La Storia di mia nonna
Il sabato sera dormivo dalla nonna. Camera sua era sempre buia, il copriletto bianco ruvido, i mobili in legno massiccio. La mattina restavamo sotto alle coperte e lei cominciava a raccontare. Non favole, né filastrocche: la guerra. C’era la storia di quando erano stati sfollati in campagna, dove una famiglia di contadini le aveva insegnato a impastare la crescia: farina, acqua, strutto. C’era la storia dei due etti di pasta in più che buttavano ogni giorno, nonostante i razionamenti, per sfamare i gatti randagi del paese. Mi raccontava del nonno tornato magrissimo dalla guerra – tirava fuori un mignolo dalla trapunta per farmi vedere quanto era secco – sopravvissuto solo a bucce di patate. Ogni tanto citava i soldati, come quando mi diceva che avevano dato fuoco alla locanda di frasche di sua madre. O come quando cercava di descrivermi la paura che aveva provato quella notte in cui i soldati erano entrati in casa loro e suo padre l’aveva fatta scappare dalla finestra e nascondersi nei campi: era già una signorina. Solo anni dopo avrei capito che aveva paura di venir stuprata. Io tenevo gli occhi aperti e ascoltavo. Immaginavo benissimo, come stesse accadendo su pellicola nel buio della stanza, quella casa su due piani piena di grida – è pronto in tavola! – i bambini scalmanati con la terra sotto alle unghie, gli etti di pasta calati e salati e conditi, la farina sul pianale ad aspettare acqua e strutto per farsi crescia, i discorsi in piazza sui fratelli, figli e mariti che non tornavano, che mandavano lettere, che morivano, gli allarmi antiaerei, le mitologie di soldati biondi, alti, stupendi, quei loro stivali inzaccherati dello stesso fango che inzaccherava il grembiule di mia nonna, la radio nell’unico bar del paese da cui gli uomini rimasti indietro – vecchi, storpi, obiettori di coscienza – portavano in casa le notizie dal mondo di fuori: nomi come Stalin, Hitler, Churchill, nomi stranieri, effimeri, senza volto, lontani, migliaia di chilometri lontani da quella cucina in cui mia nonna imparava a impastare la crescia, appena signorina, diploma di quinta elementare in tasca, senz’altra prospettiva che quella di sperare che un giorno tornasse un soldato dal fronte, la notasse in piazza – magari di domenica, quando ci si mette il vestito buono per andare in chiesa – e le chiedesse di sposarla. Cosa che poi accadde, quando la guerra finalmente finì e mio nonno tornò dai campi di prigionia. Ma “campo di prigionia”, mia nonna, non lo disse mai. Né parlò mai di battaglie, schieramenti o fronti.
C’erano diverse cose che non riuscivo a capire – quali soldati? Perché il nonno non si mangiava anche il dentro delle patate? Perché diavolo qualcuno avrebbe dovuto o voluto bruciare la locanda della bisnonna? – ma a dire il vero al tempo non m’interessava poi tanto, perché la storia di mia nonna aveva una sua coerenza interna, bastava a sé stessa. Le domande iniziai a farmele dopo, quando a scuola affrontammo per la prima volta la Seconda Guerra Mondiale. La maestra, i libri e i film parlavano di una guerra che non mi ero mai immaginata, che non avevo nemmeno mai sentito nominare: quella di mia nonna non si chiamava ‘seconda’, né ‘mondiale’, ma solo ‘guerra’. Eppure, era la stessa, non c’erano dubbi: le date coincidevano. Provai a chiedere spiegazioni: com’è che non mi hai mai detto delle bombe nucleari? E i soldati che hanno bruciato la locanda erano tedeschi o americani? E noi, ce li avevamo i partigiani in famiglia? Mia nonna però non sapeva come rispondermi. E, in mancanza di altri testimoni, o di altri responsabili, decisi di prendermela con lei, con la sua ignoranza. La rabbia che provai in quel momento, per quella storia monca che mi aveva lasciato, per l’identità di casalinga cattolica passiva che le attribuivo quale colpa. Persi fiducia nei suoi racconti, smisi di immaginarli con la stessa vividezza di prima. Li relegai in quanto secondari, manchevoli e parziali: la sua era una storia provinciale, focalizzata sulle cose sbagliate, raccontata da chi il mondo non l’ha né capito, né cambiato, ma solo subito. Era una storia raccontata da una cucina, osservata da una finestra, ascoltata a tavola. A pochi chilometri da casa sua si stendeva la linea Gustav e lei impastava la crescia, sognando un soldato che tornando e sposandola le desse finalmente l’unica definizione di persona che avesse mai potuto desiderare per se stessa: quella di moglie, di madre, di casalinga.
Metti un eroe in un sacchetto e sembrerà una patata
Noi viviamo di storie. I romanzi, i racconti, i film, le serie TV. I ricordi, la psicoterapia, le chiacchiere da bar. I sogni, il gossip, la voce interiore che narra ogni gesto che facciamo.
Le storie configurano e riconfigurano i mondi, danno vita al reale. E il modo in cui le raccontiamo – la scelta di un punto di vista, di un inizio o di una fine – non è mai innocente. Le storie sono una questione di potere, raccontarle in maniera imparziale può escludere, espropriare e soggiogare intere fette della popolazione.
Nel suo saggio del 1986, “The Carrier Bag Theory of Fiction”, l’autrice statunitense Ursula K. Le Guin spiega come per molto tempo non si sia riconosciuta nel genere umano a causa, essenzialmente, di una storia raccontata male. La storia cui fa riferimento non è una qualunque, è quella della nostra origine come specie. Partiamo con un esempio: chiudete gli occhi e provate a raffigurarvi un ominide della preistoria. Probabilmente, vi starete immaginando un uomo un po’ ingobbito, con in mano una pietra, un bastone, una lancia. Oppure, un uomo coi genitali coperti da uno straccio leopardato che dipinge animali sulla parete umida di una caverna. Digitare “linea del tempo preistoria” su Google confermerà l’immaginario:
Ad apparirci, nella mente o sul web, sono uomini armati di strumenti atti a picchiare, penetrare, uccidere, o uomini intenti a dipingere sulle pareti i frutti di questo picchiare, penetrare e uccidere. La caccia è regina dello scenario: la preistoria si disegna in termini di enormi mammut pericolosi e pesanti soggiogati dalla forza bruta e dall’intelligenza scaltra degli uomini. Eppure, dice Le Guin, “nelle regioni tropicali e temperate dove pare che gli ominidi si siano evoluti in esseri umani, il principale alimento delle specie era di natura vegetale. Dal sessantacinque all’ottanta per cento di ciò che mangiavano gli esseri umani in quelle regioni nel Paleolitico, nel Neolitico e nelle ere preistoriche veniva raccolto; solo nell’Artico estremo la carne era l’alimento base.” È dunque interessante notare come, nonostante la maggior fonte di sostentamento, e quindi coerentemente la maggior occupazione in termini di tempo speso, fosse la raccolta di bacche, frutti, noci, semi, radici, foglie, cereali, germogli e tuberi, con occasionale accompagnamento di piccoli animali come molluschi, uccellini e conigli, per noi sia assolutamente più facile e istintivo immaginare prima gli ominidi armati di lancia che cacciano i mammut, piuttosto che quelli intenti a raccogliere le bacche. È interessante, sì, dice Le Guin, ma non sorprendente: raccontare una storia avvincente su come io e Gina siamo andate nel campo d’avena selvatica e abbiamo raccolto un chicco, poi un altro, poi un altro, e poi ci siamo dette due cose, e poi stava venendo a piovere, però poi non ha piovuto, e poi abbiamo raccolto il quarto chicco, e il quinto, e il sesto, e insomma, avete capito, raccontare una storia avvincente del genere è molto più difficile che raccontare una storia avvincente su di una battuta di caccia in cui alcuni hanno perso la vita, altri hanno combattuto valorosamente e sono tornati trionfanti e vincitori, armati e ripieni di carcassa, uccisori tanto fieri delle loro gesta da pensare di dipingerle sul muro per lasciarne traccia ai posteri. Per dirla con Le Guin: “gli abili cacciatori sarebbero poi tornati indietro barcollando con un carico di carne, molto avorio e una storia. Non era la carne a fare la differenza. Era la storia.” E quella storia “non solo ha Azione, ha un Eroe. Gli Eroi sono potenti. Prima che tu te ne accorga, gli uomini e le donne nel campo di avena selvatica e i loro figli e le abilità degli abili e i pensieri dei pensierosi e le canzoni dei cantanti ne fanno parte, sono stati tutti messi al servizio nel racconto dell’Eroe. Ma non è la loro storia. È la sua.”
È solo quando Le Guin ha scoperto quella che potremmo tradurre come “la teoria del contenitore” (in originale The Carrier Bag Theory) che ha ritrovato un suo posto all’interno della specie umana. La teoria del contenitore, postulata per la prima volta dall’autrice statunitense Elizabeth Fisher, sostiene che probabilmente il primo dispositivo culturale degli esseri umani non sia stato la pietra, né il bastone, né la lancia, ma un recipiente. Un contenitore atto a trasportare o mantenere i prodotti raccolti. Che senso avrebbe avuto, infatti, raccogliere il cibo, se prima non si fosse pensato a un modo per trasportarlo a casa? La storia del recipiente non solo ha senso, ma riempie anche dei vuoti concettuali, dei salti evolutivi. Ma soprattutto, “mi radica anche, personalmente, nella cultura umana in un modo in cui non mi sono mai sentita radicata prima. Finché la cultura è stata spiegata come originata da ed elaborata sull’uso di oggetti lunghi e duri per attaccare, colpire e uccidere, non ho mai pensato di avere, o voluto avere, una parte particolare in essa. (“Ciò che Freud ha scambiato, nelle donne, come mancanza di civilizzazione, è in realtà la mancanza di lealtà alla civilizzazione”, osservò Lillian Smith.) La società, la civiltà di cui parlavano questi teorici, era evidentemente la loro; la possedevano, gli piaceva; erano umani, completamente umani, attaccavano, ficcavano, spingevano, uccidevano.” È solo nel momento in cui ha trovato il modo di raccontarsi una storia diversa, quella per cui l’umanità si distingue per la propria capacità di raccogliere, mettere da parte, condividere e trasportare cose, che allora Le Guin si è sentita “pienamente, liberamente, gioiosamente, per la prima volta” umana.
La storia dell’Eroe è avvincente, ma è anche pericolosa, perché pretende di inglobare tutte le altre, mettendole al servizio della sua, “essendo questa la sua natura imperiale e il suo impulso incontrollabile, di prendere il controllo di tutto e gestirlo mentre emette severi decreti e leggi per controllare il suo impulso incontrollabile di ucciderlo.” Per questo impulso incontrollabile, l’Eroe ha cercato di prendere possesso anche del romanzo, forzandolo entro leggi precise che ne costringono le potenzialità. Infatti, l’Eroe ha stabilito che il romanzo deve, prima di tutto, avere la struttura narrativa di una freccia, con un inizio e una fine precise. In secondo luogo, ha deciso che la questione principale del romanzo dev’essere il conflitto. Terzo, ha deciso che lui, l’Eroe, deve esserne il protagonista. Noi però possiamo decidere, alla stregua della teoria di prima e sull’onda di Le Guin, che invece, il romanzo, è un contenitore. Un libro contiene parole, e le parole “contengono” cose, significati. In un contenitore gli elementi coesistono, si intrecciano e s’ingarbugliano. Possono sì entrare in una relazione di conflitto tra loro, ma ridurre l’intera gamma delle possibili relazioni reciproche al mero conflitto è semplicemente assurdo. Ma soprattutto, in un contenitore, la storia dell’Eroe perde preminenza. Può esistere, certo, ma nel senso di co-esistere accanto alle altre. I romanzi parlano di persone e non di eroi. D’altronde, l’Eroe “ha bisogno di un palco o di un piedistallo o di un pinnacolo. Lo metti in un sacchetto e sembra un coniglio, una patata.” Per questo il romanzo, se considerato quale recipiente, può divenire una forma di narrazione fondamentalmente antieroica. Nel recipiente del romanzo ci sta dentro tutto. È una rete dilatata di cose che accadono, cadono e cambiano, senza inizi e senza fini prestabiliti, senza rigidi schemi narrativi – e mentali – che pretendano di denominare alcune storie come principali e altre come secondarie. Ogni cosa ha il suo tempo e il suo spazio nella narrazione intesa come recipiente e non più come freccia, le battaglie sul fronte così come la crescia impastata in cucina.
Non sapevo che persone come me potessero esistere nella letteratura
Dicevamo che le storie, se raccontate male, possono escludere, espropriare o soggiogare intere fette di popolazione. Pochi hanno spiegato questo concetto meglio della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie in una Ted Talk del 2009, divenuta libro in italiano nel 2020 sotto il titolo di Il pericolo di un’unica storia. Nella conferenza Adichie parla di come iniziò ad amare la letteratura da molto, molto piccola. Nei libri che leggeva, però, i personaggi non le assomigliavano. Per questo anche le storie che scriveva, al tempo, avevano come protagonisti bambini con capelli biondi e occhi azzurri, che giocavano con la neve e parlavano del tempo, questo nonostante lei avesse capelli e occhi neri, non avesse mai visto la neve e non avesse mai sentito nessuno parlare del tempo, perché in Nigeria, dove abitava, non ce n’era bisogno. Fu solo quando scoprì autrici e autori africani, quali per esempio Chinua Achebe e Camara Laye, che si rese conto di come “persone come lei” potessero esistere nella letteratura. La sua percezione della letteratura subì uno slittamento, e i libri africani la salvarono dal pericolo di un’unica storia su ciò che sono i libri. Allo stesso modo, la singola e medesima storia che l’Occidente colonizzatore ha raccontato sull’Africa colonizzata – dove l’Africa viene peraltro spesso e volentieri intesa quale Macro-Paese, piuttosto che continente contenitore di centinaia di etnie, culture, lingue, culture, abitudini e nazioni diverse – ha fatto sì che percepiamo il continente come un luogo di “bei paesaggi, begli animali e persone incomprensibili che combattono guerre senza senso, che muoiono di povertà e AIDS, incapaci di parlare per se stesse e in attesa di venir salvate da uno straniero bianco e gentile.” Questa storia unica che abbiamo sull’Africa, derivata dalla letteratura occidentale, si è sempre e solo incentrata sul suo lato negativo, sulla povertà, sul conflitto, sulla malattia. Queste storie, naturalmente, esistono, ma ne esistono tante altre, positive, che nessuno ha mai raccontato. Il punto è che “tutte queste storie mi rendono chi sono, ma insistere solo su quelle negative appiattisce la mia esperienza e tralascia tutte le altre storie che mi hanno formato”.
Il problema della storia unica è un problema letterario, ma è anche, soprattutto, un problema politico. “È impossibile parlare della storia singola senza parlare di potere,” dice Adichie, “e il potere non è solo l’abilità di raccontare la storia di un’altra persona, ma di renderla la storia definitiva di quell’altra persona.” Come diceva il poeta palestinese Mourid Barghouti, per espropriare un popolo basta raccontare la sua storia cominciando con “in secondo luogo”. Ad esempio, spiega Adichie, inizi la storia con il fallimento degli Stati africani, e non con la creazione coloniale dello Stato africano, e ottieni una storia completamente diversa. Inizi la storia con le frecce delle popolazioni indigene, e non con l’arrivo dei britannici sul continente americano, e ottieni una storia completamente diversa. Inizi la Storia con la caccia dei mammut, e non con l’alimentazione prevalentemente vegetariana dei nostri antenati, e ottieni una storia completamente diversa.
Il resto, è tutta scena
Per secoli le donne sono rimaste chiuse in casa, mentre gli uomini fuori combattevano, legiferavano, scrivevano. Le donne hanno scritto e lottato per il diritto alla scrittura partendo dal terreno domestico. La scrittrice inglese Virginia Woolf sosteneva che le donne, per scrivere liberamente, dovessero possedere una “stanza tutta per sé”, mentre la poeta chicana Gloria Anzaldúa, conscia del fatto che la “stanza tutta per sé” avrebbe potuto diventare una scusa per non scrivere per chi non poteva permettersela, diceva di dimenticarla: “scrivi in cucina, chiuditi in bagno. Scrivi sull’autobus o in fila per l’assistenza sociale, al lavoro o durante i pasti, tra il sonno o il risveglio.” La casa (o il campo di avena selvatica), sotto allo sguardo impietoso delle sue prigioniere, è diventato palcoscenico per una letteratura relazionale, per un’analisi minuziosa delle intimità, ha permesso l’esercizio nella narrazione del quotidiano che accadeva ai margini della vita pubblica. È una questione di sguardo, ma soprattutto, è una questione di abilità: come scriveva Le Guin, “ho detto che era difficile fare un racconto avvincente di come abbiamo strappato l’avena selvatica dai suoi gusci, non ho detto che era impossibile. Chi ha mai detto che scrivere un romanzo fosse facile?”
Le scrittrici hanno misurato la loro libertà sul medesimo oggetto-casa, deformandolo, alimentando la fantasia per trovarne via d’uscita. La casa è piaga e privilegio, punto d’osservazione limitato e favorito. Gli esseri umani ci si muovono in intimità, lasciando libero adito a emozioni, effusioni e rumori che tratterrebbero altrimenti nella sfera pubblica, all’esterno. Le cose dall’interno sono più sconce, più brutte, più vere. Sono spietate, al limite dell’insensato. Mia nonna non si è mai ribellata apertamente al suo ruolo di casalinga, madre e moglie, però a me piace pensare che, in qualche modo, i suoi racconti – così come le migliaia di altri racconti di altre donne chiuse in cucina – siano stati una piccola forma di sovversione, migliaia di tarli che parola dopo parola, immagine dopo immagine, verbo dopo verbo, hanno rosicchiato l’albero maestro, l’oggetto lungo e duro per picchiare, l’arma, la lancia, la colonna portante della narrativa del mondo: il piedistallo dell’Eroe.
C’è una poesia di Marge Piercy che comincia così: “Quando ero giovane credevo nella conversazione intellettuale”. Nella poesia l’io lirico descrive il senso d’inferiorità provato di fronte agli uomini quando tenta di partecipare ai loro circoli intellettuali, sentendosi giudicata, sminuita, per il fatto di essere donna: “quando porgevo loro nel cavo delle mani una nuova poesia da assaggiare, / quando portavo loro le mie mappe aeree di Sartre o di Marx, / dicevano, sta solo cercando di attirare la nostra attenzione, /ci sta offrendo i seni e le cosce.” Mentre gli uomini discorrono di “integrità e noia esistenziale”, le donne abortiscono, fanno commissioni, cibano i figli. L’io lirico cerca di distanziarsi dalla cucina simbolica in cui le donne sprecano le loro vite per farsi strada nel mondo degli uomini, prenderne parte, schierarsi e arrabbiarsi. Legge come loro, parla come loro, ragiona come loro. Eppure, quando si rende conto di essere ai loro occhi solo una “pescivendola che strillava per la strada”, decide spontaneamente di tornare in cucina, tra le donne. Ma non per ritirarsi dalla vita che accade, come forma di rassegnazione, no, decide di farlo proprio perché comprende che la vita, quando accade, lo fa anche in cucina, tra una pentola e una chiacchiera, e non nel cielo delle parole morte che si alzano verso il soffitto del salotto soffocato dal fumo di sigari che le vengono negati. “Ora invece mi irruvidisco appena cominciano a sventolare i sostantivi astratti. / Me ne vado in cucina a parlare di cavoli e abitudini. / Mi sforzo di rammentarmi di osservare quello che fa la gente. / Sì, tieni d’occhio le mani e lascia che la voce ronzi. / L’economia è l’osso, la politica la ciccia, / osserva chi menano e chi si mangiano, / su chi si sfogano e chi posseggono. / Il resto, è tutta scena.”
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