Chi arriva a Berlino all’aeroporto di Schönefeld e prende la S-Bahn per spostarsi verso il centro, viaggia su un lungo rettilineo ferroviario che attraversa in modo quasi panoramico i sobborghi e poi i quartieri meridionali di quella che una volta era Berlino Est. Quando il treno riparte dalla fermata di Schöneweide, guardando verso oriente si scorge al di sopra di altri edifici moderni un enorme tetto nero spiovente a pinnacoli che sovrasta una costruzione di mattoni rossi, trasformati in una cortina bordeaux dallo scorrere del tempo e ricoperti di graffiti. Una firma dell’audacia dei writers berlinesi, ma anche dello stato di abbandono dell’edificio. Pochi secondi e l’accelerare del convoglio fa sparire la visuale, lasciando il viaggiatore attento ai dettagli con una buona dose di curiosità inappagata.
Sarebbe più che giustificata, perché quello che si scorge è solo uno spicchio del più grande sito industriale abbandonato della capitale tedesca, ed uno dei più estesi angoli derelitti di una città che pure non è stata avara di spettacoli di questo tipo e dimensioni, soprattutto a partire dal crollo del Muro nel 1989.
Si tratta della grande Bärenquell Brauerei, un tempo tra le più grandi manifatture di birra di Berlino. È un complesso di circa quattro ettari e mezzo di estensione, sorto nel 1882 sulla sponda meridionale del fiume Spree, nel distretto di Treptow-Köpenick, nella parte sud-orientale della città. Dentro questi involucri di mattoni rossi in larga parte ancora originali e risalenti al periodo a cavallo tra fine XIX ed inizio XX Secolo, questa variante della popolare Pilsner berlinese è stata fermentata, raffinata e imbottigliata quasi ininterrottamente per ben centododici anni.
La fabbrica, che al culmine della sua attività impiegava tra quattrocento e cinquecento operai e maestranze, è sopravvissuta a depressioni economiche, sconvolgimenti politici e ai danni di una guerra mondiale. Il suo lungo sentiero storico incontrò però la fine negli anni ‘90, nel bel mezzo delle turbolenze della transizione economica tra l’economia pianificata della Germania Orientale e quella di mercato della riunificazione tedesca.
Dopo anni di abbandono e diversi contestatissimi piani di demolizione e riutilizzo, questo enorme sito industriale è però oggi prossimo ad incontrare la sua rinascita. I lavori di restauro e ricostruzione sono infatti da poco stati avviati, assieme ad una lunga serie di proposte riguardanti l’utilizzo dei suoi spazi. Istituzioni educative, culturali, ricreative, centri artistici, strutture ricettive e locali notturni dovrebbero avere tutti un ruolo nel suo recupero. Il quale, cosa ugualmente importante, manterrà per buona parte inalterate le costruzioni storiche che compongono il sito.
Le vicissitudini che hanno portato questo pezzo di storia industriale di fine XIX Secolo a sopravvivere ad oltre cento anni di sconvolgimenti per poi finire all’abbandono nel bel mezzo di una capitale europea, necessitano di una lunga retrospettiva storica. E non solo limitata alla storia di questo opificio, ma anche del quartiere che la circonda.
Schöneweide è una vasta area della parte sud-orientale di Berlino, oggi inclusa nel distretto amministrativo di Treptow-Köpenick. Fino al 1990 parte di Berlino Est, è a sua volta divisa a metà tra la zona a nord del fiume Spree e quella a sud, rispettivamente chiamate Oberschöneweide e Niederschöneweide. Abitata da agricoltori e pastori già dal XVII Secolo, fino alla fine dell’800 era ancora un’area divisa tra la periferia e l’aperta campagna, come suggerito dal nome, che nel tedesco di inizio ‘600 indicava una prateria, ma che successivamente venne usato in modo quasi vezzeggiativo per l’ampia presenza di allevamenti suini nella zona. Oggi è un’area residenziale in piena espansione, sempre più attraente per i berlinesi in fuga dalla spirale ascendente dei prezzi immobiliari nelle aree centrali della capitale. Ma è sufficiente camminare per le sua strade, soprattutto quelle prossime al fiume, per fare una full immersion nella storia industriale di Berlino, per non dire della Germania intera.
Sulla riva fluviale di Oberschöneweide il paesaggio è tutt’oggi quasi interamente occupato dai mattoni gialli e arancio di una lunga serie di opifici realizzati tra la fine del XIX e l’inizio del XX Secolo, spesso ancora sovrastati da alte ciminiere coniche d’altri tempi.
È qui che la capitale tedesca ad inizio ‘900 divenne – assieme alla cittadella di Siemensstadt nella zona nord-occidentale della città – una avanguardia della Seconda Rivoluzione Industriale europea sul fronte dell’ingegneria elettrica. Una circostanza che assieme all’avanzato stadio di elettrificazione della capitale diede i natali alla definizione di Elektropolis Berlin.
Ma mentre nell’ovest cittadino a guidarla fu il conglomerato dei fratelli Siemens, a Oberschöneweide il volano fu la Allgemeine Elektricitäts-Gesellschaft (AEG), fondata nel 1883 da Emil Rathenau, padre dell’omonimo Walther futuro Ministro degli Esteri della Germania di Weimar, assassinato nel 1922. Fu proprio Emil a stabilire nel 1899 il primo nucleo dei suoi impianti nell’area.
Le produzioni del conglomerato spaziavano dagli impianti di riscaldamento per edifici ai motori elettrici. Ma il sito di Schöneweide divenne soprattutto una manifattura delle prime linee telefoniche commercializzate in massa, e poi delle telecomunicazioni in generale. Il conglomerato e la sua domanda di semilavorati e tecnologie intermedie stimolò fin da subito nell’area la crescita di altri stabilimenti industriali. AEG divenne in seguito uno dei maggiori produttori mondiali di elettrodomestici, al punto da assorbire nel 1967 la popolare Telefunken produttrice di televisori, prima che varie peripezie manageriali e la concorrenza giapponese ne determinassero il declino e infine la messa all’asta, nel 1982.
Alla pari di Siemensstadt, anche il quartiere di Schöneweide e i suoi capitalisti condivisero tanto le glorie dell’industrializzazione quanto le pagine storiche più cupe della Germania del XX Secolo. Anche la AEG e le aziende meccaniche dell’indotto circostante vennero inglobate nel complesso industrial-militare del Terzo Reich, e gli impianti produssero una vasta gamma di congegni ad uso militare fino alla fine del conflitto mondiale. Fin dal 1940, le fabbriche utilizzarono largamente il lavoro schiavile degli internati nei campi di concentramento. Nei pressi della vecchia fabbrica alcune delle baracche dove i lavoratori deportati erano reclusi sono tutt’oggi conservate per preservare la memoria storica di questa pagina nera.
L’importanza industriale militare fece infine della zona un bersaglio dei raid aerei alleati, che tra il febbraio e l’agosto 1944 devastarono l’area produttiva ed il quartiere operaio sorto nei dintorni.
I destini di Schöneweide e quelli dei suoi capitalisti primo-novecenteschi si separarono bruscamente nel 1949 con la fondazione della Repubblica Democratica Tedesca. Anche le aziende del distretto vennero nazionalizzate e riorganizzate secondo le linee guida dell’economia pianificata del blocco comunista. Ma la permanenza nell’area di maestranze e know how tecnologico e elettrotecnico spinsero i pianificatori della DDR a riprendere il sentiero dell’industrializzazione avanzata avviato dagli antichi proprietari. Gli impianti di Oberschöneweide mantennero ed estesero la manifattura di materiale radiofonico ed elettrico.
L’ex stabilimento AEG divenne parte della Rundfunk-und Fernmelde-Technik, la maggiore manifattura di apparati televisivi della Germania dell’Est. Ma nell’ottica di un un distretto industriale integrato nelle sue varie produzioni, i pianificatori statali della DDR decisero di affiancare ai complessi già esistenti un più “classico” elemento di industria pesante in stile sovietico. Sulla sponda meridionale, nell’area di Niederschöneweide, sorse così un vasto stabilimento metallurgico, la VEB Berliner Metallhütten, che si estendeva a tratti separati per mezzo chilometro lungo la sponda meridionale del fiume.
Ed era proprio al limite settentrionale di questo stabilimento che il vivaio di fabbriche incontrava la Brauerei, la sua propaggine più datata ed al tempo stesso più estranea.
Una mattina di settembre, esco dalla stazione S-Bahn di Berlin-Schöneweide e imbocco subito sulla sinistra l’ampia Schnellerstraße, che risale verso il parco Treptower correndo parallela al corso della Spree. Il grande incrocio tra la linea ferroviaria e l’arteria stradale è un caotico tripudio di insegne ed aree commerciali, traffico e fast food. Risalendo verso nord la strada cede il passo al solo rombare dei veicoli, quando le abitazioni scompaiono lasciando spazio ad un gigantesco e desolato slargo occupato da due centri commerciali con altrettanto vasti parcheggi. È tutto quel che (non) rimane proprio della VEB Berliner Metallhütten: considerato obsoleto, l’impianto metallurgico, che al culmine della sua attività negli anni ‘60-’70 impiegava circa duemilatrecento lavoratori, non è sopravvissuto alla fine dell’economia socialista, ed ha chiuso i battenti reparto dopo reparto nel 1990-92. La parte dell’impianto prospiciente la Bärenquell è stata demolita già negli anni ‘90, lasciando l’area a lungo abbandonata e invasa da sterpaglie, fino ad essere riempita dai due malls nel 2015-16. Gli altri impianti, situati più a sud ed inclusivi del palazzo della direzione, sono rimasti in abbandono fino alla loro demolizione, avvenuta tra il 2012 ed il 2017, per lasciare spazio ad un complesso residenziale.
Costeggiare la parte frontale del complesso affacciato sulla Schnellerstraße permette già un piccolo tuffo nella storia del più antico nucleo del sito. Nell’angolo sud-occidentale del perimetro sono infatti tutt’oggi esistenti gli edifici che formavano il nucleo primario del complesso, inizialmente molto più piccolo delle attuali dimensioni. La storia della Bärenquell, infatti, non è quella di una grande manifattura realizzata rapidamente, bensì di un birrificio inizialmente poco più che artigianale e successivamente ingranditosi a dismisura.
Affacciata direttamente sul caos stradale dell’incrocio tra Waserstraße e la Schnellerstraße, si trova infatti la casa del mastro birraio Alex Kampschenkel, co-fondatore della fabbrica assieme all’imprenditore Max Meinert. Costruita nel 1882, è poi divenuta la residenza aziendale. Vista la funzione, appare un edificio piuttosto modesto: tre piani uniformi in mattoni rosso-scuro, separato del tutto dal resto del complesso. A sinistra e a destra della residenza si trovavano il più antico ingresso dei lavoratori e quello di uscita delle botti di birra già raffinata, che veniva immagazzinata prima della spedizione in un lungo edificio basso e stretto che costituiva anche il perimetro meridionale.
Subito dopo l’ingresso degli operai, oggi sbarrato da un cancello arrugginito sormontato da filo spinato, si trova l’edificio amministrativo dell’azienda. È un elegante e basso caseggiato in stile neo-rinascimentale, realizzato nel 1888 dallo stesso architetto della residenza, Robert Bunzel. Le finestre e gli ingressi dell’edificio, visibilmente rovinato dall’abbandono, sono bordate di contorni granitici decorate con motivi decorativi.
Proseguo la camminata lungo il lato occidentale dell’edificio, un prolungamento dell’area direzionale realizzato ad inizio ‘900 e poi ricostruito tra gli anni ‘50 e ‘80 e mi ritrovo infine davanti all’ingresso più recente dei lavoratori. La grande insegna scritta in vernice verde scuro campeggia ancora al di sopra dell’ingresso, consumata dalle intemperie e dal passare del tempo.
Oltre la ruggine di un cancello provvisorio si stagliano diversi stabili visibilmente derelitti, dalle cui finestre si intravedono muri interni completamente ricoperti di graffiti. Sul parterre di questo scenario ci sono però segnali di cambiamento: detriti raccolti negli angoli, bancali, e casse di attrezzi da lavoro. E una automobile parcheggiata, l’appuntamento con il mio “lasciapassare” per entrare a vedere tutto questo da vicino.
Capelli scuri, occhiali, t-shirt e aria decisamente informale, Gilad Cohen mi saluta sorridente mentre mi stringe la mano all’ombra delle rovine del refettorio. È il giovane project manager incaricato di seguire il recupero dell’intero sito per conto dell’azienda edilizia alla quale è stato affidato il restauro, la Home Center Management 365. E che si è offerto di accompagnarmi in un tour tra le rovine della Brauerei. Ma anche di illuminarmi sul passato di questa fabbrica e sul progetto di recupero delle strutture ed il loro riutilizzo.
Nata ufficialmente col nome di Borussia Brauerei, la fabbrica ha subito un gran numero di allargamenti e ricostruzioni nel corso del suo secolo di attività. Ma dopo l’inizio artigianale degli anni ‘80 del XIX Secolo, la trasformazione e l’allargamento dell’impianto ha mantenuto attraverso i decenni il carattere “circolare” in senso antiorario del suo processo produttivo, come mi spiega Gilad.
“Il ciclo iniziava nell’edificio retrostante la Direzione, con l’immagazzinamento della materia prima e l’inizio della sua lavorazione. Procedeva poi a fianco con l’impianto di raffinazione del liquido grezzo”. L’angolo orientale di primo agglomerato di edifici era completato dalla Maschinenhause, la centrale di movimentazione dei macchinari, ma fu in seguito adibita anche a stazione di pompaggio del “mosto” verso gli impianti di fermentazione, quando il trasporto manuale venne sostituito da una grossa tubatura collegata direttamente con l’isolato successiva, tutt’oggi esistente ed in buono stato di conservazione.
“Il liquido non raffinato” prosegue la mia guida “veniva poi trasportato in questo secondo blocco di edifici dove si trovavano le celle di fermentazione. Terminata la lavorazione, nei due edifici prospicienti avvenivano l’immagazzinamento e poi l’imbottigliamento.”
Nel 1898, il successo della birra prodotta nel sito sul mercato spinse la fabbrica alla prima grande acquisizione della sua Storia. Ad acquistarla fu infatti la già allora prestigiosa Schultheiss Brauerei, che fece della fabbrica il suo quarto sito produttivo su scala nazionale (Abteilung IV). Fondata originariamente dal farmacista August Heinrich Prell nel 1842, questa grande azienda, ancora oggi esistente ed arcinota nella capitale tedesca per la produzione della birra Berliner Kindl, era allora nel pieno della sua espansione.
La sua sede originaria era una gigantesca fabbrica situata nel quartiere di Prenzlauer Berg, oggi restaurata ed adibita a centro culturale e per eventi, la Kulturbrauerei. Il successo delle sue birre spinse la ditta ad una vera e propria colonizzazione delle strutture adibite alla produzione in tutta la capitale tedesca, e che proseguì fino agli anni ‘20. Alla vigilia del secondo conflitto mondiale, la Schultheiss era titolare di ben sei impianti nella sola cerchia cittadina di Berlino.
La nuova proprietà diede impulso ad una lunga serie di rifacimenti e soprattutto ampliamenti del sito produttivo. Tra il 1901 ed il 1910, sotto la direzione dell’architetto Hans Otto Obrikat, l’allargamento della fabbrica divenne un vivaio di realizzazioni neo-gotiche. Vennero ricostruite in questo stile la Maschinenhaus, l’impianto di stoccaggio e quello di imbottigliamento. Sul bordo occidentale del complesso affacciato sulla Schnellerstraße, nel 1904 venne anche realizzata anche una manifattura in house delle grandi botti di legno per la vendita all’ingrosso della birra, fino a quel momento importate da altre botteghe.
Gli allargamenti strutturali più maestosi furono però quelli realizzati negli anni ‘20, quando vennero estesi gli impianti di fermentazione, il secondo gruppo di edifici più spostato verso il fiume. Tra il 1925 ed il 1929 questa parte del complesso fu ricostruita quasi per intero, un restyling in stile espressionista che portò in dote anche la realizzazione dell’edificio più elevato ed imponente dell’intero complesso. Un altissimo parallelepipedo culminante in una torre di raffreddamento che era dotata persino di una terrazza panoramica esterna a circa trenta metri di altezza dal suolo.
Uno stile abbastanza in linea con la megalomania architettonica dei Roaring ‘20s, complici gli ampi profitti disponibili in quell’ultima breve corsa del vecchio capitalismo di inizio secolo, prima delle catastrofi della Grande Depressione e della guerra mondiale. L’altezza dell’edificio era funzionale alla verticalizzazione del processo di produzione della birra. Grazie al trasporto diretto del mosto tramite la tubatura dagli impianti di prima lavorazione, la produzione procedeva dall’alto verso il basso fino alla conclusione con l’ausilio della sola forza di gravità. Ai piani inferiori, la birra pronta veniva convogliata in tubazioni che la portavano direttamente agli impianti di stoccaggio in botte o di imbottigliamento.
Nonostante gli edifici siano ormai svuotati del loro contenuto di macchinari, il rapido giro all’interno delle strutture rivela chiaramente l’incontro di diverse epoche di costruzione. Vasche di filtraggio della birra, coperte di graffiti ma con le piastrelle ancora lucide, giacciono all’interno di uno stabile in mattoni del primo ‘900, mentre nell’edificio prospiciente, all’ombra di pilastri portanti in metallo vagamente art deco, campeggia una centrale di controllo-macchine che sembra uscita dritta da una fabbrica di una pellicola di Elio Petri.
Gli allargamenti effettuati prima e dopo la Grande Guerra non andarono però esclusivamente a beneficio degli impianti produttivi. Al centro del complesso già nel 1914-15 venne realizzata una mensa aziendale per i dipendenti, poi modernizzata nel 1955. Il perimetro settentrionale dell’impianto assunse invece la sua forma attuale nel 1927; questi ampliamenti rappresentarono anche l’ultimazione della fabbrica in tutte le sue funzioni moderne, come mi indica Gilad: “Vi fu edificato un edificio a tre piani lungo e stretto, nel quale vennero allargati gli uffici amministrativi e posizionati i laboratori di controllo e manutenzione”.
Il sentiero storico delle nuove costruzioni si interruppe bruscamente tra il 1930 ed il 1951, perfettamente in linea con la Grande Depressione ed il conflitto mondiale. Mentre la militarizzazione degli impianti della AEG sull’altra sponda del fiume portò temporaneamente una nuova affluenza di manodopera, la Brauerei rimase ai margini degli eventi bellico-industriali. E forse proprio per questo, ne venne anche risparmiata: l’impianto uscì dal conflitto quasi intatto, nonostante le devastazioni dei bombardamenti aerei che colpirono l’area di Schöneweide.
Nel 1946, dopo la prima spartizione della città tra le potenze occupanti, ben quattro degli impianti della Schultheiss rimasero nell’area di occupazione sovietica e vennero espropriati e poi nazionalizzati dal nuovo regime della Germania orientale nel 1949. La popolarità del marchio originario tra i consumatori rese però difficile anche ai pianificatori della DDR di fare a meno della nomea antica del prodotto, e la fabbrica fu quindi rinominata Schultheiss-Brauerei Niederschöneweide, al quale fu aggiunta la sigla VEB nel 1954, quando l’impianto fu ufficialmente designato come Volkseigene Betrieb, cioè “Azienda del Popolo”, la definizione con la quale la DDR designava le imprese di Stato autonome.
Il primo aprile 1959, anche il brand degli antichi proprietari scomparve però del tutto, quando l’impianto fu inglobato in un unico conglomerato di diverse imprese statali interamente dedicato alla produzione della birra, ed inclusivo anche delle altre fabbriche della Schultheiss nazionalizzate, la VEB Berliner Brauereien, ribattezzato VEB Getränkekombinat Berlin nel 1969. E fu allora che la birra prodotta nell’impianto assunse definitivamente il nome di Bärenquell.
La ricostruzione post-bellica e l’eliminazione di ogni potenziale concorrente dalla Germania Occidentale ridiedero fiato rapidamente alla produzione di birra nella fabbrica, che vide prima un restyling delle strutture esistenti, e poi negli anni ‘70 anche l’ultimo significativo allargamento.
Gilad mi indica infatti un edificio in cemento grigio con le pareti esterne scolpite in bassorilievi decorativi e una parete completamente aperta, un tempo chiusa da una enorme vetrata nell’angolo settentrionale dell’agglomerato. “È un tipico elemento architettonico della Germania Orientale, letteralmente incollato ad un edificio di fine ‘900”. Si tratta infatti del “raddoppio” dell’impianto di raffinazione del malto iniziale, realizzato nel 1968 a ridosso di quello di inizio secolo.
L’aggiunta più significativa del periodo DDR è però quella che occupa gran parte dell’area della ex fabbrica quasi a picco sul fiume Spree. Nel 1978, infatti, fu realizzato un nuovo enorme impianto di imbottigliamento e stoccaggio della birra raffinata. Pur non essendo l’edificio più imponente del complesso in altezza, è di gran lunga il più esteso in orizzontale. Con questa realizzazione, l’impianto toccò anche il picco storico di occupazione, circa quattrocento tra operai, addetti e quadri dirigenziali.
Anche questa nuova opera fu collegata all’impianto di fermentazione con una grande condotta che vi trasferiva direttamente il prodotto finito. Una anonima struttura metallica che sbuca come un serpente dalle antiche mura in mattoni dell’edificio a torre e termina in quello recente di fianco ad un enorme e bellissimo graffito. Quasi fosse un ponte spazio-temporale tra passato remoto, passato prossimo ed il presente di abbandono di questo complesso.
Nessuno poteva immaginare che quest’ultima realizzazione dentro il perimetro della fabbrica avrebbe funzionato solo per un quindicennio.
Nel 1990, il crollo del blocco sovietico e la riunificazione tedesca misero la parola fine all’economia pianificata della DDR, e con essa anche all’esistenza di numerose fabbriche del distretto di Schöneweide. Ma, almeno inizialmente, non della Bärenquell. Il VEB Getränkekombinat Berlin fu infatti liquidato ed i suoi impianti privatizzati, ma l’unico tra gli antichi birrifici della Schultheiss ancora attivi a non trovare acquirenti fu quello situato a Richard-Sorge Straße nell’area di Lichtenberg, che chiuse i battenti nel 1991. (La storica fabbrica di Schönhauser Allee, dismessa già nel 1967, vide ben presto una grande opera di riconversione in un centro culturale e artistico, la già citata Kulturbrauerei).
La Bärenquell Brauerei fu privatizzata come impresa autonoma nel 1990 ed acquisita con successo nel 1991 dalla compagnia Henninger-Bräu AG di Francoforte sul Meno, che continuò la produzione, anche se con un numero di lavoratori molto ridotto rispetto al picco degli anni ‘70 (poco più di duecento).
Ma appena due anni dopo, nel 1993, fu proprio la nuova proprietà a finire in dissesto finanziario. Nel tentativo di fare cassa, la dirigenza della Henninger tentò inizialmente di disfarsi solo di parte dell’impianto vendendo molti degli edifici storici ad immobiliaristi interessati a realizzare al loro posto uffici ed aree commerciali. Ma la mossa fu prontamente stoppata dall’autorità pubblica del distretto di Treptow, che già a fine anni ‘80 aveva decretato per molti stabili della Bärenquell il riconoscimento di edifici con valore storico, e pertanto meritevoli di preservazione.
Lo scontro tra la nuova proprietà ed il Bürgeramt di Treptow precipitò rapidamente la situazione: il primo aprile 1994, con pochissimo preavviso, la Bärenquell Brauerei cessò bruscamente la produzione, anche se alcuni edifici del complesso vennero usati come magazzini ancora per i due anni successivi.
Questa brusca chiusura non salvò infatti la Henninger-Bräu AG dai suoi problemi finanziari, e nel 1996, la compagnia dichiarò bancarotta. Il marchio della birra prodotta nel sito, rinominato Bärenquell Berliner Pilsener Spezial, fu venduto alla Brauhaus Preußen Pils, un’azienda di medie dimensioni che continuò la produzione della birra col suo nome originario fino al 2008 nella fabbrica di Pritzwalk, nel Brandeburgo. Nel 2009, anche questa impresa fu a sua volta acquisita da un gruppo concorrente, che decretò anche la scomparsa del marchio e consegnò definitivamente la Bärenquell Pilsener alla Storia.
Il carattere repentino di quella dismissione, riecheggia nel racconto di Gilad: “Abbiamo parlato con diversi ex lavoratori dell’impianto. Ad inizio anni ‘90, l’occupazione era già molto diminuita, ma l’abbandono della produzione avvenne in modo davvero brutale. Nessuna parte significativa dell’opificio era stata già dismessa prima della chiusura, tutti gli impianti erano ancora perfettamente funzionanti”.
Una vera “fuga di mezzanotte”, testimoniata anche dall’abbandono dentro la struttura persino dei materiali di imbottigliamento. “Per anni” prosegue Gilad, “gli urban explorers berlinesi hanno trovato all’interno della fabbrica centinaia di bottiglie di vetro vuote mai riempite, ma anche migliaia di adesivi di marca, registri e documentazione relativa ai macchinari”. In effetti è una circostanza in parte ancora visibile al momento della mia visita guidata: in uno spazio vuoto di fianco alla scala di accesso al secondo piano dell’impianto di imbottigliamento, scorgo una montagna di vecchie cartacce, in larga parte marcescente per l’umidità, dalla quale Gilad, di fronte al mio sbigottimento estrae sorridente due piccoli fogli per lasciarmeli in mano: “un piccolo souvenir”.
In diversi siti web dedicati all’esplorazione di luoghi derelitti di Berlino, si trovano foto scattate nella fabbrica non più di una decade fa che mostrano anche documenti di archivio ancora reperibili negli edifici della direzione, come le bolle di spedizione dei carichi di birra dell’epoca della DDR.
Una vera miniera per gli avventurieri dell’abbandono post-industrial, ma purtroppo anche per persone con intenzioni assai meno edificanti degli “esploratori”, come mi riferisce la mia guida. “Negli anni ‘90 e primi ‘2000 i resti dei macchinari rimasti nella fabbrica e le suppellettili sono state vittime di un vero e proprio saccheggio. Si sono verificati perfino smontaggi di pezzi di macchinari e furti di parti metalliche allo scopo di rivenderli al mercato nero. Senza contare poi gli episodi di puro e semplice vandalismo, culminati anche in incendi”.
Non tutto l’abbandono è venuto però per nuocere, come sottolinea il mio accompagnatore. “Molti graffiti dei writers entrati qui dentro nel corso degli anni sono vere e proprie opere d’arte. Saremmo lieti di poterne conservare alcune, se i lavori lo rendessero possibile.”
Il degrado subito dalla ex fabbrica fu del resto coerente col declino di tutta l’area di Schöneweide nel decennio post-Muro. L’intero distretto industriale, che ancora nel 1978 impiegava quasi quarantamila persone, nel 1997 era sceso a soli sedicimila occupati, che declinarono ulteriormente negli anni successivi fino alla virtuale dismissione dell’intera area sia a nord che a sud del fiume. Povertà, degrado e problemi sociali afflissero duramente questa ex grande comunità operaia, che alla pari di buona parte della ex DDR fronteggiò un significativo calo della popolazione dovuto all’emigrazione verso occidente.
Poi, negli anni ‘2000, il riscatto. L’area di Oberschöneweide e gli ex impianti AEG-Rundfunk-und Fernmelde-Technik, hanno visto gli spazi delle vecchie fabbriche riempiti di uffici, start-up, musei, caffè e soprattutto una grande sede universitaria. Ancor più significativo è che tutto questo sia avvenuto preservando larga parte delle strutture industriali storiche e tenendo almeno in parte a freno gli appetiti delle speculazioni immobiliari.
Un approccio virtuoso alla riqualificazione urbana, che però non si è esteso a Niederschöneweide ed alla sponda meridionale della Spree, come testimoniato dalla scomparsa sotto i colpi dei bulldozer dei resti della VEB Berliner Metallhütten e l’occupazione del vuoto creato da centri commerciali e complessi edilizi. Ma se nel caso dell’impianto metallurgico c’era almeno l’effettiva necessità di bonificare un’area pesantemente inquinata e densa di materiali nocivi, quelle che negli ultimi vent’anni hanno preso di mira la Bärenquell sono state fino all’ultimo pulsioni distruttive a fini commerciali.
“Le due imprese che hanno messo per prime gli occhi su questo complesso avevano intenzioni molto poco da restauratori e molto più distruttive”, mi riferisce infatti Gilad. La prima fu nel 2007 la nota catena di distribuzione Baumarkt Max Bahr. La trasformazione della ex fabbrica in un centro commerciale avrebbe salvato solo la Maschinenhaus e l’edificio della torre di raffreddamento. “Tra il 70 e l’80% del complesso non sarebbe sopravvissuto”, un piano che causò pesanti critiche da parte della cittadinanza e dalle autorità locali e ritardò per anni l’inizio di qualsiasi lavoro nel senso indicato dal nuovo proprietario”.
Se la crisi economica della ex DDR e la bancarotta del primo acquirente avevano segnato il destino della produzione di birra nel complesso, la recessione del 2009 ed un’altra bancarotta salvarono la vecchia Bärenquell dalla demolizione. La Baumarkt finì rapidamente in dissesto finanziario per via della crisi, e fu costretta a rinunciare al progetto nel 2012, per poi portare i libri in tribunale l’anno successivo.
Il sito fu quindi nuovamente rilevato da un’altra catena di distribuzione commerciale, la quale – come sottolinea Gilad – nel 2014 riprese il progetto sostanzialmente sulla linea di quello precedente. “Il tasso di non- conservazione della struttura sarebbe semplicemente sceso a due terzi del sito”. Nel 2015-16 inoltre l’area dell’ex complesso metallurgico a fianco del rudere fu occupata da un altro grosso centro commerciale, lasciando la Bärenquell completamente isolata da tutto il contesto urbanistico circostante. Ma l’azienda, già proprietaria di un altro shopping mall a poca distanza dalle rovine, fronteggiando oltre alle critiche della cittadinanza anche il rischio della ridondanza, rinunciò a sua volta a mettere mano al sito.
Il confronto tra i due precedenti progetti di riutilizzo e quello attuale suscita nel mio accompagnatore un moto di palpabile orgoglio. “Il progetto di recupero affidatoci prevede un tasso di conservazione della struttura originaria superiore al 70% del totale del sito, e di ricostruzione in buona parte degli spazi demoliti”.
Durante il nostro breve ma denso tour tra le rovine, Gilad mi indica anche quelli che nelle intenzioni saranno gli utilizzi di alcuni degli spazi interni al complesso. “Il principale interessato al riutilizzo della struttura è una università privata, che vorrebbe realizzare al suo interno un nuovo campus. Ingresso ed area amministrative saranno localizzati nel primo nucleo storico degli impianti produttivi, tra la Maschinenhaus e le stanze di prima lavorazione. In totale, il campus dovrebbe essere attrezzato per oltre un migliaio di studenti”. Il retro del grande capannone, sarà invece una passeggiata lungo il fiume aperta al pubblico.
Per i grandi saloni dell’impianto di imbottigliamento, invece, si pensa già ad una soluzione più artistica. “Siamo in trattativa con una compagnia teatrale statunitense che è in cerca di una sede europea per la sua scuola. Gli spazi di questo grande edificio potrebbero rispondere ai criteri che stanno ricercando”.
Ancora in fase studio sono le funzioni per il resto del complesso ed i suoi edifici di dimensioni più contenute. “Stiamo allargando costantemente il ventaglio degli interessati”, prosegue Gilad. “Gli altri spazi saranno destinati a piccole startup innovative, laboratori per artigiani e piccole imprese produttive, ma anche atelier da esposizioni artistiche e performance nel campo della musica e della moda.” Anche il mondo dei writers, mi confida Gilad prima di salutarci, potrebbe avere spazi a disposizione per continuare a sviluppare l’arte dei graffiti una volta che saranno orfani di questo grande rudere. “Sarebbe quasi naturale, la loro arte è ormai parte integrante di questa fabbrica”.
Appena fuori dalla Bärenquell, due passi nell’aria mattutina mi portano dove le sponde di Schöneweide sono unite; lo stretto ponte di Edisonstraße. Tra macchine, ciclisti e tram di passaggio, si gode una panoramica tanto della fabbrica della birra abbandonata quanto della prospettiva degli impianti già recuperati sulla sponda settentrionale, con le loro antiche ciminiere a volte svettanti ed a volta tronche. Una visuale che è anche uno spunto di riflessione.
Berlino è una metropoli dove la lotta tra la conservazione urbanistica e cultura popolare e la gentrificazione si affrontano spesso come su un campo di battaglia. La cronaca indica quasi quotidianamente a chi vive questa città quanto i compromessi appaiano difficili, come sulla sostenibilità dei prezzi delle case e la sopravvivenza dei suoi club storici, perennemente a rischio chiusura. Lontana dai riflettori e meno nota al pubblico, l’area di Schöneweide offre se non altro un importante spunto su come un compromesso non solo sia raggiungibile, ma anche di pieno successo, per lo meno in riferimento al recupero di una vasta area industriale.
L’autore ringrazia sentitamente:
Gilad Cohen ed il Management della HCM 365 per la disponibilità ad accompagnarlo dentro la struttura, le informazioni ed il materiale storico e fotografico fornito.
Zuleika Munizza del network “Berlino Explorer” per le indicazioni sul reperimento delle fonti storiche.
La foto di copertina è stata fornita da: Home Center Management 365
REDAZIONE
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