È il 1997. Mi siedo su questo banco della scuola media, circondata da sconosciuti per metà bambini e per l’altra metà già ragazzi. È l’ora di religione e io, per qualche motivo, nonostante la totale assenza di un qualsiasi cenno di credo religioso, ho deciso di seguire le lezioni. C’è questa cosa che mi si dice di credere a qualcosa che non posso vedere, questa cosa dei dogmi, perché è così e basta, che proprio non mi va giù. Sono atea, dico a tutti quelli che me lo chiedono. Ho dieci anni e non credo in Dio.
La sera, a casa, facciamo abbastanza spesso questi discorsi che di base sono filosofia spicciola e quotidiana. Mia madre è atea. Mio padre, invece, è agnostico. “Che cosa significa essere agnostici?” gli chiedo. “Hai presente quando mi dici che non ti piace la pasta al pesto, e ti dico che non puoi saperlo se non l’assaggi?”
Con la forchetta infilzo un rigatone ben ricoperto di pesto. È domenica e tra poche ore andrò al Martin-Gropius-Bau, nel quartiere di Mitte a Berlino, proprio vicino al Checkpoint Charlie. Per tutto il mese di luglio, infatti, una mostra dal titolo Immersion/Limits of knowing sarà ospitata negli spazi del museo.
Al centro dell’esibizione il concetto di agnosticismo. Si esplorano l’inaccessibilità cognitiva e i limiti della comprensione umana. Sono molto curiosa di capire come mi sentirò, immersa totalmente nella rappresentazione reale dell’eterna lotta interna tra la fede e la conoscenza. Penso a mio padre e al suo tentativo di semplificazione di una questione filosofica così vasta e trasversale.
Alle 15 esco di casa e mi avvio verso il Martin-Gropius Bau. Quando esco dalla metropolitana una pioggia finissima comincia a scendere, annacquando il caffè americano che ho appena comprato senza migliorarne il sapore. Passo di fronte alla grande mongolfiera con la scritta Die Welt che giace a terra, spenta e inerme. Ogni volta mi chiedo come sia possibile che un oggetto così grande e dall’aria decisamente pesante e goffa riesca a starsene su in aria e anzi, abbia bisogno di corde per non fuggire via. Attraverso la galleria a cielo aperto Topographie des Terrors, e quasi nascondo il contenitore del caffè tra le mani perché mi sembra irrispettoso il solo fatto che io lo tenga in mano.
Dopo qualche passo mi trovo davanti all’ingresso dell’edificio. Salgo le scale e mi avvio verso la cassa per farmi staccare il biglietto. La mostra si trova al primo piano, dislocata su due lati. A sinistra si trova la parte dell’esibizione dal nome Rimini Protokoll, alla quale scopro di non avere accesso con il biglietto che ho prenotato. Mi sposto allora verso l’ala destra dove sono ospitate invece tutte le altre tre parti della mostra.
Al centro della prima stanza si trova una struttura formata da una pedana e due grandi tende grigie, delle quali la più esterna ruota di 360° lasciando intravedere, ad intervalli regolari, un’apertura. Dentro, ci sono due persone sedute che indossano dei Virtual Reality Box, degli occhiali per la visione della realtà virtuale in tre dimensioni. Su due lati della stanza, invece, delle persone sedute su panche bianche poggiate al muro indossano lo stesso strumento e muovono la testa a scatti. Quando le persone nella tenda escono, entro io. Ma non faccio in tempo a mettere il primo piede sulla pedana che subito una ragazza dell’organizzazione mi segue rimproverandomi per il fatto che non ho rispettato la lista d’attesa. Penso che non fosse esattamente chiaro il funzionamento della cosa ed esco. Il primo posto libero è dopo un’ora e mezza, quindi lascio il mio nome, pur sapendo che probabilmente non mi fermerò a vedere il filmato, e proseguo nella visita delle altre parti dell’esibizione.
La seconda stanza ospita l’installazione Haptic Field (V2.0) di Chris Salter e Tez.
Mi fanno indossare una giacca modello spaziale nera, e delle fascette elastiche che reggono dei piccoli dispositivi, due per braccio, uno su ogni gamba, poco sopra il ginocchio, e uno al centro del petto. L’attrezzatura è completata da un paio di occhiali opacizzati, che mi raccomandano di non togliere assolutamente una volta entrata nell’installazione. Una delle ragazze mi accompagna per mano oltre una pesante tenda scura e mi spiega che una volta dentro potrò camminare liberamente all’interno dello spazio ma che, nel caso volessi uscire prima o mi sentissi persa, dovrò cercare di raggiungere le pareti sulle quali, in basso, troverò una corda. Seguendo la corda, mi dice, arriverò all’uscita. Dopodiché mi guida la mano sinistra fino al primo capo della corda e se ne va, augurandomi buon divertimento.
Il buio è totale, gli occhiali opachi deformano anche quelle poche linee che riesco ad intravedere, fino a quando, dopo alcuni secondi, gli occhi iniziano ad abituarsi all’assenza di luce. La prima sensazione è quella di completo abbandono. Passano alcuni secondi prima che mi decida a lasciare il cordone e addentrarmi verso il centro della stanza. Il tempo che segue è confuso. Una serie di impulsi luminosi mi spingono a camminare in questa o quella direzione. Alterno momenti in cui cerco con frenesia di raggiungere le pareti e la corda che mi dà sicurezza ad altri in cui mi dico che devo lasciarmi andare e mi spingo verso il buio o la luce. Mi sembra che passi un bel po’ di tempo prima che io incontri altre figure che sono ombre di esseri umani deformati. Mi sento immersa in questa fitta coltre di nebbia dovuta agli occhiali.
C’è un momento in cui mi ritrovo in una stanza e riconosco almeno altre cinque o sei figure umane intorno a me. In quello che mi sembra essere il centro della stanza si accende una luce bianca che invade tutto lo spazio, e tutti i dispositivi che abbiamo al centro del petto cominciano ad illuminarsi e a vibrare ad intermittenza, ritmicamente. Come piccoli cuori battiamo tutti insieme e mi viene da sorridere.
Continuo a muovermi. Mi sento persa e in alcuni momenti sento che è un bene. In altri invece vorrei fuggire e mi assale il panico, causato dal fatto che non so assolutamente quanto tempo sia passato o se succederà qualcosa ad un certo punto e se ci sarà un segnale chiaro che ci indichi che dobbiamo uscire. Penso che non ho ancora mai raggiunto il punto da cui sono entrata, che non so come arrivarci e che non so quanto tempo sia trascorso. Quando arrivo in una stanza in cui riconosco, sfiorandola con la mano, la tenda da cui sono entrata mi sento improvvisamente più tranquilla e decido di restare ancora un po’. Provo e riesco a tornare nella stanza che, nella mia testa, ho intanto soprannominato la stanza dei cuori e attendo che si ripeta quel momento. Quando arriva mi accorgo però che ha perso la magia della prima volta. Così, ritrovo la tenda ed esco alla luce. L’effetto è assurdo. Mi accorgo di riuscire a respirare solo in maniera cadenzata, e il buio che mi lascio alle spalle è la placenta che risputa fuori il mio corpo nella realtà bianchissima, pulita e sorridente come i denti delle due ragazze bionde che aiutano i visitatori nella vestizione.
Recupero i miei oggetti personali e visito la terza parte della mostra, Arrival of Time.
Questa esibizione è composta da diverse opere, distribuite su quattro spazi. Il primo spazio è pensato come uno studio. Al centro una struttura ricoperta di cuscini sulla quale è possibile sdraiarsi o sedersi per leggere alcuni libri presenti nella stanza, che esplorano la questione delle fluttuazioni del tempo, da diversi punti di vista, sia scientifici che filosofici. Una serie di gattini dorati, quelli ipnotici che muovono la zampina avanti e indietro sono posti sugli scaffali insieme ai libri. Pesco un libro abbastanza a caso e mi sdraio qualche minuto sui cuscini. Mentre sono impegnata a comprendere il significato di alcune righe del libro Philosophy of Simulation di Manuel Delanda, un leggero movimento stonato, proveniente da qualche punto indefinito intorno a me, mi distrae. È la zampa di uno dei gattini che ho inavvertitamente toccato nel prendere il libro dal suo scaffale ed è rimasta spostata all’indietro ed ora si muove in avanti partendo dalla parte posteriore della testa del gattino. E poi ancora indietro. Mi alzo e ripongo il libro nel suo scaffale, sfiorando ancora la zampa e rimettendola al suo posto.
Leggo distrattamente alcune scritte sui muri che combinano il concetto di rilevabilità dei fenomeni fisici e l’assurdità di Alice nel Paese delle Meraviglie, quando qualcuno mi tocca il braccio, all’altezza del gomito. Mi giro di scatto abbastanza infastidita da questa invasione non richiesta e incrocio lo sguardo di un omino. Ha indosso la divisa blu dei guardiani del museo, i capelli gli stanno dritti in testa e ha una crosta sul mento. Nel complesso, è una figura decisamente inquietante. Mi dice:”Hai visto Alice?”. Gli faccio no con la testa e, come ipnotizzata, seguo questo strano essere umano con un misto di simpatia e repulsione. Mi conduce di fronte ad un acquario sul lato sinistro della stanza, che non avevo notato. Piega leggermente le ginocchia e mi guarda sorridente mentre mi indica qualcosa nella vaschetta. Nascosto tra le piccole rocce e i coralli fa capolino un piccolo gambero. Scopro che si tratta di un gambero mantide, un animale dalla vista straordinaria. Questo animale infatti non ha 3 recettori di colore primari, come quelli presenti nella retina umana -sensibili a giallo, rosso e blu- ma undici, il che gli permette di vedere una gamma vastissima di colori, dall’ultravioletto all’infrarosso. L’uomo continua a fissarmi mentre fisso il gamberetto – sto pensando chissà di quale colore mi vede la faccia l’animale. Poi mi dice: “È un po’ come Alice nel Paese delle Meraviglie. Ma il suo mondo, qui in questo acquario non dev’essere poi tanto meraviglioso”. Mi fa l’occhiolino e si allontana. Rimango per qualche secondo a girare intorno all’acquario, finché non ricordo quanto mi abbiano sempre annoiato questi piccoli mondi sottomarini rinchiusi in una teca di vetro. E allora me ne vado.
Nella stanza successiva campeggia un oggetto a forma di medusa, i cui tentacoli sono composti da strisce di led colorati. Sotto di lei una serie di strani dispositivi che, leggo, rilevano ogni cambiamento dell’ambiente circostante, registrando una serie di dati tra cui le vibrazioni dell’edificio, suoni, temperatura, campi magnetici e le loro variazioni. Nella terza stanza è installato un enorme schermo che ricopre l’intera parete lunga, sul quale viene proiettato il lavoro Not even nothing can be free of ghosts, di Rainer Kohlberger, inspirato ai movimenti casuali delle fluttuazioni quantiche. In quello che si potrebbe definire vuoto perfetto – uno spazio teoricamente privo di materia – i fisici hanno osservato particelle subatomiche entrare ed uscire provenendo da nessuna parte e sparendo in nessun posto, contravvenendo in sostanza al principio fondamentale della fisica per cui nulla si crea e nulla si distrugge. Il loro suono è un punto critico per il rilevamento delle onde gravitazionali, poiché ogni segnale trasmesso a frequenze più basse di quelle del suono da loro prodotto non potrà mai essere percepito da noi esseri umani. Mentre alcune persone sono sedute a terra e osservano le ombre proiettate sullo schermo io decido di spostarmi nell’ultima sala. Qui sono poste due vasche, una circolare e una rettangolare nelle quali, attraverso un gioco di luci, onde e laser sono riprodotti due effetti fisici dovuti ai buchi neri: la superradianza e i cunicoli spazio-temporali (wormhole). Per tutto il tempo penso al progetto techno Traversable Wormhole e ai loro pezzi oscuri, mentre in sottofondo sono trasmessi suoni creati ad hoc per l’opera da William Basinski.
Come sospettavo, alla fine decido di saltare la visione del filmato tridimensionale e mi avvio all’uscita.
Fuori è un pullulare di turisti che salgono e scendono dagli autobus e si trascinano, in piccoli gruppi, sotto il cielo plumbeo.
Penso al colore grigio e a come lo vedrebbe Alice nel suo piccolo mondo delle meraviglie acquatiche.
Foto di copertina di: ©Francesca Fabris
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