotate di minicomputer in grado di decifrare i segnali delle cellule nervose, molto lo si deve al genio del controverso chirurgo Ferdinand Sauerbruch (1875-1951), così attaccato ai propri pazienti da continuare a operare sotto i bombardamenti del 1945 nel “Sauerbruch-Bunker” dello Charité, ma anche coinvolto in maniera decisiva nell’approvazione degli esperimenti sugli esseri umani di Josef Mengele. Suo è lo sviluppo a partire dal 1915 di una protesi d’avambraccio (il cosiddetto braccio di Sauerbruch), pensata principalmente per gli invalidi della Prima guerra mondiale. Inoltre, Sauerbruch è stato il pioniere della chirurgia toracica, il primo a effettuare un’operazione a cuore aperto e a inventare nel 1904 la “camera a pressione negativa” per la ventilazione artificiale, un precursore del polmone d’acciaio.
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Il 2 maggio 1945 l’Armata rossa occupa lo Charité. I bombardamenti degli ultimi giorni di guerra hanno distrutto quasi completamente l’ospedale: solo il 10% del complesso è rimasto intatto, il resto solo rovine ed edifici pericolanti. Sette dei ventitré accusati al “Processo dei medici” di Norimberga (il primo dei dodici processi che seguirono quello principale contro i responsabili dei crimini di guerra del nazionalsocialismo) appartenevano alla facoltà di medicina dello Charité. Tre di loro furono condannati a morte, tra i quali Karl Franz Gebhardt, membro delle SS e medico personale di Heinrich Himmler. Dai dati a disposizione si evince che a Berlino, fino al 1945, siano stati assassinati oltre 300.000 fra bambini disabili, pazienti psichiatrici e prigionieri di campi di concentramento.
Nella Berlino divisa del dopoguerra lo Charité si ritrova esattamente al confine fra la zona sovietica e il settore inglese. Per le autorità della Repubblica democratica tedesca la paura più grande è quella di una fuga dei propri cittadini verso la Repubblica federale tedesca, cosa che porterà alla costruzione del Muro nel 1961. La DDR accusa i servizi segreti federali di compiere azioni di convincimento nei confronti dei medici dello Charité, in occasione di congressi internazionali, promettendo posti di lavoro attraenti e ben pagati. Quanto ci sia di vero in tutto ciò non si sa ancora, occorrerà aspettare l’apertura degli archivi per le ricerche degli storici, ma certamente possiamo dire che negli anni della Guerra Fredda per lo Charité è stato grande il pericolo di essere causa di conflitto, se non altro per il fatto che non pochi membri del corpo docente, ma anche medici, infermieri, personale tecnico e studenti abitavano nella parte occidentale di Berlino. Furono scritte anche belle pagine di storia della scienza: il primo pacemaker della Germania orientale fu sviluppato dal cardiologo Joachim Witte, il quale, di sua iniziativa, prese contatti oltrecortina con la ditta Biotronik di Berlino Ovest.
Durante gli anni della Cortina di ferro lo Charité continuò tuttavia la sua rinascita. Nel 1951 si compì la definitiva fusione con le cliniche universitarie e nel 1960 fu ultimato il ripristino della tipica struttura a mattoncini rossi. Furono costruite anche la clinica oncologica e quella di dermatologia. Alla fine, per la ricostruzione e l’ammodernamento dello Charité le autorità della Germania est investirono 120 milioni di marchi orientali. Anche fra i professori ci fu qualcuno che fece il percorso inverso da Ovest verso Est, come l’austriaco Otto Prokop (1921-2009), fino al 1987 direttore dell’istituto di medicina legale dello Charité. Altri nomi illustri di questi anni sono quelli di Samuel Mitja Rapoport (1912-2004), il più importante biochimico della DDR, e di sua moglie Ingeborg Rapoport (1912-2017), pediatra, neonatologa e convinta socialista.
Ricercare, insegnare, curare, aiutare
Oggi lo Charité è veramente uno degli ospedali migliori del mondo, per la precisione il quinto, almeno secondo una recente indagine del settimanale USA Newsweek, riferita all’anno 2022. Inoltre, è la nona volta di fila che l’ospedale berlinese risulta in cima alla classifica delle 100 “migliori cliniche della Germania”, graduatoria basata sui dati raccolti dal centro di ricerca indipendente MINQ (Munich Inquire Media GmbH) per conto del settimanale tedesco Focus, che nel 2021 ha interrogato 14.146 medici e preso in considerazione 1.247 ospedali della Repubblica federale tedesca.
Gran parte delle ragioni di questo successo è dovuta al grande rilievo che assume, e che ha sempre assunto, la ricerca medica di base, portata avanti da scienziate e scienziati provenienti da più di cento differenti Paesi del mondo e che annualmente lo Charité finanzia con circa 190 milioni di euro, creando ulteriori 3.000 posti di lavoro. Se è vero che questa integrazione fra ricerca, insegnamento e cura del paziente si realizza ad alti livelli anche in molte altre prestigiose cliniche universitarie, è vero pure che il numero di pazienti in queste cliniche è abbastanza contenuto. Per lo Charité, come abbiamo visto, i numeri sono quelli di un grande ospedale pubblico, aperto a tutti i cittadini e le cittadine.
Proprio per favorire l’interazione fra ricerca medica di base e ricerca clinicamente orientata, nel 2012 è nato nel Campus di Mitte il nuovo centro di ricerca CharitéCrossOver, uno spazio addizionale di ricerca e insegnamento di 13.600 m², sede del Cluster of Excellence NeuroCure. Stessa funzione svolge il “Berliner Institute of Health”, l’istituto di ricerca biomedica dello Charité e del Centro Max Delbrück per la Medicina Molecolare. Fondato nel 2013, il nuovo Istituto berlinese di ricerca sulla salute, terzo pilastro dello Charité insieme alla clinica e alla facoltà, si pone l’ambizioso obiettivo della cosiddetta “medizinische Translation”, ovvero sviluppare nuove idee di ricerca a partire dalle osservazioni cliniche.
Detto in altre parole, significa fare in modo che i risultati della ricerca biomedica vengano trasferiti in nuovi approcci per la previsione, la prevenzione, la diagnostica e la terapia personalizzate; significa trasferire in clinica “i rapidi progressi della biologia molecolare e cellulare, per poter offrire ai pazienti affetti da gravi malattie trattamenti personalizzati”; significa anche, in un percorso inverso a partire dalle osservazioni della pratica clinica quotidiana, sviluppare nuove idee per la ricerca. Per farlo, come riporta la stessa pagina web del Centro, “guardiamo all’intero spettro, dal livello delle singole cellule del corpo alla società nel suo complesso: dalla cellula alla società”.
Bibliografia principale consultata
Gerhard Jaeckel, Die Charité, Bayreuth, 7 ed., 2006.
Deutsches Ӓrzteblatt, 107/8, 26 febbraio 2010.
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