La prima volta che ho sentito parlare di famiglia allargata è stato davanti al televisore in casa dei miei genitori, seduto sul divano al fianco di mio padre e mio fratello.
Ho diciannove anni e stiamo guardando il film Le Fate Ignoranti, di Ferzan Özpetek. Nella scena ci sono una decina di ragazzi che pranzano insieme, seduti attorno ad una grande tavolata al centro di una terrazza di un palazzo della capitale. Discutono e pranzano come persone che sanno ogni cosa l’uno dell’altro. Mio padre dice che sono una famiglia allargata.
Domando cosa significhi e mi risponde che i protagonisti del film, gli omosessuali e transessuali che fanno da sfondo al focus incentrato su Margherita Buy e Stefano Accorsi, sono una famiglia allargata particolare, ovvero delle persone che non sono realmente legate da un grado di parentela – tanto da non potersi definire famiglia nella sua vera forma – ma che si ritrovano a vivere insieme in modo atipico, a condividere molto di ciò che effettivamente condividono quasi tutte le famiglie tradizionali. Questa è la famiglia allargata secondo mio padre. E secondo Özpetek.
Era l’inizio del nuovo millennio e mio padre, come tutti noi, era ancora piuttosto tranquillo nell’utilizzare la parola ‘tradizionale’ affiancata a famiglia.
Erano gli anni in cui mi riferivo alla vita con sfrontatezza e quella personalità scimunita, tipica di quelli che hanno scoperto che possono andare per il mondo e prenderselo tutto, pezzettino per pezzettino, compreso ciò che non possono. Quelli che per poter vedere della pornografia dovevano aspettare che tutti fossero a letto per scorrere con il telecomando sui canali regionali e scovare, con un po’ di fortuna, qualcosa che assomigliasse vagamente a quella vietatissima chimera.
Ed io sognavo la famiglia allargata. Vedevo me e i miei amici vivere nella stessa grande casa, condividendo ogni cosa e lavorando tutti insieme, aiutandosi e dandosi compiti precisi a cui tutti avrebbero dovuto assolvere. Regole da rispettare.
Quelli erano anche gli anni delle primissime edizioni del Grande Fratello, che cadde sull’Italia come una mastodontica freccia di Cupido, colpendo il cuore di tutti, anche degli scettici. Il voyeurismo portato all’estremo del suo concetto fuso con l’amicizia, l’amore, l’inganno, la sfida. E la famiglia.
In realtà, il termine famiglia allargata ha origini diverse da quelle concettualmente ragionate da Özpetek, grossomodo decifrate da mio padre per l’occasione e poi sognate dalla mia ingovernabile anima di adolescente.
La definizione inglese è blended family, che significa famiglia mischiata, mentre in tedesco è definita Patchworkfamilie, che ha la stessa definizione della traduzione italiana. In spagnolo, invece, si traduce come familia esemblada, letteralmente famiglia assemblata, e in francese lo troviamo come famille recomposée, ovvero ricostruita. Costruita di nuovo.
In principio e nel suo vero significato si riferisce comunque ad un nucleo familiare ricomposto dopo una rottura fra i partner, al quale vanno ad unirsi nuovi partner e, potenzialmente, nuovi figli.
I miei genitori non si sono mai separati ed io non ho fratellastri o sorellastre, e anche il sogno di convivere con i miei amici, come ne Le Fate Ignoranti, non si è mai realizzato.
È stato però grazie al mio trasferimento a Berlino che quel concetto si è riproposto in una forma ancora diversa rispetto a quella che conoscevo.
Il nostro primo anno in terra di Germania, quello mio e della mia compagna, è stato tremendamente difficile anche se in egual modo elettrizzante. Se è vero che le distanze si sono abbattute e che gli spazi geografici si sono ridotti, è anche vero che non è semplice vivere lontano dalla famiglia in un luogo che non è la patria di origine, in una cultura diversa e con una lingua differente, talvolta piuttosto ostica.
Ricordo che, durante la mia prima Pasqua a Berlino, un amico mi chiese se avessi voglia di andare a fare un pic nic pasquale in un parco, insieme ad altra gente italiana. Avremmo grigliato e bevuto delle birre. Non avremmo aperto uova di cioccolato.
Mi disse anche che ero fortunato, durante il giorno di Pasqua dell’anno precedente il mio arrivo, aveva nevicato fitto fino a sera e lui e questi amici italiani erano rimasti chiusi in casa, a pranzare insieme e ad osservare tra lo stupito e il depresso la neve scendere oltre la finestra.
In quel momento mi tornò alla mente la famiglia allargata di Özpetek.
Durante il Natale del 2015 la mia compagna era incinta di qualche mese e decidemmo di non tornare in Italia per le feste. I nostri rispettivi genitori non vennero a Berlino e ci organizzammo per passarlo insieme ad altri amici che non erano partiti, ritrovandoci per cenare insieme. Ognuno avrebbe cucinato qualcosa o portato da bere, erano banditi i regali, ma da tipica tradizione italiana, qualcuno ne portò, qualcun altro no. Eravamo in una decina, c’erano due bambini, c’era della musica natalizia, c’era un proiettore acceso e c’erano dei cartoni animati.
Eccola di nuovo, la famiglia allargata.
Per spiegare correttamente cosa significhi tutto questo occorre partire da più lontano, tornando alla difficoltà del trasferirsi all’estero, un argomento tanto ampio da aprirci un discorso a parte altrettanto vasto.
Una delle prime cose che mi sono state rivelate al mio arrivo a Berlino è stata che gli italiani aiutano gli altri italiani. È come se la vecchia guardia abbia l’obbligo morale di aiutare quella nuova. È probabilmente una cosa tanto inconscia quanto banale, nonostante non sia, nella realtà dei fatti, una cosa sempre vera. È una generalizzazione, mettiamola così.
Io e la mia compagna siamo arrivati conoscendo quattro parole di tedesco, quindi per poter assolvere a “semplici” pratiche burocratiche berlinesi, come l’Anmeldung – la registrazione del domicilio in Germania – oppure come l’aprire un conto bancario, si ha bisogno di aiuto. Allora la vecchia guardia italo-berlinese viene in tuo soccorso.
Ricordo che una ragazza, scovata su qualche forum Facebook di italiani a Berlino, venne con noi al Burgeramt – l’ufficio anagrafe – per aiutarci a fare l’Anmeldung. In seguito siamo diventati buoni amici. Un altro ragazzo ci accompagnò in banca ad aprire il conto.
Detta così sembra una cosa scontata, e probabilmente lo è, ma è il concetto di fondo ad essere interessante; gli italiani all’estero aiutano gli italiani all’estero in una modalità che in Italia non avverrebbe e questo porta all’interpretazione di famiglia allargata di cui sopra.
Chiaramente non accade sempre, molti di quelli che si trasferiscono all’estero partono con l’idea di non voler frequentare nessun connazionale. Si buttano anima e corpo nell’apprendimento della lingua e cercano amicizie internazionali, ma è altrettanto vero che il tempo fa il suo corso e, volente o nolente, si è sempre portati a cercare le origini, perché le radici sono difficili da sradicare. Ne sono la dimostrazione i moltissimi luoghi di aggregazione, le iniziative e i progetti volti a valorizzare la cultura della comunità di origine. Ci sono associazioni culturali, regionali, sportive italiane per italiani, spagnole per spagnoli, americane per gli americani, e via dicendo.
Poi c’è l’altra faccia della medaglia, ovvero una pratica utilizzata spesso all’estero: non affezionarsi alle persone.
Una sera un ragazzo italiano con cui stavo iniziando a legare, davanti ad una birra mi disse che non aveva intenzione di affezionarsi a me. Gli chiesi che cosa intendesse dire e mi rispose che non voleva soffrire se poi fossi partito per tornare in Italia o per andare da un’altra parte. Questo succede perché, a differenza delle prime migrazioni, che avevano una logica pressoché definitiva per via della necessità, ora ci si muove anche per brevi periodi, che vanno da quello Erasmus fino ai cinque anni, sempre generalizzando e non considerando le migrazioni forzate dovute a problematiche come guerra e povertà.
Le persone non hanno voglia di affezionarsi, perché sentono che l’amicizia, intesa nella sua definizione più classica, non può essere attuabile all’estero, luogo nel quale non si ha nessuna certezza di quanto si sosterà. Allora si fanno scudo, imponendosi di non cedere all’affetto completo.
Se si scava a fondo, ci si rende conto di come questo possa risultare compromettente a livello umano, dato che va a creare dei micro-cosmi cinici in cui vengono ribaltati i concetti di speranza – quella di creare un rapporto duraturo – e di scambio.
Tornando alla famiglia allargata, l’esempio probabilmente più efficace ce l’ho in tasca, o meglio, in casa.
La nascita di mio figlio ha ridefinito parecchio la mia vita e quella della mia compagna, cosa che comunque avviene praticamente a tutte le coppie che hanno un primogenito. C’è un però; quando il figlio viene concepito all’estero o nasce e cresce all’estero c’è una difficoltà in più, il non avere l’aiuto costante della famiglia, la figura dei nonni e degli altri parenti stretti viene a mancare e ci si ritrova a dover gestire tutto da soli. Per nostra grande fortuna però, ci siamo accorti che questo non è vero, quantomeno non lo è sempre.
Nostro figlio è cresciuto all’interno del Café che per due anni ho gestito – in quel periodo spesso ho pensato al libro ‘Il bar delle grandi speranze’ di J.R. Moehringer – questo significa che è stato a stretto contatto, quasi ogni giorno da quando è venuto al mondo, con ogni tipo di figura: amici, semplici avventori, impiegati, collaboratori, artisti. A differenza di molti altri suoi simili, mio figlio ha ricevuto altri tipi di input: le figure dei nonni sono state marginali rispetto a quelle degli zii e delle zie acquisite, ha avuto di fianco una quantità esorbitante di familiari senza grado di parentela, ma non per questo meno decisivi nei suoi primi giorni di vita.
Una famiglia allargata più simile a quella de Le Fate Ignoranti, concettualmente, che a quella enciclopedica.
Queste persone sono state per lui, lo sono ancora, delle figure chiave per la sua crescita, e a far da collante, giusto per chiudere il cerchio, sono state le radici, quelle italiane piuttosto che familiari, i luoghi di aggregazione, lo sforzo ad affezionarsi nonostante il rischio del ritorno. E la necessità di essere una famiglia.
Ciò non significa che nostro figlio non abbia frequentato o vissuto o imparato dalla società in cui risiede; di una quindicina di parole che ha imparato nei suoi primi venti mesi di vita, l’asticella della percentuale è spostata su quelle in tedesco, un paio anche in turco.
Frequenta un asilo multiculturale con bambini di nazionalità diverse e conosce bene i suoi nonni, nonostante non siano per lui la quotidianità.
La sua normalità è la nostra famiglia allargata, quella dei quattro amici, nessuno dei quali è imparentato con me, che una volta alla settimana lo prelevano all’asilo e lo portano in giro, ognuno con il proprio bagaglio culturale, dettato da luoghi di nascita diversi, esperienze diverse. La normalità della nostra famiglia è quella della mia amica Francesca, nessun grado di parentela con il sottoscritto, che mi ha accompagnato dal pediatra quando mio figlio aveva nemmeno una settimana di vita, perché la mia compagna doveva riposare a casa e le era assolutamente vietato uscire. In un caso normale, dal pediatra insieme a me ci sarebbe venuto uno dei nonni.
La normalità è che mio figlio ha tre cani, due sono effettivamente quelli che gironzolano per casa nostra da ormai cinque anni, l’altro si chiama Etta, la bastardina della mia amica Daria, nessun grado di parentela con il sottoscritto.
Quello di mio figlio è solo un esempio in grado di concretizzare il concetto di famiglia allargata all’estero, dargli una forma che tecnicamente non avrebbe.
È altrettanto chiaro che da luogo a luogo, da nazione a nazione, da cultura a cultura, le cose cambiano impercettibilmente oppure drasticamente. Il caso berlinese è quello che mi è più vicino e che, ovviamente, conosco meglio, ma ce ne sono molti altri, con sfumature diverse.
Mi viene da pensare, in ultimo, a come potrebbe trasformarsi il futuro, considerando che il flusso migratorio delle popolazioni è in continuo aumento e mutazione nella sua forma. Se davvero non dovesse fermarsi e diminuire, e se davvero la famiglia nella sua forma più antica dovesse sfaldarsi, forse sul dizionario avremo una definizione diversa, forse addirittura avremo nuovi concetti e significati. Nuove parole.
È una supposizione.
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