Мне стыдно. Mi vergogno. Così era scritto su un cartoncino che teneva un ragazzo davanti all’ambasciata della Federazione russa sull’Unter den Linden a Berlino, giovedì 24 febbraio 2022 all’ora del tramonto.
Мне стыдно. Mi vergogno. La mattina di quel giorno le forze armate russe invadevano l’Ucraina e la sera lui era lì, di fronte all’ambasciata del suo Paese, con due parole.
Мне стыдно. Mi vergogno. La mattina di quel giorno mi sono svegliato e mia moglie mi ha detto che la Russia aveva invaso l’Ucraina.
Nei mesi precedenti avevo letto migliaia di parole di analisti internazionali e mi ero convinto che l’ammasso di truppe sul confine fosse un bluff, si vis pacem para bellum, che anzi l’America avesse buon gioco a far apparire la minaccia russa più grande di quel che fosse per ricompattare gli alleati europei intorno a sé. Pensavo che l’Unione europea e la NATO, dopo essersi mangiate tutti gli stati satelliti dell’ex Unione sovietica e le repubbliche baltiche, si fossero spinte troppo oltre a papparsi anche l’Ucraina con lo sgambetto fatto a Putin nel 2014: gli stati cuscinetto servono apposta a tener separate le superpotenze, soprattutto quando mancano confini naturali. Che Unione europea e NATO si fossero spinte troppo in là lo dimostravano i discorsi fatti agli Ucraini, che no, sostegno militare non lo avrebbero dato, mentre su quello morale non avrebbero lesinato.
La mattina del 24 febbraio 2022, quando mi sono svegliato e mia moglie mi ha detto che erano cominciate le operazioni di terra, non ho pensato a questo però, ho pensato a un amore che dura quasi quanto la mia vita. Un amore sbocciato alla fine degli anni Ottanta, da adolescente, sui libri di mio nonno sui Romanov e Rasputin, povere edizioni di novant’anni fa rivestite di carta da pacchi. Un amore cresciuto sui romanzi di Dostoevskij in tascabili super economici comprati in edicola. La mattina del 24 febbraio 2022 ho pensato a quest’amore.
A casa mia l’Unione sovietica era l’Impero del Male e io amavo l’Impero del Male. Leggevo libri di storia perché volevo conoscere tutto il Male che quest’Impero aveva fatto e vincere nelle discussioni con i comunisti del liceo, che all’inizio degli anni Novanta, nonostante Mosca non indicasse più la linea, tenevano la cresta ancora alta. Non vincevo nelle discussioni e il mio amore cresceva.
Libro dopo libro, l’Unione Sovietica non rappresentò più il Male assoluto, ma un male relativo, uno dei tanti che affliggono questa valle di lacrime. E il mio amore cresceva, fino a spingermi a studiare la lingua e la cultura della Russia, fino a sposare una figlia di quella terra lontana. Ecco, pensavo a tutto questo e stavo male.
Pensavo ai personaggi dei racconti di Čehov e stavo male. Pensavo alla banja dei deportati dostoevskiani e stavo male. Pensavo alle Conversazioni sulla cultura russa di Jurij Lotman e stavo male. Pensavo a Ljudmila Gurčenko che canta Pjat’ minut, ad Alla Pugačëva che canta Nado že a Sanremo e stavo male. Pensavo al Decamerone di Kirill Serebrennikov, che avevo visto al Deutsches Theater pochi mesi prima, e stavo male.
La sera sono passato davanti all’Ambasciata della Federazione russa sull’Unter den Linden. Era annunciata una manifestazione di protesta. Erano quattro gatti. L’ambasciata era chiusa come una casa delle vacanze che lasci alla fine dell’estate e sai che dovrai aspettare un anno prima di tornare.
Sentivo parlare sottovoce russo e ucraino e stavo male. Una decina di manifestanti teneva cartelli con scritte che inneggiavano alla pace e stavo male.
Poi l’ho visto in mezzo agli altri, il ragazzo con il cartello, e ho capito.
Мне стыдно. Mi vergogno.
Mi vergognavo del mio amore. Di tutte le volte che l’avevo dichiarato urbi et orbi. Di tutte le volte che me n’ero sentito orgoglioso. Di tutte le volte che, se sostenevano di preferire qualche altro Paese alla Russia, io pensavo: batjuška, perdonali perché non sanno quello che fanno.
Sono arrivato davanti alla Porta di Brandeburgo illuminata di giallo e di blu. Centinaia di mani tenevano gli smartphones in alto e la fotografavano. Era qui che si raccoglieva la folla, non all’ambasciata. Forse qualcuno avrebbe tenuto un discorso. La mattina aveva parlato la giornalista Ol’ga Romanova, aveva detto che Putin non è la Russia. Solo allora mi accorgevo che nelle frasi scritte sui cartelli e in quelle carpite ai manifestanti si esprimeva solidarietà all’Ucraina, si invocava la fine della guerra, si augurava tutto il male possibile a Putin, ma nemmeno una parola era spesa per condannare la Russia.
Sono passato di nuovo davanti all’ambasciata. Quel ragazzo non c’era più. Al posto suo ce n’era un altro che esponeva un telo con una scritta in russo e inglese. Era un avviso a Putin: un giudice del tribunale internazionale dell’Aia lo aspetta già.
La foto di copertina è di Flavio Villani
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