La neo-eletta leader CDU Annegret Kramp-Karrenbauer e i Verdi tedeschi sono stati velocemente proclamati nuovi campioni dell’anti-populismo europeo. Soprattutto in Italia, forse a causa dei transfert tipici di chi si sente disperato in patria, le evoluzioni politiche del dopo Merkel sono state recentemente raccontate secondo paradigmi che non tengono troppo conto delle specificità tedesche. Non si può però analizzare la Germania senza considerare la cesura storica di rara intensità in cui è sempre più immersa. Con la fine del merkelismo anche i tedeschi entrano ufficialmente in un’era incerta ed eterogenea, costituita dall’intrecciarsi impuro di temi incredibilmente cruciali e ferocemente decisivi: post-atlantismo, europeismo, liberismo, pacifismo, sovranismo, multiculturalismo, militarismo, etno-socialismo, eurasianesimo, nuovo tribalismo identitario, neo-prussianesimo, neo-occidentalismo.
AKK non ha ancora scelto tra destra e sinistra
Partiamo dall’elezione di Annegret Kramp Karrenbauer (aka AKK) a nuova Presidente della CDU.
La narrazione superficiale è che, in quanto delfina di Merkel e in quanto mini-Merkel, AKK abbia già fermato l’avanzata della destra nella CDU e che l’ex presidente della Saarland sarà ora erede diretta della Kanzlerin sui temi canonici del confronto generale tra populismo e globalismo.
La realtà, ovviamente, è ben più complessa e sfaccettata.
Per prima cosa, bisogna notare come l’elezione di AKK, effettuata con voto segreto da 1001 delegati di partito durante il Congresso di Amburgo dello scorso 7 dicembre, sia stata anche il risultato di uno scontro profondamente realpolitiko tra gruppi di potere interni alla CDU. Uno scontro totalmente inedito nella storia dei cristiano-democratici, che erano più o meno soliti eleggere i propri leader per acclamazione e senza troppi confronti. Questa volta, invece, i contrasti interni sono stati innegabili anche nei numeri: nel ballottaggio finale, su 999 voti validi, ad AKK ne sono andati 517, al suo sfidante diretto Friedrich Merz ne sono andati 482: poco più di un pareggio e sicuramente non un trionfo per la vincitrice.
Certo, dopo 18 anni di leadership nel partito e 13 anni di governo, Angela Merkel si è chiaramente garantita la riconoscenza politica di tanti funzionari cristiano-democratici e al momento del voto i frutti di questa gratitudine sono stati decisivi. Ne consegue, però, che l’elezione di AKK, ancora prima che una scelta basata su principi politici, sia stata soprattutto il risultato di dinamiche egemoniche interne al partito, indirizzate verso un voto in sostegno del post-merkelismo in quanto metodo di governo. Di conseguenza, i sostenitori interni di AKK si aspettano principalmente che questa erediti da Merkel una tecnica di adattamento politico, una matrice multiuso di sistematica macro-amministrativa, un centrismo strategico che punti innanzitutto all’autopreservazione tramite il compromesso con altre forze politiche. Malgrado i suoi ultimi anni da poster-leader del mondo libero, infatti, la vera essenza dell’arte di governare di Merkel è sempre stata profondamente trasformista e anti-ideologica e ha sempre trovato la propria forza nell’assorbimento delle istanze dei propri vari alleati e nell’allineamento tattico alle tendenze dell’opinione pubblica (assecondate dopo un’estenuante fase di silenziosa osservazione quasi laboratoriale delle forze in campo).
Se mai AKK sarà realmente una replica di Merkel, quindi, lo sarà tecnicamente, ma non certo allo scopo di riprodurre fedelmente gli assorbimenti tattici delle varie fasi merkeliane degli anni passati, visto che queste stesse fasi erano condizionate dalle specifiche contingenze di allora e sono oggi superate, interamente o parzialmente. (Nello specifico, si fa qui riferimento a fasi politiche come le alleanze di Merkel con i socialdemocratici nella gestione delle riforme dello stato sociale, quelle con i liberali FDP nelle campagne contro lo stesso welfare, le declinazioni narrativamente open-border quando il merkelismo ha scommesso erroneamente su un illusorio passaggio americano Obama-Clinton, l’europeismo della fredda austerity ai tempi della crisi greca, l’europeismo d’un tratto ben più idealista per rispondere invece allo shock trumpiano, la silenziosa realpolitik dell’outsourcing in Turchia della gestione dei flussi migratori quando l’opinione pubblica tedesca ha iniziato a rifiutare la Willkommenspolitik).
Nella Germania del 2019 i processi di compromesso e assorbimento da parte del centrismo strategico potranno replicare alcune delle prospettive passate, ma saranno inevitabilmente diversi ed è per questo motivo che è molto prematuro sostenere che AKK possa essere un argine verso destra: il suo centrismo è ancora in attesa di declinarsi.
Il profilo politico di AKK, del resto, ha già in sé tutte le ambivalenze del caso: se Kramp-Karrenbauer è ancorata a un’impostazione classicamente cristiano-sociale in economia (una tendenza che può confermare un collegamento diretto con la socialdemocrazia o il centrosinistra), le sue posizioni tradizionaliste su temi come le unioni omosessuali le lasciano ampi margini di alleanza in senso conservatore. Inoltre, sul tema immigrazione, i cui significati simbolici sono irrimediabilmente decisivi, Annegret Kramp-Karrenbauer si è già distaccata dalla narrazione più multikulti del merkelismo, approfittando subito del fatto di non dover personalmente mantenere quella coerenza formale con la Willkommenspolitik a cui è invece rimasta (ufficialmente) legata Angela Merkel.
Quello che è anche certo è che per AKK sarà impossibile contare sull’ampiezza del raggio d’assorbimento-influenza del merkelismo degli anni d’oro. La fine dell’era Merkel è stata proprio caratterizzata dalla crescente impossibilità di assorbire e mediare tra posizioni sempre più distanti tra loro. AKK dovrà quindi scegliere molto più della Kanzlerin.
Scegliere tra chi? Se si mette momentaneamente da parte la tragedia esistenziale della SPD e della sua pasokification, i due poli tra i quali AKK sarà costretta a optare sul breve periodo sono proprio i redivivi Verdi tedeschi e la destra interna al suo stesso partito. Due poli che un tempo il merkelismo sarebbe riuscito addirittura a tenere insieme, ma che il nuovissimo mondo dei prossimi anni renderà sempre più inconciliabili tra loro, perché portatori di Weltanschauungen narrativamente sempre più contrapposte (almeno fino a quando uno dei due poli non decida di rinunciare ai propri progetti).
La destra liberista tedesca e la paura della “fine del party”
Se l’affermarsi della corrente AKK è stata soprattutto il risultato storico-pratico dell’egemonia merkeliana, la destra CDU si presenta invece con una doppia forza: essere formata da gruppi di potere concreto ed essere cementata da un apparato ideologico in via di crescente strutturazione.
Sullo scacchiere dei gruppi di potere, la candidatura a leader CDU del manager-politico Friedrich Merz è stata un’operazione ben riconoscibile, il cui manovratore è (e rimane) l’ex ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schäuble. Friedrich Merz era stato parlamentare cristiano-democratico dal 1994 al 2004 e aveva poi lasciato la politica proprio in polemica con la Cancelliera. Il suo recente ritorno in campo lo ha così subito caratterizzato come l’anti-Merkel, un ruolo suggerito anche dal fatto che la sua candidatura si sia sviluppata in senso anti-merkeliano all’interno del misterioso “patto delle Ande”, un gruppo inufficiale della CDU formato da soli uomini e posto nel cuore degli intrecci tra politica e affari. Merz, infatti, rappresenta e continua a rappresentare le più chiare correnti liberiste dei cristiano-democratici. Nella sua lunga parentesi lontano dalla politica, Merz è entrato con particolare successo in diversi board aziendali ed è tuttora active chairman in Germania della società di investimenti BlackRock, la più grande al mondo nel suo genere. (BlackRock vanta importanti partecipazioni in tutte le 30 società Dax della Borsa di Francoforte e le sue più recenti fortune sembrano essere legate ad Aladdin, un sistema di analisi finanziaria quasi unico nella sua efficacia).
Il progetto della scalata alla leadership di Merz e dei suoi, quindi, non mirava solo a spodestare la Kanlzerin, ma anche a riorientare immediatamente l’agenda economica CDU verso una nuova stagione liberista, considerata assolutamente necessaria per far sopravvivere il mercantilismo tedesco nella sempre più disordinata e disomogenea competizione globale. Un liberismo ovviamente non sovranista, ma europeista soltanto per crudo interesse e svincolato dalle istanze più ideali dell’Europa unita (quindi ben poco aperto su qualunque idea di flessibilità dei conti nell’eurozona e ostile a qualsiasi primato politico che punti a mutualizzare ulteriormente i destini dell’unione monetaria o riequilibrarne le differenze interne nord-sud).
Se in occasione del Congresso di Amburgo il piano di Merz e del suo padrino Schäuble è stato bloccato per una manciata di voti, questo non significa sicuramente che le istanze ideologiche e materiali della loro corrente scompariranno dalla CDU, anzi. Questo vale soprattutto considerando quanto il sostegno per Merz e i suoi sia diffuso nella grande industria tedesca e, anche, nel mondo delle piccole-medie imprese, dove serpeggia oggi la preoccupazione per il rallentamento dell’economia globale e, quindi, per le esportazioni tedesche. Durante la campagna interna per la leadership CDU, il vero slogan di Merz è stato probabilmente una domanda: “Cosa faremo quando il party sarà finito?” Un interrogativo che esprime una particolare preoccupazione per gli sviluppi futuri della congiuntura positiva dell’ultimo biennio economico tedesco e che propone come soluzione preventiva l’abbandono da parte della CDU di alleanze a sinistra, considerate troppo generose e pericolose in tema di welfare e ridistribuzione della ricchezza.
Un nuovo corso liberista, quello della corrente Merz-Schäuble, che viene anche ideologicamente saldato con una svolta conservatrice sui temi del multiculturalismo e, ovviamente, dell’immigrazione. Quest’ultima viene definitivamente sganciata dall’umanitarismo e viene apertamente trattata secondo la logica della mera necessità produttiva (un’impostazione che viene già anticipata dal Fachkräfteeinwanderungsgesetz, la nuova proposta di legge per l’immigrazione del governo Merkel IV, basata sulla selezione di immigrati in base a skills professionali immediatamente o velocemente inseribili nel processo di produzione dell’economia tedesca).
L’avanzata del nuovo occidentalismo
Se Friedrich Merz e il neo-liberismo saranno una spina nel fianco di qualunque (ipotetico) tentativo cristiano-sociale della CDU guidata da AKK, c’è da considerare una terza corrente interna che tirerà i cristiano-democratici ulteriormente verso destra. Si tratta di quella che nella sfida per la leadership è stata rappresentata dall’attuale ministro della Sanità, Jens Spahn. Nel primo round di votazioni del Congresso del 7 dicembre, Jens Spahn ha raccolto 157 voti su 999 (contro i 450 voti al primo turno di AKK e i 392 di Merz). Nel successivo ballottaggio tra i primi due classificati, una parte dei voti di Spahn sono poi evidentemente andati a Kramp-Karrenbauer (presumibilmente 90 su 157). Un sostegno per AKK che è stato però frutto di accordi profondamente tattici e condizionati dalla competizione tra Spahn e Merz per mettere le mani sull’ala destra della CDU. I giochi temporanei di partito, infatti, non cambiano il valore politico-ideologico del terzo posto di Spahn nella corsa alla leadership. Con soli 38 anni, l’attuale ministro della Sanità ha tutto il tempo per scalare il partito e la sua agenda è ancora più chiaramente rivolta a destra di quella di Friedrich Merz. Oltre a un liberismo spinto che vuole intervenire con decisione sul welfare, ciò che più contraddistingue Jens Spahn è certamente un nuovo conservatorismo europeo in cui però le libertà laiche e un pezzo di secolarizzazione diventano parte narrativamente vincente della tradizione (in funzione apertamente anti-islamica) e l’europeismo si trasforma consapevolmente in una declinazione dell’occidentalismo. Una nuova destra capace di unire tradizione e modernità (ad esempio sui temi dei diritti civili e dell’uguaglianza di genere) e di cui la sinistra liberal sembra aver capito ancora ben poco.
Se Friedrich Merz e i suoi restano gli avversari interni più immediati di AKK e della Cancelliera Merkel, il neo-occidentalismo di Spahn è chiaramente il candidato più significativo all’esautorazione finale del centrismo strategico post-merkeliano.
Il neo-occidentalismo, del resto, si sta già facendo spazio nello stesso Partito Popolare Europeo, soprattutto in previsione dei risultati delle prossime elezioni europee. Il PPE ha già al proprio interno il partito Fidesz di Viktor Orbán e presenterà come candidato alla Presidenza della Commissione UE il cristiano-sociale bavarese Manfred Weber, che è certo un uomo di Bruxelles, ma è anche legato a quel conservatorismo alpino che ha già prodotto un’alleanza centrodestra-populisti con la nascita dell’attuale governo austriaco di Sebastian Kurz. I tempi per un avvicinamento vero e proprio tra conservatori europei e populisti potranno non essere brevissimi, ma è stato già preparato un terreno comune occidentalista che può portare insieme più elementi: agende liberiste, progetti per un’Unione Europea basata su identità tradizionali, ristrutturazioni dell’eurozona improntate alla razionalità degli equilibri geoeconomici più materiali, difesa con tolleranza-zero dei confini esterni dell’Unione, identitarismo anti-multikulti come pietra angolare di un’Europa post-liberale (con tendenze più o meno euroasiatiche a seconda dell’evolversi della crisi transatlantica).
Geopolitica tedesca e corpi armati dello stato
Passaggio dopo passaggio, si può quindi notare quanto sia superficiale l’idea che la vittoria di misura di AKK possa essere automaticamente una continuazione della fase narrativamente più liberal del merkelismo e, addirittura, un argine alla nuova destra europea.
Contro questa ipotesi, del resto, si muovono anche le stesse urgenze geopolitiche tedesche (che la CDU, in quanto partito iper-istituzionale, è ontologicamente destinata a incorporare). Pochi paesi al mondo più della Germania stanno soffrendo l’accelerata mutazione del tradizionale ordine atlantico e della classica globalizzazione sotto egemonia americana. Per Berlino, la svolta identitaria di Donald Trump è diventata un problema quasi proibitivo. Per decenni la Germania è stata prima della classe del blocco atlantico e della globalizzazione economica. Una diligenza tedesca espressa unicamente con l’eccellenza sul mercato internazionale, visto che, dal dopoguerra a oggi, sul piano geostrategico la Germania è rimasta sempre sotto tutela-obbedienza militare americana. Negli ultimi anni Berlino aveva effettivamente iniziato a programmare la rinascita della propria potenza di difesa, ma l’imprevedibile e corpulento cigno-nero Donald Trump ha accelerato incredibilmente i tempi. Ora la Germania si trova a rincorrere un’autonomia militare che pensava di dover raggiungere fra più di dieci anni. Da questo scenario deriva l’improvviso entusiasmo che la stessa Angela Merkel ha più volte dimostrato per l’eventuale evoluzione verso un sistema di difesa europeo (in cui Berlino vuole innanzitutto agganciarsi al potenziale nucleare francese, visto che senza bomba nucleare non esiste alcun diritto reale a sedere al tavolo dei grandi).
Sul piano più pratico, intanto, la Germania sta già incrementando il proprio impegno per creare coalizioni militari secondo il modello Framework Nations Concept, in cui la Bundeswehr ha integrato al proprio interno unità delle forze armate di paesi quali Repubblica Ceca, Paesi Bassi, Norvegia, Romania e Austria. E’ di fine 2018 invece la notizia secondo cui la Bundeswehr aprirà i propri ranghi a cittadini stranieri UE che possano portare skills specialistiche nelle forze armate. Una serie di iniziative che mirano sempre più apertamente a raggiungere una certa maturità militare tedesca, seppur completamente all’interno del quadro NATO.
Quello che va però assolutamente sottolineato è come tutte queste evoluzioni stiano riportando la questione militare e il ruolo dell’esercito tedesco dove non erano più stati per decenni, vale a dire nel cuore delle istituzioni della Repubblica Federale. Una svolta epocale che ha e avrà fisiologiche conseguenze politiche. E anche se non è scontato che queste conseguenze politiche siano favorevoli al conservatorismo di destra, è al momento proprio la destra CDU a farsi più spesso portavoce delle istanze del mondo militare tedesco, un mondo che vuole e deve uscire dall’irrilevanza internazionale e cerca ora più che mai referenti politici che reputi affidabili. Referenti politici quindi lontani dal caratteristico ultra-pacifismo della sinistra tedesca di fine Novecento e capaci magari di proporre tramite restyling politico un nuovo e modernissimo ponte verso la tradizione militare tedesco-prussiana e la geostrategia bismarckiana (vale a dire verso il solo tradizionalismo militare tedesco che scavalchi in qualche modo l’innominabilità della Wehrmacht nazionalsocialista).
Forme di politicizzazione, inoltre, possono essere colte anche per le forze dell’ordine e di sicurezza interna della Germania. In questo caso la natura politica del loro ritorno nelle geometrie di potere è forse ancora più sensibile, visto che nell’ultimo biennio si è avvertito nel paese un inedito malcontento tra le forze di sicurezza e una potenziale spaccatura tra una parte di queste e il merkelismo. Terreno dello scontro è stato il dibattito sui rapporti tra immigrazione, Willkommenspolitik e criminalità. Fin dalle aggressioni di Capodanno 2016 a Colonia, si è potuta notare un’insofferenza sparsa nei sindacati di polizia tedeschi nei confronti del metodo merkeliano. Nel biennio successivo, una certa irrequietezza è ricomparsa in maniera non certo omogenea, ma significativa. L’apice di questo attrito sotterraneo tra forze di sicurezza e governo, poi, è certamente stato raggiunto lo scorso settembre, con la destituzione di Hans-Georg Maaßen, ormai ex capo del Bundesamt für Verfassungsschutz (BfV), l’Ufficio federale della Protezione della Costituzione (o, più concretamente, il servizio segreto d’informazione interna della Germania). Maaßen è stato sostituito da Merkel dopo aver più volte preso posizione contro il governo in merito alle manifestazioni anti-migranti nella città di Chemnitz, di cui l’ex capo dei servizi ha pubblicamente ridimensionato la pericolosità, giungendo a farsi accusare di forme di concreta connivenza con la destra identitaria e radicale. Il fatto che lo stesso Maaßen sia in realtà un funzionario politico iscritto alla CDU è solo un’altra dimostrazione di come è proprio nel partito ora guidato da Annegret Kramp-Karrenbauer che si stia manifestando la lacerazione più viva di fronte alla complessa e viscerale metamorfosi del Leviatano tedesco.
Ci sono abbastanza soldi per un liberismo verde e di sinistra?
Una volta enucleato quanto sia al momento potente la calamita da destra all’interno della CDU, restano ancora da analizzare le opzioni verso sinistra della neonata leadership di AKK.
Come noto, Angela Merkel ha passato il testimone della guida del proprio partito a Kramp-Karrenbauer per provare a resistere nel ruolo di Cancelliera fino alla fine del proprio mandato (nel 2021). Ma la Kanzlerin dovrà ugualmente continuare a contare su una traballante Große Koalition che, sondaggi alla mano, è forse ancora una Koalition, ma non certo più così groß. Nei prossimi mesi molto dipenderà dalla SPD, che si sta ogni giorno chiedendo se le convenga più farsi del male continuando a governare oppure farsi del male facendo crollare il governo. Nel secondo caso potrebbe esserci un rimpasto nelle maggioranze o il ritorno alle elezioni. Nell’eventualità di ritorno alle urne, i sondaggi attuali indicano che l’alleato naturale nella CDU per una coalizione di centrosinistra diventerebbero i Grünen, i Verdi, che stanno vivendo un vero e proprio hype politico, tanto da essere al momento considerati il secondo partito del paese, con un 20% di potenziali elettori (in buona parte sottratti proprio ai decadenti socialdemocratici, ma anche ai cristiano-democratici più moderati e liberal).
L’idea di un’alleanza tra CDU centrista e Verdi piace a gran parte del mondo liberal-democratico europeo ed è secondo alcuni la più concreta speranza per una Germania che resti garanzia di stabilità europeista. I Verdi sono da tempo espressione del ceto medio/medio-alto del paese, godono di credito esponenziale tra media e intellettuali e si presentano con un misto di realpolitik di governo e principi liberal-ambientali intrisi di attivismo sui temi del digitale, della sostenibilità, dei diritti civili, del multiculturalismo e dell’accoglienza intesa come dovere morale. Con un elettorato concentrato nelle grandi città della Germania occidentale (più la capitale Berlino), i verdi sono emersi come la più reale continuazione della fase obamiana-clintoniana di Angela Merkel e una loro alleanza con la CDU sarebbe certamente una garanzia di continuazione per chi non voglia veder scomparire l’idea del centrismo merkeliano. Una coalizione CDU-Grünen sarebbe nuova su scala nazionale ma non su scala locale, dove, soprattutto nelle aree più ricche della Germania, Verdi e cristiano-democratici governano o hanno governato con particolare successo, riuscendo a creare alcuni dei laboratori politico-amministrativi più apprezzati del paese.
Al momento la stessa Annegret Kramp-Karrenbauer viene esaltata nei sondaggi, con quasi il 50% dei tedeschi che la vorrebbero come Cancelliera (anche se in rilevazioni che la mettono quasi sempre a confronto con improbabili candidati socialdemocratici). Secondo una certa narrativa, il fulcro dell’attuale successo di AKK sarebbe proprio la sua potenziale coalizione nero-verde con i Grünen.
Un’alleanza Verdi+cristiano-democratici, tuttavia, continua ad avere numerosi ostacoli di fronte a sé, e non solo a causa della già ampiamente trattata tendenza della CDU verso destra.
La narrazione e la materialità dei programmi dei Grünen sono infatti molto simili a quelli del progetto macroniano in Francia: un liberismo di (post)sinistra che promette di garantire sia la crescita economica sia la protezione sociale. Una promessa a dir poco allettante e capace spesso di entusiasmare per il messaggio di progettualità non negativa che trasmette. Una promessa che, però, si troverebbe velocemente sotto attacco altrettanto entusiasta se si dovesse rivelare impossibile da realizzare. In questo senso è più che emblematica l’improvvisa e politicamente ambigua “insurrection qui vient” che si è sparpagliata in Francia (in cui, tra le altre cose, sono stati proprio decisivi i costi immediati per la cittadinanza privata di un programma ambientalista che imponeva l’aumento dei prezzi del carburante).
In altre parole, i Verdi tedeschi potranno governare, e anche molto bene, ma solo se, utilizzando proprio l’espressione di Friedrich Merz, non “finirà il party” di una Germania fino a oggi mai intaccata direttamente dalla crisi economica o dall’impoverimento aggressivo del ceto medio.
Il semplicissimo segreto del liberismo di sinistra -così come della flexicurity o, addirittura, della stessa socialdemocrazia europea- è che è tanto bello quanto costoso. Per decenni le democrazie liberali europee hanno potuto esternalizzare il proprio conflitto economico-sociale prelevando da aree d’influenza neo-coloniale il surplus necessario alla pacificazione interna. Oggi che le classiche geometrie neo-coloniali vengono costantemente rimodulate da un mondo multipolare e le migrazioni riportano spesso al mittente le contraddizioni esternalizzate in passato, la socialdemocrazia e il liberismo di sinistra sembrano invece sempre meno in grado di garantire la loro lussuosa promessa di una produzione capitalistica equilibrata da garanzie di vivibilità per i ceti medio e basso.
In Germania, con dinamiche quasi fisiologiche della razionalità geoeconomica, l’esternalizzazione del conflitto sociale è stata negli ultimi anni parzialmente scaricata nell’eurozona. Dall’altro lato, nell’ultimo decennio la crescita economica tedesca è stata anche perseguita usando l’invasività statale-burocratica come agente regolatore e tramite un welfare sempre più orientato al workfare come forma di disciplinamento. Ma gli equilibri-squilibri interni all’eurozona non possono durare per sempre, mentre il Moloch burocratico e il sistema di welfare-workfare non sarebbero in grado di impattare/gestire un eventuale impoverimento generalizzato di quel ceto medio che beneficia dell’economia tedesca tramite le proprie entrate mensili (ma, vista la scarsità generale del risparmio privato in Germania, non avrebbe invece risparmi sufficienti per affrontare periodi di eccessivo rallentamento o arretramento della crescita).
Se il “party” tedesco dovesse finire, il liberismo di sinistra-centrista-green si troverebbe quindi nella situazione paradossale di dover rinnegare il proprio costoso progetto di flexicurity per poter restare nella cabina di comando, piegandosi così alla sola opzione disponibile per rinvigorire la crescita senza contrastare la logica capitalista: seguire la già citata ricetta della destra ultra-liberista tedesca, che vuole rincorrere i competitor internazionali senza l’oggettivo ingombro dello stato sociale (o della solidarietà intra-europea non strettamente necessaria a tenere in piedi l’euro).
Il liberismo di sinistra verde-tedesco sarebbe a quel punto anche costretto a doversi apertamente dichiarare estraneo a un mondo con cui oggi cerca ancora di mantenere legami culturali-spettacolari: quella crescente e diffusa insorgenza anti-capitalista che dichiara ormai senza mezze misure l’impossibilità di coniugare la difesa della dignità sociale con il corrente modello neo-liberista in quanto tale (in nome di una fuga in avanti il cui sogno più vivo è un superamento di tutto l’attuale modo di produzione di soggetti e oggetti).
In ultima analisi, il liberismo di sinistra funziona soltanto quando ci sono abbastanza soldi in giro: un forte partito verde e liberal ha sempre bisogno del sostegno di un ceto medio benestante non tartassato dall’apparato burocratico o umiliato dalla caduta del proprio potere d’acquisto. Se anche in Germania i soldi non dovessero a un certo punto bastare, il liberismo di sinistra tedesco-verde diventerebbe presto irrilevante come quello di altri paesi più in crisi.
New-wave identitaria everywhere
In questo scenario di accelerato distanziamento da un cosiddetto centro liberaldemocratico classicamente pro-globalizzazione si potrà innestare ancora di più l’onnipresente questione identitaria, vale a dire il frutto potentissimo di un’ossessione per le identity politics nata a sinistra e rimodulata poi velocemente a destra. Come abbiamo già detto, anche in Germania la linea etnica potrà essere ampiamente utilizzata non solo dalla destra più etno-nazionalista, ma anche da quella liberista, allo scopo di ricompattare le lacerazioni sociali sotto un identitarismo produttivo-capitalista (che raccoglie consenso tramite la gratificazione identitaria e cerca anche di ricreare funzionalmente alcuni segmenti del primato neo-coloniale, svincolando attivamente l’occidente da un universalismo etico considerato inutile di fronte alla crudezza hobbesiana del mondo multipolare).
Nel frattempo, se una parte della Linke tedesca sembra voler continuare a proporre un post-socialismo direttamente vincolato all’internazionalismo, all’interno della stessa sinistra radicale tedesca si sta espandendo un progetto come Aufstehen, animato soprattutto dalla carismatica e discussa figura di Sahra Wagenknecht (che, tra l’altro, qualche giorno fa si è fatta immortalare davanti alla Cancelleria con indosso un gilet giallo).
Aufstehen è un movimento molto emblematico delle forze centrifughe in cui si trova oggi la politica in Germania: i promotori del nuovo movimento restano profondamente legati a una lettura post-marxista della realtà, ma hanno di fatto concluso che nell’attuale contingenza non sia più utilizzabile un discorso di classe in senso globale e sia invece necessario puntare tatticamente su un discorso di classe sostanzialmente limitato al corpo elettorale nazionale. Le prospettive aperte da Aufstehen riportano nella realtà politica istanze ambivalenti, che hanno il chiaro obiettivo strategico di recuperare quel ceto impoverito, bianco, umiliato-e-offeso che è attualmente attratto dall’etnicizzazione delle rivendicazioni sociali.
Il 2019 che viene
Nel prossimo anno, quindi, si inizierà a capire come e se Annegret Kramp Karrenbauer riuscirà a tenere insieme la sua CDU, se i Verdi sapranno fare quello che non sta riuscendo a Emmanuel Macron, se la Linke reggerà ai suoi movimenti interni, se il governo Merkel continuerà a esistere nella sua attuale forma e molto altro ancora. Per diversi di questi interrogativi cruciali bisognerà innanzitutto aspettare la svolta delle elezioni europee del 23-26 maggio, che hanno assunto in ciascun paese un significato enorme su scala nazionale e sembrano destinate a portare a una rinazionalizzazione del Parlamento europeo, con la formazione di molteplici ed eterogenei gruppi di interesse regionale e geopolitico. Nella seconda metà del 2019, poi, sarà il momento delle elezioni federali in alcuni Bundesländer decisivi per lo stravolgimento degli equilibri politici tedeschi. A settembre, ad esempio, si voterà in Sassonia, dove Alternative für Deutschland è attualmente data a pochi punti percentuali dal primato della CDU e dove già non mancano i cristiano-democratici che vogliono dialogare direttamente con la destra identitaria.
Comunque vada, la Germania sarà destinata a definire i prossimi equilibri europei, in un senso o in un altro. Quando le Germanie erano due, il termine Deutschlandpolitik indicava soprattutto le politiche delle diverse potenze mondiali ed europee di fronte alla questione della divisione tedesca. Ora che la Germania è una sola e gli equilibri geopolitici di un tempo stanno cadendo uno dopo l’altro, la parola Deutschlandpolitik potrà assumere significati completamente nuovi. Siamo solo all’inizio.
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