“In mezzo alle montagne c’è il lago d’Orta. In mezzo al lago d’Orta, ma non proprio a metà, c’è l’isola di San Giulio”. Comincia così C’era due volte il barone Lamberto, uno dei racconti, forse il più famoso di tutti, dello scrittore Gianni Rodari. A vivere sull’isola però non è un eccentrico e ricco barone malato con possedimenti a Singapore e Hong Kong, come ci racconta Rodari, ma un’ottantina di suore benedettine e una scrittrice inglese. Nel 1973, infatti, sei monache guidate da Anna Maria Canopi, feconda scrittrice e figura di spicco della Chiesa italiana, si stabilirono sull’isola, trasformando l’ex palazzo vescovile nell’abbazia Mater Ecclesiae. Le suore si ispirano alla tradizione di Guglielmo da Volpiano, uno dei padri del monachesimo europeo, nato proprio sull’isola, nel 962.
Ma la storia del lago inizia ben prima di Guglielmo, forse addirittura nella preistoria, stando ad alcuni massi con incisioni coppelle, segni rupestri di forma sferica generalmente ascrivibili al Neolitico e diffusi in tutta la zona alpina, che si possono osservare per esempio sulla cima del Monte Zuoli (una piccola collina fuori dal centro di Omegna). Certo è che, alla fine del IV secolo, ad abitare le sponde del lago erano i celti che, fedeli ai loro dèi pagani, non ricevettero positivamente l’arrivo dei fratelli Giulio e Giuliano, due religiosi cristiani originari dell’isola di Egea. Perseguitati in Grecia, si erano recati a Roma e avevano ricevuto il benestare dell’imperatore Teodosio per poter diffondere la fede cristiana ai margini e al di fuori dall’impero romano. Teodosio fu l’ultimo imperatore a regnare su di un impero romano unito e colui che approvò, nel 380, l’editto di Tessalonica, rendendo di fatto il cristianesimo l’unica religione riconosciuta e obbligatoria in tutto l’impero.
Giulio e Giuliano non si limitarono a cercare di convertire gli abitanti locali, ma iniziarono una distruzione sistematica dei luoghi di culto pagani e una forzata costruzione di chiese. La leggenda dice che i due fratelli fecero costruire ben 99 chiese in tutta Italia e che Giulio volesse scegliere una località perfetta per erigere la centesima. La scelta ricadde sulla piccola isola al centro del lago d’Orta, ma nessuno accettò di traghettarlo (forse perché si diceva che il lago fosse pieno di mostri…). Allora San Giulio fece da sé: stese il suo mantello e raggiunse l’isola navigandoci sopra. Ad aspettarlo, però, c’erano draghi e serpenti, che riuscì miracolosamente a eliminare per poi fondare, nel 390, la centesima chiesa, proprio sull’isola. A testimoniare la storia, è conservata ancora oggi, in quello che rimane dell’antico edificio, una ‘vertebra di drago’ – in verità il resto di qualche animale preistorico rinvenuto tempo fa intorno all’isola.
Facendo un salto temporale in avanti, dopo una contesa ventennale tra il vescovo e il Comune di Novara, nel 1219 nacque il feudo vescovile della Riviera di San Giulio. Naturalmente, si sta parlando di un periodo storico in cui il vescovo era un signore feudale vero e proprio, con poteri pastorali e giurisdizionali, oltre che Principe di San Giulio e Orta. Eppure, il vescovo non possedeva un esercito e per questo doveva mettersi sotto la protezione dell’imperatore. Un equilibrio precario dunque, ma pur sempre una situazione che garantì al territorio una certa autonomia, fino a circa il XVIII secolo, quando il vescovo Balbis-Bertone stipulò con Carlo Emanuele III di Savoia una prima convenzione, che iniziava a porre dei limiti ai poteri temporali del prelato.
La rivoluzione francese e le conquiste napoleoniche rimescolarono le carte per breve tempo, ma una volta sconfitto Napoleone, il re Vittorio Emanuele I firmò una convenzione nel 1817, approvata in seguito anche da Papa Pio VII, che lasciava al vescovo di Novara il castello e i palazzi dell’isola (oltre che il titolo di principe e l’impegno a pagare una rendita annua al vescovo) e otteneva in cambio tutti i territori della Riviera e i domini feudali.
Qualche anno dopo, nel maggio del 1882, uno dei più grandi pensatori dell’ottocento fece tappa proprio nella cittadina di Orta durante il suo Grand Tour Europeo, un lungo viaggio per l’europa continentale intrapreso dai ricchi e aristocratici europei a partire dal XVII secolo con lo scopo di conoscere e ampliare il loro sapere. Si trattava di Friedrich Nietzsche, che insieme alla (futura) psicoanalista russa Lou Salomé, Paul Rée (autore e filosofo tedesco) e alla madre della Salomé, si fermò per qualche giorno all’Albergo Leon d’Oro, un hotel esistente ancora oggi in centro a Orta. A raccontare quei giorni, è proprio Lou Salomé nella sua autobiografia, che ricorda con nostalgia le ore passate al Sacro Monte, un santuario a circa 400 metri d’altitudine con ben venti cappelle affrescate e 375 statue di terracotta a grandezza naturale che illustrano la vita di San Francesco d’Assisi. Nietzsche e la Salomé ebbero un’intensa conversazione, al punto di perdere il senso del tempo e infastidire sia la madre sia Rée, futuro amante della Salomé per un certo periodo di tempo. Quello che per la donna fu un pomeriggio indimenticabile, ma che consolidava un’amicizia e un’intesa spirituale, per il filosofo tedesco fu quasi una rivelazione: ebbe un effetto talmente forte da spingerlo a chiedere (per la seconda volta) alla Salomé di sposarlo.
Il XX secolo era alle porte e la sua furia cieca non risparmiò nemmeno una località di provincia come il territorio intorno al Lago d’Orta. Le guerre mondiali e la pandemia del 1918 ne decimarono la popolazione. A partire dal 1926, il lago fu gravemente inquinato dagli scariche dell’industria tessile Bemberg, che produceva rayon e scaricava sostanze nocive in quelle che fino ad allora erano state acque limpidissime.
A partire dal 1943, forse per amore della libertà, forse per il desiderio di tornare presto a quella quiete che era stata per così tanti anni la normalità di quei territori, forse, più semplicemente, per l’odio nutrito verso i tedeschi, i paesini tra le montagne che si affacciano sul lago divennero il rifugio perfetto per le bande di partigiani che volevano liberare l’Italia. Sono molte le targhe e i monumenti che ricordano ancora oggi i sacrifici di uomini e donne che volevano liberare la patria, come ad esempio la storia del Capitano Filippo Maria Beltrami, un leader del popolo.
Dopo l’armistizio del 1943, Beltrami si trasferì a Cireggio, una piccola frazione di Omegna, dove aveva una casa familiare insieme alla moglie e ai figli. Siccome le sue idee antifasciste erano note, gli si avvicinarono fin da subito gruppi di giovani comunisti e, in breve tempo, si riuscì a istituire una delle prime formazione partigiane: già nel dicembre del 1943 si contavano ben più di 200 uomini solo nel suo gruppo. Gli scontri con i nazifascisti furono da subito molto violenti. Dopo aver rifiutato un accordo con uno dei generali tedeschi, il 13 febbraio 1944, il Capitano Beltrami e altri 12 partigiani caddero dopo uno scontro a fuoco.
Alla fine della guerra, il Lago d’Orta torno ad essere quella realtà di provincia che era sempre stato. Un posto bellissimo dove vivere una tranquilla vita borghese, garantita dalle numerose fabbriche che lì si stabilirono o ripresero la loro attività a pieno regime, continuando ad inquinare il lago con gli scarichi dei metalli delle attività elettrogalvaniche (ad esempio sali di rame e cromo) fino agli anni ‘80.
Le aziende sul Lago d’Orta, in particolare a Omegna, hanno fatto la storia dell’Italia del Dopoguerra, introducendo sul mercato e rendendo beni di consumo di massa oggetti come le caffettiere Bialetti, i frullatori, i macinacaffé, i tostapane e altri utensili cucina prodotti da Girmi, le pentole della Calderoni, i giocattoli in metallo della Cardini, solo per citarne alcuni. Un paese di circa 7mila persone, con un tasso di occupazione dell’85% e più di 150 fabbriche con più di 15 dipendenti. Ma questo ‘miracolo’ economico era destinato a durare ben poco. Ad oggi, quasi tutte le aziende sono chiuse o si sono trasferite altrove. Quello che era stato uno dei loro maggiori punti di forza – una manodopera a costo più basso degli altri competitor europei, unita a un prodotto di qualità – si è rivoltato contro agli industriali quando paesi come la Cina sono entrati in scena.
Cartolina dal Mottarone
“L’effetto Alpyland è anche per i più piccoli…ecco perché piace alle famiglie” si legge su un cartello appena fuori uno dei parcheggi del Mottarone, montagna granitica di 1492m appena sopra Omegna, la mia città natale, dove ho imparato a sciare. Oggi non sarebbe più possibile (o sarebbe molto difficile) visto che è ormai difficile che nevichi lì, a bassa quota. Lo scorso inverno pare che siano riusciti ad aprire solo poche piste. Ma questa volta non sono venuta per sciare. Sono arrivata per visitare Alpyland, il parco divertimenti per tutta la famiglia. In realtà c’è una sola attrazione, una specie di montagna russa su di un bob a due posti che il guidatore può controllare aumentando o riducendo la velocità. Pur non essendo un amante di questo tipo di cose, mi faccio convincere a provare. Dopo una coda di quasi mezz’ora, qualche risata per la traduzione non proprio perfetta in inglese e tedesco delle norme di sicurezza, arriva il fatidico momento. Il bob è disinfettato in totale rispetto delle norme COVID-19 e si parte. Ci lanciamo sulla pista a 1200 metri: il colpo d’occhio è magnifico. Subito dopo la prima curva, si apre un panorama stupendo sui sette laghi prealpini visibili dal Mottarone: Maggiore, Orta, Varese, Monate, Comabbio e Biandronno. Dopo poco più di un minuto siamo già a valle, pronti a risalire per lasciare il nostro bob. Quasi quasi mi sorprendo a pensare “peccato che sia già finito”.
Excursus geografico: un lago prealpino
Il Lago d’Orta si estende su una superficie di 18.15 chilometri quadrati a ovest del Lago Maggiore. A meno di 60 km dal confine svizzero, è uno dei tanti laghi prealpini italiani. Generalmente, quando si parla di laghi prealpini, ci si riferisce a bacini mediamente più grandi di quelli alpini, dove i fiumi frenano la loro corsa e purificano le loro acque. Il lago d’Orta è uno di questi laghi e le sue acque riempiono una delle tante valli scavate dai ghiacciai verso la fine delle ere glaciali. Al contrario di molti laghi prealpini le cui acque tendono a sfociare a sud, quelle del Lago d’Orta si dirigono a nord, tramite il torrente Nigoglia, che nasce a Omegna e confluisce prima nel fiume Strona e poi, attraverso il Toce, nel Lago Maggiore.
Il Lago d’Orta non è di certo imponente (per dimensioni è l’undicesimo lago italiano). Ha una forma strana, ristretta e allungata, con una profondità piuttosto bassa, un di 143 metri, di fronte alla cittadina di Oira. Anche la sua isola, San Giulio, è piccolina, lunga 275 metri e larga 140. Un giro intero dell’isola a piedi richiede cinque minuti, poco meno di quanto ci voglia a raggiungerla in barca dalle sponde della cittadina di Orta San Giulio.
Probabilmente, quello che rende il Lago d’Orta un luogo davvero suggestivo è l’essere circondato da montagne. Ci sono centinaia di sentieri sperduti, per alpinisti esperti e principianti, come ad esempio quello che da San Maurizio d’Opaglio porta alla Torre di Buccione, un castello che sorge sulla sommità di un colle al confine tra Orta San Giulio e Gozzano. Oppure raggiungendo la cima del Mottarone, affacciato su ben sette laghi prealpini.
Cartolina da Berlino
Ho sempre preferito il lago al mare. Il sole che ti scotta, il caldo asfissiante, il sale che ti resta sulla pelle, non fanno per me. Ho sempre preferito le acque scure, quasi minacciose, del mio lago. Al cielo che si fonde con il blu del mare aperto, le montagne dove c’è un certo tipo di silenzio, che si può trovare solo sulle cime. Il mare è lontano, ci andavo da bambina con mia nonna in vacanza e ora, se posso, lo evito. Eppure, mentirei se dicessi che amo il luogo nel quale sono nata e cresciuta. Non ho niente di positivo da ricordare, sul fronte culturale. Se non fosse stato per la passione letteraria di mia madre, non sarei tanto diversa da quei compagni di scuola che non hanno mai messo il naso fuori dal paese. I discorsi su come conquistare il mondo sono stati sostituiti dal disprezzo per la generazione successiva alla loro, che ascolta la trap invece del pop sfigato anni 2000.
La monotonia della vita di provincia non la si può capire, se non ci si è cresciuti dentro. Quella che per chi viene da una città è quiete, in paese è noia. Ciò che ad alcuni sembra confidenza, per chi ci passa tutta una vita è sempre un’invasione.
Eppure i bagni al lago, le passeggiate di montagna, l’odore dei maccheroni di patate e funghi, continuano a restarmi addosso, tutte le volte che decido di tornare.
REDAZIONE
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