Non ricordo che macchina avevamo all’epoca, forse una Fiat Tempra. I miei genitori stavano ancora insieme. Il fine settimana, spesso, ci venivano a prendere all’uscita da scuola, il sabato, all’ora di pranzo. Ci fermavamo a mangiare dei panini con il pomodoro e il formaggio all’Agip subito dopo l’uscita di Villafranca, sull’autostrada Messina – Palermo, e poi proseguivamo verso la casetta in montagna a Badiavecchia; per arrivare, da Messina, ci vuole circa un’ora e mezza. A volte, se erano di buon umore, compravano anche una bottiglia di chinotto. Ma era raro, a quel tempo, che i miei genitori fossero di buon umore. All’epoca uscivamo a Barcellona Pozzo di Gotto e da lì andavamo sù attraversando Terme Vigliatore e Mazzarrà Sant’Andrea, mentre qualche anno dopo, e ancora oggi, non avremmo più preso quella strada, ma saremmo passati da Falcone, “perché si fa prima”, continua a sostenere mio padre. Eppure io non ne sono tanto sicuro.
E’ un sabato pomeriggio bellissimo, quello del 1 ottobre 1994. C’è il sole forte e secco della Sicilia di primo autunno. Dalla macchina che percorre un tratto di strada che sento mio come poche altre cose al mondo, si vede il mare che va sbattere contro le Isole Eolie, e sembra quasi di poterle toccare nell’aria lieve di questa giornata. Dall’autoradio provengono le voci di Paolo Vallesi, di Marco Masini, di Antonello Venditti, comunque sia di un cantante italiano: mia madre è tassativa, si ascolta solo Radio Italia. A un certo punto, quando ci addentriamo fra le curve continue dei Monti Peloritani, e in lontananza comincia a scorgersi la Rocca Salvatesta, iniziano le intermittenze. Mia madre muove la manopola alla ricerca di una frequenza che abbia campo, ma trova solo Radio Margherita e l’onnipresente Radio Maria, che prende pure al Polo Nord, e allora, finalmente arresa, la spegne.
Arriviamo a Badiavecchia che sono da poco passate le 3 del pomeriggio. In piazza, a quell’ora, non c’è ancora nessuno. Lo stuolo di quasi ottantenni, che nel corso degli anni vedrò diventare novantenni e poi, qualcuno, sfiorare quota 100, non si è ancora posizionato sulle panche che costeggiano lo spiazzo per il cuttigghio quotidiano: si comincia all’imbrunire, verso le 5. Mio padre parcheggia la macchina nel cunicolo di fianco alla chiesa e poi da lì camminiamo sul sentiero di mattonelle che ci porta fino a casa. Mia sorella non si capisce bene dov’è, con la testa, però c’è. Oggi che la casa di montagna è stata rinnovata faccio quasi fatica a ricordarla così com’era a metà degli anni’90. Al piano di sopra, dove adesso c’è la cucina, c’era una terrazza. Mentre il giardino sul retro, dove oggi mio padre ha messo in piedi un orto che produce, fra le altre cose, delle mastodontiche zucchine lunghe siciliane, era una giungla selvaggia e disordinata di fichi d’india e fichi e basta. Sino a quando non siamo partiti per studiare, e ancora per molto tempo dopo, a Messina ci siamo sempre spostati, ogni quattro o cinque anni, da un appartamento in affitto all’altro. Cosi la casa di Badiavecchia è rimasta, nel tempo, l’unico luogo fisico coerente della mia vita di bambino, di adolescente, di ragazzo, di giovane uomo e poi di adulto. E adesso che scrivo e penso a tutti i frammenti di esistenza fissati fra quelle mura, mi rendo conto che forse, quando penso a Casa, con la “C” maiuscola, a un posto mio e basta dove, alla fine di tutto, posso sempre tornare, penso certamente a Badiavecchia.
Quel fine settimana di ottobre scorre uguale a tutti gli altri fine settimana in cui andiamo nella casa in montagna. Nel pomeriggio facciamo una passeggiata al fiume, la sera guardiamo Scommettiamo Che oppure, se è estate, Giochi Senza Frontiere. Spesso mia madre cucina delle pizzette fritte buonissime, alcune bianche, altre solo con la salsa di pomodoro, altre ancora col formaggio. La domenica facciamo un giro a Novara di Sicilia, che è il paese grande, a volte andiamo in macchina a Mandrazzi, che è il punto più alto dei monti, oltre i 1.000 metri. Poi, dopo pranzo, ci rimettiamo in auto e torniamo a Messina. A volte mia madre ci lascia sentire un po’ di cronaca delle partite, Tutto il calcio minuto per minuto, e ricordo sbiaditamente che quella domenica il Milan, di cui allora, a 11 anni, sono grande tifoso (come tutti i bambini del Sud, sono obbligato a tifare una squadra del Nord, visto che il calcio, come Cristo, si è fermato a Eboli) vince 1 a 0 contro il Brescia. Me lo ricordo bene perché il telecronista che sta raccontando Juve-Inter, come accade sempre quando arriva un gol, viene interrotto da Milano: ha segnato Marco Simone, che è uno dei miei giocatori preferiti, dopo Marco Van Basten.
In quel fine settimana di ottobre succede però anche qualcos’altro, qualcosa che in effetti lo farà diventare, almeno per la mia famiglia, un fine settimana decisamente diverso dagli altri.
Per capire a cosa mi sto riferendo dobbiamo andare indietro di qualche giorno, precisamente al 29 settembre.
Siamo su un’altra autostrada, la tristemente leggendaria A3, la Salerno – Reggio Calabria. E’ un giovedì mattina caldissimo, sopra i 30 gradi. Silvio Berlusconi ha appena compiuto 58 anni e il suo governo sta per votare la sua prima, disastrosa, manovra finanziaria. Io sono a scuola, in prima media, dalle suore: ho 11 anni e ancora per poco sono uno dei più bravi in classe. Sul tratto di autostrada tra Sant’ Onofrio e Mileto, a una ventina di chilometri da Vibo Valentia, c’è una Y10 a noleggio che procede in direzione Sud. A bordo ci sono Reginald Green, un giornalista statunitense di 65 anni, la moglie Margaret e i due figli, Eleanor, 10 anni, e Nicholas, 7. E’ una famiglia californiana, di Bodega Bay, in vacanza in Italia da alcuni giorni. Dopo aver visitato Napoli stanno per arrivare in Sicilia, dove si fermeranno a Catania, Palermo, Taormina. Mentre conversa con la moglie, Reginald, che è alla guida, si accorge che un auto con a bordo quattro persone, il volto coperto da un passamontagna, ha affiancato la sua Y10. L’uomo seduto davanti, sul lato del passeggero, ha abbassato il finestrino e con una pistola batte sul vetro della Y10, intimandogli di fermarsi. Reginald è terrorizzato. Accelera, cercando di sfuggire al commando armato, che però lo raggiunge e per tre volte prova a fermarlo. Ma Reginald non si ferma. I bambini dormono, Nicholas è seduto dietro al padre, la testa appoggiata al finestrino: non si accorge di nulla. Reginald riesce a fuggire, incrocia una pattuglia della Polizia, si ferma e denuncia l’accaduto. Una volta fermi, Margaret si gira verso i bambini e si accorge che Nicholas è ferito. Gravemente ferito. Uno degli uomini a volto coperto ha esploso un colpo ed il proiettile si è conficcato nella testa del bambino, sul lato sinistro. Comincia una corsa contro il tempo. Prima il ricovero all’ospedale di Polistena, vicino Reggio Calabria, poi, nella notte, il trasferimento al Policlinico di Messina. Ma non c’è niente da fare. Il professor Emanuele Cardia, neurochirurgo infantile, non può operarlo. Il proiettile, frammentato in tantissime schegge, ha provocato lesioni cerebrali devastanti ed è impossible da rimuovere. Nicholas è inoperabile. Respira con l’aiuto delle macchine, il suo cuore batte forte, ma il coma è irreversibile.
Muore nel pomeriggio del 1 ottobre 1994, di sabato pomeriggio, a pochi chilometri da me, che con la mia famiglia sono anch’io in macchina, anch’io su un’autostrada.
Nella casa di campagna non abbiamo mai avuto il telefono, così, quando qualcuno ci vuole telefonare per dirci qualcosa di davvero importante, deve chiamare la signora Nina, una donna scorbutica e gigantesca che vive accanto. Ma sono in pochi, ad avere quel numero, e di solito qualche chiamata arriva solo d’estate, quando stiamo lì per tanto tempo e degli amici dei miei genitori avvisano che verranno a trovarci. Il sabato sera, l’1 ottobre 1994, sentiamo distrattamente al telegiornale, rigorosamente il TG1, la storia del bambino americano ucciso. Il cronista, durante il servizio, spiega che la famiglia Green ha deciso di autorizzare il prelievo e la donazione degli organi. Si tratta di una decisione che fa grande clamore in Italia. A quell’epoca la donazione nel nostro paese è una pratica decisamente inconsueta, sono pochissime le persone che autorizzano l’espianto. Noi, in famiglia, lo sappiamo bene, perché mio padre ha una grave malattia agli occhi e avrebbe bisogno, da tantissimo tempo, di un trapianto di cornea. Sarebbe già il secondo, ma ormai è in lista d’attesa da anni e si è quasi dimenticato, di essere su quella lista.
Quando arriviamo a casa, la domenica sera, a Provinciale, un quartiere popolare nella zona Sud di Messina, saranno passate da poco le 7. Io e mia sorella corriamo verso la mia stanza, che è anche una specie di studio di mio padre e, soprattutto, il luogo nel quale si trova il telefono: ascoltare i messaggi lasciati sulla segreteria è uno dei nostri passatempi preferiti, quando rientriamo dopo qualche giorno fuori. La luce rossa del nostro grande telefono fax lampeggia. “Hai ricevuto 8 messaggi”. Tantissimi. Cominciamo ad ascoltarli, io e mia sorella, mentre i miei genitori disfanno i bagagli. Dopo la voce di Liliana, un’amica del tempo di mia madre, si sente una signora che in tono molto serio cerca il signor Mondello e dice di richiamare urgentemente l’ospedale. Il messaggio è di sabato sera. Urliamo a mio padre di venire e intanto la segreteria va avanti. C’è un altro messaggio, di domenica mattina, della stessa signora, che, ancora più seria, dice che è fondamentale richiamare l’ospedale il prima possibile. E ancora un altro, della stessa signora, di appena qualche ora prima, in cui spiega che in assenza di risposta dovrà andare avanti col nome successivo della lista. E poi c’è un messaggio di un medico amico di mio padre, Valerio, che, in tono meno formale, dice a mio padre qualcosa del tipo “ma dove sei? C’è la cornea per il trapianto, devi venire in ospedale”.
Succede tutto molto in fretta. Mio padre richiama, la mattina dopo è al Policlinico e io mi ricordo che prima del trapianto lo andiamo a trovare e gli hanno rasato il sopracciglio dell’occhio che sarà operato, e mi fa un effetto strano.
Il trapianto, non l’ha saputo mai nessuno, non andrà benissimo. Purtroppo il chirurgo che effettua l’operazione sbaglia qualcosa e in effetti né mio padre, né l’altra donna cui verrà trapiantata la seconda cornea di Nicholas Green, avranno dei miglioramenti straordinari. Tanto è vero che mio padre di trapianti ne farà ancora degli altri. Purtroppo, peraltro, sempre con risultati limitati e temporanei.
Ma non è questo il punto.
Dopo quell’operazione la famiglia Green verrà a trovarci a casa, a Messina, e ci saranno interviste, articoli di giornale, programmi in tv a Roma e Parigi e una grande attenzione su quanti hanno ricevuto gli organi di Nicholas.
Mi aveva fatto tanta impressione quella storia e poi tutto il trambusto della donazione e il dover riflettere, a 11 anni, su cosa significasse espiantare degli organi da un bambino morto per trapiantarli in altre persone vive, significava dover ragionare su tantissime cose molto più grandi di me.
Da quel giorno, ogni tanto, io ci penso, a Nicholas Green.
A casa di mio padre c’è una foto, la foto che conoscono tutti di Nicholas Green, ed è in un angolo insieme alle altre immagini di famiglia. Ce la diede il padre di Nicholas, e credo ci sia anche scritto qualcosa, sul retro.
Io mi ricordo che in quell’autunno del 1994 pensavo spesso a quel bambino americano ucciso con un colpo di pistola, quel bambino che poteva essere mio fratello.
Quel bambino che è un po’ lo è diventato, mio fratello.
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