Il calore era pressoché insopportabile. Il sudore le appiccicava il corsetto alla pelle, affannandole il respiro. Come se avanzare tra grosse radici e liane pendule non fosse stato sufficientemente complicato, con la stoffa della gonna che si impigliava continuamente nella piantagione selvatica, nonostante vi fosse chi le spianava la strada a colpi di machete. E tuttavia, un passo cauto dopo l’altro, continuava ad esplorare la foresta pluviale del Suriname – l’occhio attento e ricettivo, come un’antenna, alle distorsioni di rumore e alle variazioni di colore che permettevano di scorgere una fauna ignota nei meandri di quella flora lussureggiante. Un bruco peloso e bicolore adagiato mollemente su una foglia di manioca, una coppia di farfalle dalle ali oblunghe fluttuanti intorno a un frutto di pompelmo, una coppia di tarantole brune intente a nutrirsi della carcassa di un colibrì: una natura tanto inospitale quanto ammaliante. Un ricettacolo di curiosità travolgente per chi, fin da bambina, aveva dedicato incalcolabile energia a scovare, catturare e allevare insetti con lo scopo di carpire e registrare in punta di pennello i segreti della metamorfosi. Maria Sibylla Merian, cinquantatreenne nel 1700, aveva intrapreso due mesi di viaggio via mare – da una sponda all’altra dell’Atlantico, da Amsterdam fino al Suriname – per approfondire i suoi studi in entomologia. Scienziata e artista, in un’epoca in cui la scienza era un’arte e l’arte una scienza, aveva investito tutto il proprio capitale per progettare un grand tour esplorativo ai confini del mondo conosciuto.
Al suo ritorno, nel 1705, sarebbe uscito, per i tipi di Gerard Valk, “il più bel libro mai dipinto in America”: la Metamorphosis insectorum surinamensius, in olandese e latino, corredato di sessanta tavole illustrate a colori. Un altro investimento ad alto rischio, per Merian, che non era digiuna di esperienza editoriale. Aveva alle spalle la produzione di svariati volumi naturalistici illustrati su fiori e insetti, come il Neues Blumenbuch (il Nuovo libro sui fiori, in tre volumi pubblicati tra il 1675 e il 1677) e il Raupenbuch (il Libro sui bruchi, di nuovo in tre volumi, 1679–1683) e proveniva inoltre da una famiglia ben inserita nel mondo della tipografia continentale. Figlia di secondo letto dell’incisore svizzero Matthäus Merian il vecchio, Maria Sibylla apprenderà il mestiere dell’illustrazione e della pittura nell’atelier di Jakob Marrel, secondo marito della madre Johanna Sybilla Heim, rimasta vedova quando la figlia aveva tre anni. Marrel era, non a caso, specialista in nature morte floreali: facile dunque immaginare una Maria Sybilla adolescente sperimentare, sotto la guida del patrigno, con la composizione grafica di foglie, fiori e frutti. Non sarà però la grazia leggiadra dei petali variopinti e multiformi ad affascinare, persino ossessionare, la giovane Merian. Ben presto, il suo occhio precocemente allenato alla visione artistica si concentrò infatti su quello che usava essere tutt’al più un elemento decorativo della rappresentazione naturalistica: gli insetti. Già all’età di tredici anni, Maria Sibylla aveva iniziato a raccogliere e campionare piante e, soprattutto, a catturare e allevare animali invertebrati. La sua predilezione andava ai bruchi – paffuti esserini che avevano la misteriosa e forse diabolica capacità di trasformarsi in farfalle dalla foggia imprevedibile. Merian apprese con la pratica a crescere bruchi, crisalidi, farfalle, meticolosa nel cercare le foglie adatte al loro nutrimento e nel rilevare i progressivi mutamenti degli esemplari. Spesso le sue aspettative di naturalista in divenire finivano tradite: a volte, non era una farfalla o una falena a dischiudere il bozzolo, ma una mosca oppure un verme. Merian dedicherà anni a darsi ragione di quegli inaspettati meccanismi di trasformazione animale, che sfidavano ogni tentativo di dare un ordine sensato all’universo naturale.
Non che la stessa Maria Sibylla fosse una creatura esente dal processo metamorfico. La sua evoluzione esistenziale, però, prese una piega facilmente presagibile, come Dio comandava. A diciotto anni, nel 1665, sposò Johann Andreas Graff, anch’egli pittore e pupillo di Marrel, il patrigno della moglie. Nel giro di un paio di anni, Merian – che ora si sarebbe firmata Maria Sibylla Graff – si trasferì con il marito a Norimberga e lì diede alla luce la loro prima figlia, Johanna Helena. La vita familiare, ad ogni modo, non le impediva di dedicarsi agli studi naturali attraverso la loro rappresentazione pittorica. Il ruolo di artista, per una donna, non era inusitato nella classe media tedesca del diciassettesimo secolo. Ma, se l’accesso diretto alla scienza naturale come cavillata in latino nelle università e nelle accademie le era precluso per ragioni di genere, la sua posizione mediana – e forse liminale – di donna della borghesia artigiana, le guadagnerà una scorciatoia culturale attraverso la costellazione liquida di quei saperi pratici che vanno dai ricettari degli speziali ai segreti orali delle levatrici. La sperimentazione – con le misture di colori e con le metamorfosi delle larve – sarà il fulcro dell’attività artistica e scientifica di Maria Sibylla Merian.
Questo spirito di ricerca convisse con la routine domestica per ben vent’anni, durante i quali Maria Sibylla ebbe un’altra figlia, Dorothea Henrica, e pubblicò le due serie di volumi illustrati su fiori e bruchi. Le mura della casa-laboratorio di Johann Graff, però, dovevano starle strette. Norimberga, più minuta e provinciale, non era la Francoforte in cui era cresciuta. A un certo punto, nel 1785, quelle mura divennero così claustrofobiche da imporre a Merian una decisione non facile, sicuramente ben ponderata, ma non meno azzardata: la separazione dal marito. Il divorzio, per quanto possibile, era uno statuto difficile da ottenere, soprattutto da parte della moglie. La soluzione escogitata da Merian fu dunque di allontanarsi dalla città per raggiungere una comunità pietista presso il castello di Waltha nel villaggio frisio di Wiewert, oggi in Olanda. Si trattava di un circolo religioso fondato dall’ex gesuita e poi calvinista francese Jean de Labadie. La vita presso la colonia labadista era spoglia di frivolezze, considerando che la condotta ascetica era uno dei cardini formali del movimento di eletti o rinati, ciascuno dei quali – uomo o donna – era chiamato al sacerdozio universale attraverso una devozione mistica senza mediazioni ecclesiastiche. La filosofia di Labadie aveva affascinato personaggi eccellenti del panorama culturale tedesco: una su tutte, Anna Maria van Schurman, pittrice e musicista, autrice di un trattato a favore dell’educazione femminile e di un dizionario di etiopico, prima donna ad essere ammessa in un’università olandese. Una carriera eclettica a cui la “stella di Utrecht” abdicò per esigenze spirituali. Non così Maria Sibylla Merian. La parentesi labadista – dal 1685 al 1691 – non coincise, per Merian, con l’abbandono degli interessi scientifici. Lo studio degli insetti continuò a tenere impegnata Maria Sibylla anche nel nuovo contesto, come raccontano le fitte entrate nei suoi quaderni di appunti. Non a caso, nella residenza di Waltha, si poteva ammirare una collezione di farfalle tropicali importate dall’insediamento labadista in Suriname. La passione per l’osservazione naturale, probabilmente, non era vissuta da Merian come un capriccio secolare: l’indagine dei meccanismi di evoluzione di un bruco in farfalla non era che, in fondo, una forma di contemplazione dell’operato divino. La religiosa cura scientifica – una cura religiosamente legittima – con cui Merian conduceva le proprie indagini doveva essere controbilanciata da un rinnovato senso di risoluzione personale che pure si sposava con il credo calvinista nella predestinazione divina. Risoluzione personale che la portò a lasciare la comunità labadista stessa. Nell’estate del 1691, dopo che i residenti di Waltha cominciarono ad ammalarsi fatalmente uno ad uno, Merian partì alla volta di Amsterdam.
Lo scenario che ora si ritrovava di fronte differiva fortemente dall’austerità ascetica del ritiro labadista in Frisia. All’intrico paesaggistico di ponti e canali popolati da un cosmo mercantile di molte lingue faceva da specchio, nel seno domestico, la vertigine labirintica di Wunderkammern e collezioni bizzarre. Spazi privati che si aprivano al pubblico, apoteche e giardini diventarono un nuovo e propizio terreno per Merian che, a questo punto, dovette ricostruire da capo una rete sociale – ma anche culturale – in cui inserirsi come artigiana della pittura e mercante. Forte del retaggio paterno, di cui ora riprese il nome, Merian si occupava non solo della vendita delle proprie opere ma anche dell’acquisizione e cessione di esemplari animali e vegetali, ambiti tesori di quella diligente caccia al meraviglioso che occupava naturalisti, artisti e profani facoltosi. Di questa ossessione per la rarità stravagante, tuttavia, Maria Sibylla non condivideva lo spirito puramente estetico e stentatamente scientifico: alle numerose collezioni di insetti che ebbe occasione di visitare, difatti, rimproverava la mancanza di accuratezza nel descrivere origine e sviluppo degli esemplari così orgogliosamente esibiti. Merian, al contrario, annotava e classificava minuziosamente il luogo e il contesto vegetale in cui trovava un insetto, così da poter provvedere lei stessa, in un ambiente controllato, a nutrire e far evolvere il soggetto della sua osservazione. Per questa ragione, la misteriosa fauna proveniente dalle lontane Americhe, così acriticamente accumulata nei gabinetti delle curiosità di Amsterdam, dovette insinuare nello spirito già audace di Maria Sibylla un’idea ancora più audace: in mancanza di studi appropriati dalla foresta vergine delle Amazzoni, avrebbe colmato lei stessa la lacuna. Non restava che organizzare un viaggio di ricerca naturale con destinazione La Providence, Suriname.
Nel 1699, dunque, Merian si imbarcò per il Sudamerica accompagnata dalla figlia Dorothea, all’epoca ventunenne e nubile. Le aspettative di Maria Sibylla dovevano essere ambiziose quanto nebulose: erano tempi in cui luoghi ignoti erano stati deflorati appena del mistero più profondo di tutti – l’esistenza stessa. Lo spazio per l’esplorazione era vasto, eppure godeva di una rassicurante fase di prima colonizzazione, gli echi della quale giungevano in patria in forma di nuovi frutti commestibili e strani animali imbalsamati. Tracce di un mondo da scoprire – e, penserà Merian, da analizzare, annotare, catalogare – sufficienti a far scoccare la scintilla della curiosità intellettuale. La documentazione materiale e testuale sulle Americhe era un processo in fieri cosicché, nella topografia mentale degli esploratori, l’immaginazione stessa doveva colmare i vuoti di ignoto. Di conseguenza, l’oceano di possibilità impensabili era controbilanciato dall’uso di una forma mentis aperta, certo, all’alieno, ma pur sempre allenata sui terreni monocromi del continente europeo. Una foresta brulicante di vite verdi, rosse, gialle e celesti era sì un campo insperato di inedita osservazione, ma poteva anche innescare un cortocircuito epistemico. Innumerevoli nuovi campioni naturali da studiare – ma insufficiente esperienza scientifica per gestirli e, in fondo, comprenderli. Per questa ragione, probabilmente, Merian mosse i primi passi nella terra rigogliosa del Suriname cautamente. Cercò un’abitazione dotata di giardino, così da poter condurre le proprie ricerche in un laboratorio domestico. Ben presto, però, il richiamo del brulicare barocco di potenzialità naturali da scoprire in forma di bruchi sconosciuti e farfalle mai viste attirò Maria Sibylla all’interno del territorio surinamese. Varcati i confini del proprio giardino, dove allevava gli esemplari che lei stessa e i nativi del suo entourage scovavano, iniziò ad addentrarsi nella foresta, con l’aiuto di guide del luogo – preziose fonti di informazioni – e non senza gli impedimenti del clima americano e dell’abbigliamento europeo. E tuttavia ogni volta emergeva un problema metodologico e dunque scientifico: Merian si rese conto infatti che era fondamentalmente impossibile ritrovare un secondo esemplare di una data specie dopo l’analisi di un primo ritrovamento casuale. Troppi e troppo vari erano gli insetti del Suriname, al punto che condurre una ricerca forte di prove e riprove si rivelò inattuabile. Per non parlare dell’inefficacia delle tecniche di allevamento sperimentate per lunghi decenni in Europa. Le stagioni, ad esempio, non si susseguivano con la regolarità ciclica del continente a cui era usa. In altre parole, l’ecosistema americano era tanto ricco di materiale quanto incontrollabile. A questa delusione scientifica si aggiungevano i problemi fisici di Merian, per la quale il clima estremamente caldo e umido rappresentò, a lungo termine, una sentenza di morte. Consumata lentamente dalle febbri, Maria Sibylla decise di tornare ad Amsterdam anzitempo, due anni dopo l’arrivo in Suriname. Nel 1701 Merian era di nuovo in Europa, carica di note e schizzi da riordinare in quello che diverrà il suo capolavoro editoriale, La metamorfosi degli insetti surinamesi. Ad Amsterdam rimarrà, attiva come pittrice, mercante e naturalista, fino al 1717, anno della sua dipartita.
Sarebbe forse scontato rileggere la parabola di Maria Sibylla Merian in termini di una metamorfosi culturale che dalla formazione artistica porta a un retaggio scientifico. Vero è che, come le metamorfosi animali da lei osservate, la vita di Merian ha conosciuto evoluzioni personali e deviazioni di percorso. Ma quella della metamorfosi, per la stessa Maria Sibylla, non doveva essere una rozza allegoria esistenziale. Piuttosto, la metamorfosi implicava una forma di pensiero per cui la trasformazione nel mondo naturale osservato rifletteva la possibilità di mutamento spirituale nell’essere umano che osservava, con il buon esempio teologico di Cristo morto e risorto. Furono personalità come Merian – ma anche studiosi quali Jan Swammerdam e Francesco Redi – a riscattare il ciclo vitale degli insetti dall’aura maligna di opera diabolica addotta dalle teorie sulla generazione spontanea. E di questo ciclo vitale Merian aveva colto un altro aspetto fondamentale: la coesistenza con un ambiente naturale. Il termine “ecosistema” verrà coniato da Arthur Tansley nel 1935, ma il seme di questo pensiero contestualizzante era ben radicato nello stile di ricerca di Merian. Paradossalmente – per chi è abituato a contrapporre arte e scienza – è proprio nella pittura di Merian che ciò si palesa, a tinte delicate ma pregnanti, ricche di contrasti, ma fortuitamente eleganti. Come un morfo blu iridescente su un frutto di melograno spaccato.
Ilaria Briata lavora, mangia, dorme e tutto sommato vive ad Amburgo, dove fa ricerca su cose bizzarre della letteratura ebraica. Impazzisce per il Gerusalemme, i dinosauri, i cannibali e disegnare. Quando prende confidenza, confessa di essere padovana.
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