È difficile capire cosa ci sia nella testa di chi decide di assecondare gli umori di montagne apparentemente impossibili: c’è rispetto, ambizione, vanità e un’altissima considerazione di sé. E ovviamente c’è la paura, un rumore bianco che si attiva nella testa dell’alpinista quando capisce che i pochi passi che lo separano dalla vetta potrebbero essere gli ultimi. E decide di tornare indietro. Mollare a pochi metri dal traguardo è una frustrazione insopportabile, ma fondamentale.
Quando ho cominciato a scrivere questo pezzo ignoravo quale fosse la sorte di Daniele Nardi e Tom Ballard e, con lo scorrere dei giorni e delle notizie, le mie dita si sono fatte sempre più pesanti, quasi si rifiutassero di scrivere quello che preferivo semplicemente ricacciare in un angolo della mia testa: non ce l’hanno fatta. Non potevano farcela.
L’italiano Nardi e il canadese Ballard sono due alpinisti che stavano tentando l’ascesa invernale al Nanga Parbat, uno dei cosiddetti ottomila, le quattordici montagne più alte della terra. Non è una semplice scalata, ammesso che di semplicità si possa parlare quando si affronta il tema dell’alpinismo: i due tentavano di salire verso la cima fuori stagione e lungo una via direttissima verso la vetta, il cosiddetto sperone Mummery. Si tratta di un taglio di roccia quasi verticale, soggetto a frequenti valanghe che porta il nome di un inglese che già nel 1895 fu un pioniere del moderno alpinismo e di cui ci ricordiamo perché dal Nanga non fece più ritorno. Per centoventicinque anni nessuno è mai riuscito a salire questo punto della montagna; solo in discesa c’è stato un episodio, nel 1970, quando Günther Messner (fratello di Reinhold) perse la vita durante un tentativo disperato di rientro al campo base, dopo che i fratelli avevano raggiunto insieme la vetta.
Di Nardi e Ballard non si avevano più notizie dal 24 febbraio quando, investiti dal maltempo, hanno smesso di comunicare con il campo base. Sono state organizzate perlustrazioni a piedi, con elicotteri e droni, la montagna è stata costantemente monitorata con telescopi nel tentativo di cogliere un minimo movimento sulla parete. Ogni sforzo è risultato vano: con il passare delle ore le possibilità di ritrovare vivi i due alpinisti si sono praticamente azzerate. Nessun uomo, per quanto ben attrezzato e allenato, avrebbe potuto resistere per così tanti giorni ad una tale altitudine e a temperature estreme.
Il Nanga Parbat è unanimamente considerata una delle vette più crudeli della terra: il 30% degli alpinisti che tentano di scalarla muoiono. Ci sono montagne più alte, il K2 e l’Everest ad esempio, ma il Nanga è la vera sfida: mette alla prova la tecnica e la resistenza di chi lo sale molto più di altre cime maggiormente note.
Poco sopra ho parlato di crudeltà, quasi volessi provare ad umanizzare un ammasso di roccia inanimata. Di fatto è così: chi abbia avuto a che fare con le montagne ne conosce i capricci e l’incostanza. Non sono gli alpinisti a conquistare la montagna, è lei che eventualmente si concede.
Ignorare il rumore bianco di cui invece parlavo nell’introduzione a questo pezzo, far prevalere altre sensazioni sull’istinto di sopravvivenza, è un lusso mortale. La testa dell’alpinista è una centrifuga di emozioni che devono essere sempre tenute in costante equilibrio, anche nelle condizioni più estreme.
Provare a farsi largo in questa specie di caos mentale perfettamente organizzato è un’impresa proibitiva: chi sale le montagne impossibili non parla, sussurra. Mezze frasi, risposte a monosillabi, considerazioni incomprensibili e una brutale semplicità sono la lingua dell’alpinista. Quelli che per loro sono concetti cristallini, per molti risultano inafferrabili; alla base di tutto, in una cruda analisi, dobbiamo semplicemente pensare che non siamo abituati a considerare la morte come parte del nostro quotidiano. Incombe sopra di noi in ogni momento, ma la ignoriamo per non trasformare la vita in agonia. Chi sale gli ottomila la accetta invece come compagna, passo dopo passo: la vede nascosta in ogni folata di vento, dietro le rocce oscure, nel distacco di una valanga o in una corda non assicurata alla perfezione.
Daniele Nardi faceva parte dell’élite alpinistica, ma ne era contemporaneamente un outsider: era nato a Sezze, vicino Latina, e come scritto sul suo sito ufficiale “è il primo alpinista della storia nato al di sotto del Po ad aver scalato Everest e K2”. A differenza di molti dei suoi colleghi, isolati in una sorta di Olimpo irraggiungibile, ha cercato di avvicinare le persone comuni al mondo indecifrabile dell’alpinismo: nei mesi precedenti la spedizione himalayana ha pubblicato sulla sua pagina Facebook una serie di video in cui racconta la preparazione fisica e psicologica necessaria ad un’impresa del genere. Daniele ci guarda negli occhi, riflette e ci parla come se anche noi facessimo parte del suo team. Ci fa sentire partecipi della trepidazione, della fatica, delle speranze e ci racconta perché un uomo di pianura decida di spingersi in territori estremi.
Daniele Nardi ha finalmente tentato di eliminare la distanza umana tra chi rimane con i piedi ben piantati per terra e chi invece cammina fino alle nuvole. Prima della partenza, per completare il suo obiettivo comunicativo, ha deciso di affidare il racconto del suo tentativo sul Parbat alla trasmissione Le Iene. Quasi tutti conosciamo il linguaggio comunicativo di questo format: infotainment nel senso più puro del termine, una base di giornalismo in cui però il fine ultimo è sempre lo spettacolo. Le Iene arrivano a tutti con un linguaggio semplice, incalzante, diretto, costruito appositamente per ogni categoria di spettatore e per attrarre anche il più disattento.
Scegliendo Le Iene, Nardi ha deciso di parlare con tutti gli italiani, anche quelli che le montagne le hanno viste solo su Google Maps: è stato la divinità dell’Olimpo che decide di scendere dal suo piedistallo per mostrarci che, in realtà, quel piedistallo non esiste.
Guardando la sua ultima intervista al programma non si percepisce quel sentimento di latente superiorità che pervade molti altri alpinisti: certo, la sua testa è altrove (sbaglia la data di registrazione dell’intervista), ma non c’è distanza tra lui e noi. Appare concentrato ma rilassato, consapevole ma anche emozionato. È al suo quinto tentativo invernale sullo sperone Mummery, sa a cosa sta andando incontro, e tenta di dirci perché continua a provare nonostante la montagna e gli eventi lo abbiano già respinto più volte.
Ecco il momento dello squarcio del velo di Maya, quello in cui Daniele Nardi si spinge all’estremo comunicativo e prova a spiegarci l’ossessione, la ragione ultima che spinge l’alpinista a rischiare la vita per arrivare in cima a una montagna salendo una parete che nessuno ha mai percorso.
Quando l’intervista finisce, davanti allo schermo rimaniamo noi: abbiamo capito quello che Daniele ci ha detto? Soprattutto, lo accettiamo? Siamo disposti a rinunciare alla nostra logica e alle nostre piccole sicurezze per scegliere l’ignoto?
Spegniamo la televisione e rimaniamo seduti sul divano da soli, a riflettere. Daniele Nardi in quel momento è già al campo base, dentro una tenda massacrata dalle raffiche di vento, a decidere con Tom Ballard come attrezzare i campi in quota nei giorni successivi.
La sua comunicazione diretta con noi si ferma a questo punto: ci ha detto tutto quello che poteva, ora tocca a noi decidere se camminare con lui nella neve inseguendo l’ossessione o se sprofondare ancora di più tra i cuscini.
Pensiamo che il coraggio sia decidere di andare fino in cima al Nanga Parbat, ma in realtà è il momento in cui decidiamo di mettere in discussione l’ordinario per prendere in considerazione qualcosa di diverso.
Decidere di affidarsi alla televisione generalista ha purtroppo rivelato anche il suo lato negativo: molti degli uomini comuni che Nardi ha cercato di coinvolgere, gli stessi che lo avrebbero ricoperto di gloria se l’impresa fosse riuscita, gli hanno rapidamente voltato le spalle. Disposti a comprendere una scelta così estrema solo se seguita dal successo, tanti lo stanno accusando di egoismo per non aver pensato alla famiglia e al figlio e avergli anteposto il suo sogno impossibile. O gli rinfacciano addirittura le migliaia di Euro spese nelle operazioni di soccorso.
Ed è in questo momento che anche essere membri dell’élite isolata degli alpinisti fa emergere i suoi lati positivi: la protezione di chi condivide l’ossessione in egual modo, la sospensione dei giudizi morali, un codice condiviso che nessuno dei membri di questa casta chiusa si sognerebbe di mettere in discussione.
La televisione e, soprattutto, Internet hanno vanificato l’onorevole tentativo di apertura di Daniele Nardi. Il grande pubblico si è dimostrato ancora una volta troppo volubile e immaturo per comprendere l’alpinismo d’alta quota: quello che ha visto – una specie di morte in diretta senza la diretta – non gli è piaciuto. E ha deciso metaforicamente di cambiare canale.
Sulla pagina Facebook de Le Iene, molti dei commenti ai post di aggiornamento sulle ricerche di Daniele e Tom fanno rabbrividire: ci offrono un triste promemoria dei tempi grotteschi che stiamo vivendo, dove una tastiera e l’accesso illimitato all’informazione ci rende arroganti e fornisce combustibile alla disumanità, all’ignoranza e all’odio ecumenico buttato su quello che il nostro cervello non arriva a comprendere o, perlomeno, ad accettare.
Mi auguro che queste persone, nel loro vagare senza meta sul Web cercando una ragione alle loro vite, possano imbattersi negli ultimi versi dell’Ulisse di Alfred Tennyson:
“…Venite, amici miei,
Non è troppo tardi per cercare un mondo più nuovo.
Spingetevi al largo, e sedendo ben ordinati colpite
I sonori solchi; perché il mio scopo consiste
Nel navigare oltre il tramonto, e i bagni
Di tutte le stelle occidentali, finché io muoia.
Potrebbe accadere che gli abissi ci inghiottano:
Potremmo forse toccare le Isole Felici,
E vedere il grande Achille, che noi conoscemmo.
Anche se molto è stato preso, molto ancora attende; e anche se
Noi non siamo ora quella forza che in giorni antichi
mosse terra e cieli, ciò che siamo, siamo;
Un’eguale indole di eroici cuori,
Indeboliti dal tempo e dal fato, ma forti nella volontà
Di combattere, cercare, trovare, e di non cedere.”
Spero che, prima o poi, possa venirgli voglia di sapere cosa ci sia oltre le stelle occidentali che tramontano nel mare; mi piacerebbe che guardassero per un attimo dentro l’ignoto per scoprire di esserne fatalmente attratti, costi quel che costi, come lo sono stati Daniele Nardi e Tom Ballard.
E che, alla fine, spegnessero finalmente la televisione e il computer e uscissero di casa.
REDAZIONE
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