Menschen am Sonntag – Uomini di domenica
Germania, 1930
Regia, Robert Siodmak, Edgar G. Ulmer
Soggetto, Curt Siodmak
Sceneggiatura, Billy Wilder
Berlino, 1930. Il film, girato in stile semi-documentaristico, segue un gruppetto di ragazzi berlinesi che, una domenica, passano la giornata fuori, liberi dalle seccature quotidiane e dalle tossine lavorative. Tra piccole e innocue meschinità e gelosie giovanili, i ragazzi vivranno un momento di sospesa e struggente verità.
Non riesco a non pensare al primo piano, dolcissimo, della ragazza protagonista del film. Magnetico, dolce, straziante. Ho immaginato che la pellicola non riuscisse più a contenerla da quanto era autentica, quell’espressione. Si ha, fin dai primi minuti in cui i ragazzi giungono alle rive del lago, la sensazione di essere lì con loro, la percezione reale di poter essere chiamati dai personaggi stessi del film a bere una birra o a passargli un’apri-bottiglia, una forchetta, un accendino.
La verità, sì. Ci torneremo spesso. A cavallo tra le due guerre mondiali, nel 1930, Menschen am Sonntag racconta una semplicissima e (s)pensierata domenica lontana dai malesseri lavorativi quotidiani, in una Berlino immortalata al lago di Wannsee, nella repubblica di Weimar.
Un film che sembra impossibile esista, a scorrere i nomi che lo hanno partorito. Un film che filma se stesso, come lo avrebbe definito Carmelo Bene.
Un film fatto per arrivare con immagini e suono alla pancia, al cuore e alla testa. Non è una pellicola letteralmente maltrattata, come sarebbe piaciuto a Bene, eppure getta dalla finestra l’autocompiacimento tipico del cinema, al tempo l’ultima arrivata delle grandi arti, la più giovane e quindi la più immatura, ma anche la più compulsiva e presuntuosa e accessibile.
Un film che, nella sua apparente semplicità, sa essere commovente e doloroso, perché un istante dopo la sua conclusione, si ha l’istinto di gridare a tutti i giovani che s’incontrano nella visione (i “non attori”, come recita un cartello all’inizio del film), di scappare via, di fuggire, di mettersi al riparo. Un film che è una rara rappresentazione della pura innocenza un attimo prima della sua perdita; di quell’ultimo istante che, mai più, potrà essere replicato. Vedere Uomini di domenica è come ascoltare o leggere una fiaba: è il felice interludio tra due momenti terribili. Raccontando questo film, mi vengono in mente delle vecchie foto: quelle dei soldati tedeschi e francesi che giocano a calcio nel 1914, intorno a Natale, durante il “Weihnachtsfrieden”, il “Trêve de Noël” – la tregua. Menschen am Sonntag è una parentesi felice e, non a caso, fra i registi e gli sceneggiatori (soprattutto Billy Wilder) fa germinare personalità che negli anni successivi si imporranno ad Hollywood con lavori mai banali, mai conformi alla patina ed all’ipocrisia americana.
E poi sì, in questo preciso momento storico, in cui la nostra esistenza è un sospeso, è una pellicola quasi terapeutica. Siamo a Berlino e in questo film la città, come direbbe il mio amico Ottaviano, siciliano, fa proprio simpatia. Elettrica e dinamica, fedele al suo spirito: già negli anni ’30 la metropoli è vivace, vissuta e moderna. Mentre si aprono ad uno ad uno i vari personaggi (Personaggi che, ricordiamolo, perché ci tengo da morire, sono NON attori, e si rilassano e, da soli, si mettono in difficoltà) Berlino mi fa sorridere.
La prima delle tre parti del film si apre proprio con il via vai classico della capitale tedesca. In Europa, poche altre città ti fanno sentire protetto come Berlino. Senza ombra di dubbio è dovuto alla sua storia recente, ma sono comunque pochi i luoghi del Vecchio Continente capaci di parlarti, quasi sussurrandoti, “sono stata male anch’io, ti capisco benissimo, è normale. Ti stai ritrovando e ti ritroverai”.
Nei primi secondi vediamo vivaci e sbuffanti S-Bahn, U-Bahn e un tumultuante mare di teste umane che zigzagano come pesci in un mega acquario tra le strade – pulsanti e nevralgiche arterie. Camminate e corse impiegatizie a cui siamo abituati ma che, inserite in questo frangente temporale, tra le due guerre, hanno un sapore unico, vitale. Eppure Berlino fa capolino solo per poco, toglie elegantemente il disturbo in pochi minuti. È un veloce giro di giostra. La vediamo quanto basta perché, con i suoi ritmi vivaci e il suo timbro malinconico, ci arrivi quella città che vuole riprendersi dalla botta sociale, economica ed emotiva di pochi anni prima.
Arrivano poi loro, i nostri quattro protagonisti, introdotti con le loro professioni: un tassista, una commessa, un rappresentante di vini, una comparsa di cinema e un’indossatrice. Tutti quanti, di solito, sempre impegnati. Ma questo è il week-end: l’unico momento libero dalle loro professioni.
Pronti, via, tutti al lago: per non pensare più alle crisi personali e professionali della settimana. In totale naturalezza, come se le scene maturassero da sé di fronte alle telecamere, i nostri amici si rilassano e, tra piccole gelosie e meschinità, il pomeriggio decolla. I primi piani sono struggenti, perché tanto veri, tanto autentici: si vuole raccontare sì la voglia di libertà, ma anche il dramma ineluttabile che è lontano e al contempo vicino. È una libertà senza rassicurazioni. Abbiamo occhi che parlano di voglia e paura di vivere. E, su uno sfondo non troppo lontano, la scadenza, la clessidra attiva e maledetta, che rimane lì, inafferrabile.
Fa ridere il titolo italiano, che traduce “Menschen”,“persone”, con “uomini, ed è in netto contrasto con il ruolo preponderante che le donne hanno invece in questo film. Penso alla generazione dei miei nonni e in parte anche ai miei genitori, e a come solo da poco si siano resi conto le donne non sono alieni tentacolari atterrati sulla terra, e gli omosessuali non sono esseri urlanti coi pantaloni gialli, corti e attillati che sparano laser e fiammate dalla bocca.
Le dinamiche tra i protagonisti di questo film di Siodmak e Ulmer presentano un momento di cinema mai più replicato. Pescando casualmente fra le sequenze di relax, si scovano piccole gelosie, incomprensioni, tensioni sciocche, passando dal disco di vinile rotto ai momenti di breve ma intensa intimità.
Per farsi trascinare dentro Menschen am Sonntag non c’è bisogno di troppa concentrazione, ma di un sano e liberatorio dolce far niente, soltanto all’apparenza semplice. Con uno sguardo attento, si arriva piano piano a tutto l’amore, lo stupore e il rispetto di un’arte che ai tempi, non aveva che 35 anni di vita.
Questa è una delle forze del film, un tratto imprescindibile della sua poetica: i giovani protagonisti si complicano la vita fino all’ultimo e si rendono così vicini, godibili e infiniti.
Emerge fin da subito quello che diventerà il tratto caratteristico di Billy Wilder (qui sceneggiatore), e cioè i suoi piacevolissimi e originali intrecci narrativi (che più avanti fioriranno in commedie noir e brillanti, come L’appartamento). Intrecci che, nella seconda parte, si prendono una piacevole pausa, portando le scene in altri spazi, in altri luoghi. Si approfitta della distensione e del rilassamento dei ragazzi, per portare lo spettatore fuori dal lago: con una breve sequenza andiamo a osservare altri berlinesi intenti a godersi il pomeriggio. Una sequenza meravigliosa e, nella sua rilassatezza, appagante. Una sequenza che ha vari momenti da ricordare: la scena del fotografo professionista che scatta foto ai bambini e a persone desiderose solo di lasciarsi andare, per esempio, che mi ha ricordato lo stile dei video clip musicali degli anni 90 che, per ritmo, ingenuità e genuinità, sono rimasti con affetto dentro molti di noi.
Come diceva qualcuno, l’opera d’arte, il capolavoro, deve rappresentare l’arte ecceduta, non un semplice decorativismo. L’arte è superamento o tentativo di superamento di sé stessa. In questo caso avviene: non c’è nessuna colata di miele, di zucchero, di coccarde, niente strizzamenti di occhio o di limone. Nel teatro e nel cinema, a qualsiasi livello, è estremamente difficile ricevere qualcosa di intimo che non sia compiaciuto o utilizzato per avere un mero ritorno di pubblico. Le emozioni vengono spettacolarizzate e di conseguenza banalizzate, svuotate di significato. Diventano così stucchevoli e, spesso, poco comprensibili.
Io vi consiglio fortemente di godervi questo film con un sottofondo musicale di Claude Debussy, oppure di Rossini. Vi spingo a infilare nella visione di questo gioiello qualsiasi musica che possa piacervi, quella che più vi emoziona: un suono che sia quindi extra diegetico. come avvertito dai personaggi stessi della narrazione. Vi sembrerà allora di essere al lago pure voi. Musica che “sceneggia”, come avrebbe detto Sergio Leone, musica che si sostituisce, nell’ombra, ai suoni che non sentiamo, alle parole che non si dicono.
Non mi era mai capitato di sentire le due dimensioni, del comico e del tragico, così vicine e così lontane allo stesso tempo. Gesti e situazioni giovanili, se non infantili, che divertono ed emozionano toccando le corde del nostro ancestrale. Come quando certi gesti atletici, anche solo di alcuni attimi, diventano epici ed emozionano grandi e piccini, laureati e analfabeti, vedenti e non vedenti. Come la corsa di Roberto Baggio, che perfino mia nonna definiva di un’eleganza unica. “Sembra un pittore, altro che De Chirico”. Grande nonna Ione.
Menschen am Sonntag (non riesco a chiamarlo con il titolo italiano, pardon, non ci riesco) è classicismo e avanguardia, e mostra un benessere emotivo sospeso. ma con sforzo. È tangibile il desiderio, da parte di tutte le persone riprese, di far durare la serenità all’infinito, di non voler perdere nemmeno un secondo di quello che sembra un sogno. E al tempo stesso, il dramma, la fine, sono lì, le vediamo – come in attesa, da qualche parte. E si soffre un po’, noi. Perché li capiamo e li “sentiamo”.
La terza e ultima parte, il ritorno a casa, fa emergere la tensione psicologica, sotterrata fino a quel momento, del lunedì che segue. Teneri i saluti finali: strette di mano incrociate, amori in pausa, proposte di giocate a pallone, ma per quando?
Certi sfondamenti nel bianco sono ossigenanti. Poche volte, nel cinema, è stata lasciata una traccia di così tanta grazia e naturalezza. Invece di aggiungere. qui si sottrae, si lascia solo un fresco lago dove girano non significati, ma SIGNIFICANTI. In una fase storica in cui mancano le premesse culturali per apprezzare qualcosa che scavi oltre la superficie, questa è una gemma da recuperare. Per il pubblico di oggi, adolescente e non solo, maschi o femmine che siano, è probabile che Menschen risulti di una noia mortale. Per certi versi, come dargli torto. Purtroppo nel cinema di oggi non c’è più tempo per indulgere, su niente. Dopo dieci minuti senza concitazione, rumore, musica incessante a commento, l’attenzione cala, inesorabilmente. E questo gioiello, muto, forse fuori dal tempo, è un documento molto sensibile di un cinema che non si fa più. Ma se l’occhio si riabitua a dare e fare qualcosa in più, non si può dimenticare. Altrimenti, non lascia niente. Click, swipe, 2 minuti, no, non mi piace. Ho sonno, ho fame.
Nella normalissima domenica di questi ragazzi, che vedo anche oggi in ogni week-end minimamente soleggiato, mi sono smarrito, divertito e spaventato. Essendo tutto intelligentemente coordinato, l’ho sentito come se fosse stato girato in un continuo “buona la prima”. O forse anche no, nemmeno quella, chissà. È impagabile perché non c’è mai un momento che sembra esser stato riprovato.
C’è tanta innocente cattiveria tra i personaggi. Non sono che bambini, in sostanza, ignari delle difficoltà più grandi di loro. Non vogliono crescere. Questo istinto naturale a rimanere piccoli, in letteratura come nel cinema, rimane sempre nella pancia, nel cuore e nella mente. Come scrive Freud in Al di là del principio di piacere, è il bisogno di non perdere l’innocenza, di non perdere un po’ di sana follia che, in società, rischia di essere addomesticata e violentata dentro schemi tecnici e rigidi. La vera arte, si sa, non è che un grande gioco, fatto con grazia e serietà.
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