“Das ist Kunst übrigens, Leute”
Doris Akrap.
“E Yasmin Musharbash del Die Zeit, la giornalista di sinistra, completamente idiota, intellettualmente ritardata cristiana e leccaculo dell’Islam, non è affatto meglio: infilati il tuo motto “L’Islam è pace” nel didietro.”
A queste parole seguono applausi, fischi di incoraggiamento, urla. Non siamo a un raduno di estremisti di destra, ma a una performance di Hate Speech Re-enactment, a Berlino.
Il tipo di rappresentazione di cui si sta parlando prende le mosse, nella forma, dai poetry slams di origine anglofona. Mentre nel contenuto si rifà ad una tradizione più antica.
Letterariamente gli hate speeches, discorsi di incitamento all’odio, derivano dall’invettiva, variante più alta del vituperium di matrice comica e caricaturale della letteratura latina. Questa è, secondo la definizione dell’enciclopedia Treccani, un discorso polemico concitato e violento, di accusa, di oltraggio, di rimprovero, contro persone o cose. Strumento politico usato da Cicerone e Sallustio, genere tornato in gran voga durante il Trecento e Quattrocento di cui Poggio Bracciolini e Francesco Petrarca sono stati illustri esponenti. Ma le invettive, sostiene Jürgen Brokoff, professore di letteratura tedesca contemporanea alla Freie Universität di Berlino, esistono da quando esiste il linguaggio. Il linguaggio è di per sé uno strumento neutro, che si può usare per fare del bene, come per fare del male. Ciò che c’è di offensivo e svilente non si può stabilire solo in base al contenuto dei discorsi e al significato delle parole, piuttosto, è spesso la modalità con cui viene enunciato il discorso a renderlo tale. Brokoff, tornando alla contemporaneità, descrive poi il fenomeno dello Hate Speech Re-enactment come un metodo mutuato dal Ready-made dadaista, attraverso il quale l’artista estrapola un qualcosa dal suo contesto e lo posiziona in uno nuovo e differente. Grazie a questa trasposizione il significato iniziale, in questo caso gli intenti di ledere e offendere personalmente il destinatario dei commenti, acquisisce grazie all’ambito della performance e al suo essere inscenato, una dimensione artistica che lo rende, a tutti gli effetti, un’opera d’arte.
Oltre alla traslazione da un contesto all’altro, ciò che rende possibile all’inscenamento dei discorsi d’odio l’attribuzione di una valenza artistica è quella che Judith Butler nell’introduzione a “Parole che provocano. Per una politica del performativo” definisce come “possibilità per un’esistenza sociale.” “Quando si viene insultati, paradossalmente ci viene data la possibilità per un’esistenza sociale. […] L’insulto potrebbe sembrare fissare o paralizzare coloro i quali lo ricevono, ma può anche provocare un’inaspettata, potente risposta.”
Nel loro utilizzo contemporaneo, le filippiche hanno assunto spesso i connotati di odio razziale, di classe o di genere. E con la moltiplicazione dei canali su cui diffonderle si sono allargate capillarmente creando sottocategorie specializzate di odio. Internet è chiaramente il sostrato più fecondo per la nascita di gruppi di ostilità. Si pensi al generico troll — un individuo che interagisce con altri utenti del web, nello specifico sulle piattaforme social, tramite messaggi provocatori, irritanti, fuori tema e privi di senso con il solo obiettivo di disturbare la comunicazione e fomentare gli animi — o ai blog di incel — forum in cui uomini involontariamente casti si radunano per insultare e denigrare e sfogare tutto l’odio e risentimento che provano per le donne che si rifiutano di avere rapporti sessuali con loro. Si pensi sopratutto all’alt-right.
La destra alternativa, come scrive Angela Nagle in “Kill all normies”, è un movimento politico statunitense nato dal canale /pol/ ( Politically Incorrect) dell’imageboard 4chan —un sito web sulle cui bacheche gli utenti possono postare immagini e commenti in maniera completamente anonima. Questo, oltre a radunare diverse ideologie vicine all’antisemitismo, neonazismo e teorie di supremazia razziale, ha cominciato ad occupare decisamente troppo spazio anche al di là della vita virtuale. Il sito di informazioni Breitbart News Network, fondato nel 2007 da Andrew Breitbart, si è consolidato nel tempo come principale canale di informazione e di espressione per i membri del movimento. Dal 2016 fino a poco fa l’amministratore dell’azienda era Steve Bannon, il quale ha condotto la campagna elettorale dell’attuale presidente americano.
Gli alt-right si preoccupano principalmente dell’IQ, della demografia europea e del declino della civilizzazione, della decadenza della cultura, del marxismo culturale, anti-egalitarsimo e islamizzazione. Ma soprattutto, come suggerisce il nome, si preoccupano di creare un’alternativa alla destra conservativa che per la loro molle, passività cristiana, viene liquidata come “cornservativi” (cuckservative) — termine che si riferisce all’essere metaforicamente cornuti rispetto agli invasori non-bianchi che approfittano delle loro donne, nazione e razza.
Qualcosa di simile nel panorama tedesco prende il nome di Pegida (Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente), partito di estrema destra fondato da Lutz Bachmann nel 2014. Bachmann, oltre ad avere un passato di frequenti problemi con la legge, è stato condannato dalla procura della repubblica federale per incitamento all’odio, dopo aver pubblicato sulla pagina Facebook di Pegida degli interventi in cui si riferiva ai migranti chiamandoli, tra le altre cose,“ bestie fastidiose”, “sporca gentaglia.” Nelle elezioni del 2015 Pegida è riuscita ad ottenere a Dresda, dove è nata, il dieci per cento dei voti. Alcuni dei membri sembrano essere venuti in contatto tra loro durante le presentazioni del controverso libro di Thilo Sarrazin, “Deutschland schafft sich ab” (La Germania si distrugge da sola) uscito nel 2010, in cui l’autore sosteneva che l’immigrazione musulmana in Germania stesse condannando la nazione a diventare un paese meno intelligente. Attualmente, l’Alternativ für Deutschland (AfD) partito populista di estrema destra che ha vinto nelle elezioni del 2017 novantaquattro posti in parlamento, raggiungendo il 12,6% dei voti, si è detta felice di poter collaborare con Pegida in sede di governo.
Il tema delle discriminazioni e razzismo è particolarmente delicato in Germania, nonostante, come in tutti gli altri stati europei, sia un fenomeno fin troppo presente. I provvedimenti presi per contrastarlo, al di là delle manifestazioni politiche, assumono spesso forma di progetti creativi come è stato il caso di Hate Poetry, e come è stato quello di “Glaube, Liebe, Hoffnung. Nachrichten aus dem christlichen Abendland” (Fede, Amore, Speranza. Messaggi dall’Occidente cristiano).
Hate poetry è un progetto nato nel 2012 da un’idea di Ebru Taşdemir, con Doris Akrap, Deniz Yücel del quotidiano berlinese taz, Hasnain Kazim, Özlem Gezer del Der Spiegel, Yassin Musharbash e Özlem Topcu del Die Zeit, e Mely Kiyak, che a un certo punto hanno deciso che era il momento di far sapere a tutti “was man da täglich für‘n Scheiß kriegt” quanta merda si subisce quotidianamente. I membri del collettivo, in attività fino al momento dell’incarcerazione in Turchia del giornalista turco-tedesco Deniz Yücel, declamavano davanti a una platea, i commenti, le lettere e le email di odio che la redazione riceveva da parte dei lettori.
“Io credo che debba essere più sottomessa. Se noi tedeschi non avessimo lasciato entrare i suoi nonni, adesso lei probabilmente indosserebbe il velo, avrebbe sei figli e non scriverebbe per il Der Spiegel, se mai sapesse scrivere.”
Le reazioni del pubblico alle rappresentazioni del gruppo furono, in un crescendo emotivo, in un primo momento sconcertate e imbarazzate, poi mortificate, fino a indignate. Mano a mano che diventava chiara l’ironia e la verve polemica con cui venivano letti gli attacchi personali ai membri delle testate, l’atmosfera si distendeva per poi diventare ilare. Lo spettacolo ha riscontrato un successo insperato. Il collettivo ha girato per la Germania portando in scena il suo show di insulti arrivando fino in Svizzera. Doris Akrap in un’intervista, racconta divertita come, col passare del tempo, si siano venute a creare quasi spontaneamente le categorie in cui gli sketch erano suddivisi: “Egregio Signor Stronzo/ Gentile Signora Troia”, “Disdetta dell’abbonamento”, “Breve ma sporco.”
“Glaube, Liebe, Hoffnung. Nachrichten aus dem christlichen Abendland” è un libro pubblicato nel 2015 dagli autori Hannes Bajohr e Gregor Weichbrodt. I fondatori del collettivo 0x0a, con il quale si occupano di produrre letteratura digitale, hanno deciso di mettere le loro competenze settoriali al servizio della comunità. Con una tecnica che loro stessi hanno definito: “Entlarvung durch Zitat”, smascheramento tramite citazione, quando Pegida ha iniziato ad avere grossa risonanza mediatica, hanno deciso di utilizzare tutto il materiale che veniva pubblicato dal movimento sul social network per fare due operazioni fondamentali: la prima è stata quella di creare un corpus che raccogliesse tutti i commenti del gruppo Facebook Pegida, la seconda è stata quella di organizzare questo corpus in un libro, il quale è suddiviso in tre capitoli eponimi ed esemplificativi:
Credo che il 90% dei poliziotti siano con il cuore dalla nostra parte.
Amo la Paulaner, il bradwurst (sic), la BMW e Pegida.
Spero che alle prossime elezioni votiate tutti AfD.
Molti dei commenti riportati nella pubblicazione presentano errori di battitura o grammaticali, frasi sconnesse internamente e senza pertinenza logica tra loro. Gli autori volevano considerare la rivendicazione del diritto sull’Occidente cristiano da parte dei sostenitori di Pegida, alla luce delle loro stesse parole. Sostenendo infatti che spesso, anziché scrivere un editoriale acceso e dai toni moralizzatori, è più efficace mostrare i discorsi di chi si vuole mandare a fondo lasciando che lo facciano da soli attraverso la fallacia dei loro ragionamenti.
Per quanto sia forse una visione idealizzata del potere delle parole e il libro sia un prodotto recepito probabilmente soltanto da una nicchia di intellettuali e persone che non avevano bisogno di essere convinte che Pegida fosse un movimento di matrice destrorsa e razzista, non si può negare l’intento, riuscito, di creare da beceri commenti online, un’opera letteraria sperimentale.
Ciò che accomuna entrambi i collettivi presi in analisi è il fatto che si siano occupati di ribattere all’odio con la loro stessa arma di chi in prima istanza voleva ferire. Non inventando nuovi insulti e offese in risposta, generando così un circolo vizioso infinito, bensì riutilizzando le parole già in circolazione contro gli stessi che per primi le avevano pronunciate. Mettendo in pratica quello a cui Brokoff si riferisce come trasposizione di contesto. L’efficacia di questa pratica è data dal processo che Judith Butler spiega molto chiaramente affermando che:
“L’intervallo tra gli enunciati non solo rende possibile la reiterazione e la risignificazione di tali enunciati, ma mostra come le parole possano, con il tempo, diventare disconnesse dal loro potere di offendere e ricontestualizzate in maniera affermativa.”
L’odio genera odio, sì, ma anche arte.
REDAZIONE
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