Sono una formica semplice, se mi disturbi ti spruzzo di acido formico. È risaputo, costituisce per me motivo di vanto e per quei monelli di bimbetti delle scolaresche, un diversivo. Arrivano dalla città, dai paesi limitrofi e si mettono ad osservare me e le mie consorelle dedite al lavoro quotidiano; ci siamo fatte un’idea in merito: dobbiamo essere delle stra-fighe! Non glielo facciamo presente, ovviamente, sempre “lugubris” siamo.
Comunque questi umani sono un po’ strani. Ora hanno costruito una scultura e l’hanno messa all’ingresso, dalle parti di Borno. Mi ritraggono un po’ ingrassata a dire il vero: quei fianchi larghi non mi donano, anche se, lo ammetto, che ultimamente a passare per buchi di areazione e cunicoli resto un po’ indietro. Mi devo essere appesantita, ecco tutto, e quel Mattia Trotta che tanto ama il metallo mi ha immortalata così, con i fianchi di una in menopausa (se poi un ciclo sessuale ce l’avessi, ma quella è un’altra storia, noi operaie si lavora che neanche Stachanov, altro che emancipazione!).
La scultura è poi recente, m’avesse vista da giovane gli avrei fatto un’altra impressione. L’hanno inaugurata verso la fine di giugno, giù allo spiazzo all’ingresso del parco. Del resto, questi artisti si prendono sempre le loro belle licenze, prossima volta che mi c’imbatto glielo faccio presente “un filino di adipe in meno per le installazioni future, grazie. Che poi, altrimenti, tutti questi turisti milanesi che salgono e fanno i salutisti se la prendono con la dieta camuna di casoncelli innaffiati al burro fuso e formaggio di tara prima del dessert”. Perché ovvio, la formica rufa immortalata nella scultura sono convinta di essere io.
E chi se no? Negli ultimi mesi ho preso l’abitudine segreta di allontanarmi dall’acervo (inutile che apriate i dizionari online, è la parte sopra del formicaio, quella visibile all’occhio umano: ignoranti!) e di avventurarmi un po’ in solitaria per il bosco del Giovetto. Lo so, lo so, starete già dicendo “Non si addice ad una formica operaia matura come te!” E grazie, con tutte queste consorelle giovani e scattanti, come li perderei diversamente i miei chili di troppo? Quindi ben vengano le scorrazzate tra aghi di pino e sentieri: sono in missione per conto del Trotta, io!
È stato così che l’ho scoperta, la Piccola Biblioteca del Bosco. C’ho messo un momento a raggiungerla, non lo nego, anche se è stata tutta discesa (del ritorno invece, vi dirò poi). Ero sulla pista di una bella processionaria, quando mi si è aperta davanti agli occhi una radura. Immersa nel verde, i tronchi alle spalle, mi sono arrampicata sul pannello esplicativo (sono una rufa erudita) e alzando le antenne quasi mi sono cascate le mandibole dallo stupore. Una montagna dietro l’altra, ho provato a leggere i nomi, ma un rumore indistinto e repentino alle spalle mi ha fatta desistere. L’ultima cosa che volevo era un incontro ravvicinato con una volpe: sono stanca dei suoi saccheggi al nostro nido!
Così sono bellamente scesa e ho visto che la porta della casetta di legno era aperta: perché non dare un’occhiata dentro? È stata una fortuna, lo devo ammettere, il perdersi tra i libri per bambini – che teneri, perché non sono nata regina! – mentre fuori si rannuvolava tutto. Stavo curiosando tra le pagine dell’elenco visitatori, quando ho sentito dei tocchi violenti: la pioggia è arrivata all’improvviso e ha iniziato a battere sempre più forte sul tetto della casetta. Sconsolata, mi sono avvicinata alla grata dell’unica finestra e ho chiuso per un istante gli occhi.
Quanto vivono le formiche? La memoria di una formica operaia non può andare indietro di molto: mentre le regine vivono anche due decenni, i maschi solo qualche settimana, noi lavoratrici per eccellenza raggiungiamo il Formiparadiso intorno ai cinque anni. Certo, nel frattempo abbiamo catturato la pappa per l’intera colonia, tenuto lontani gli intrusi e ci siamo pure prese cura della prole. In sostanza, non ci resta molto tempo per rimuginare su un passato che si ferma al quinquennio precedente. Eppure le formiche sono tra le creature più antiche della Terra. C’eravamo già al tempo dei dinosauri e si può dire che negli ultimi 100 milioni di anni siamo rimaste praticamente identiche d’aspetto: roba che fa impazzire i mirmecologi (i nostri specialisti).
Quindi per rivangare un passato che vada oltre il 2013 mi devo affidare ai ricordi delle consorelle, tramandati di mandibola in mandibola almeno dal 1983, anno in cui è nata la Riserva Regionale dei Boschi del Giovetto: 597 ettari tra la bergamasca Val di Scalve e la bresciana Valle Camonica. Perché una riserva naturale in queste lande, uno si potrebbe chiedere. Ebbene proprio a causa nostra! Oltre l’80% del parco è costituito da boschi d’alto fusto, questo vuol dire tante belle passeggiate per voi e tanti meravigliosi aghi di abeti e larici per noi. Un luogo diventato Sito di Importanza Comunitaria nel 2003 e Zona di Protezione Speciale l’anno successivo.
Mentre la pioggia batteva sul tetto della biblioteca e rimbalzava sulle cappelle dei funghi nello spiazzo erboso, ragionavo sul fatto che forse il nostro carattere snob deriva proprio dall’importanza che ci è stata assegnata negli ultimi tempi. Ai racconti delle consorelle più anziane, che non sono ancora rincitrullite, ho unito i resoconti degli studiosi in cui sono incappata fra piste e sentieri e mi sono fatta una mia opinione: da secoli gli umani avevano intuito che le formiche dei boschi (“Formica rufa” in inglese si dice “Wood Ant”) facevano in qualche modo bene agli alberi; negli ultimi sessanta, settant’anni poi sono aumentate le ricerche specifiche, a fronte della necessità di salvaguardare i pini piantati con i programmi di riforestazione. Se tanti sforzi erano stati fatti per fermare il dissesto idrogeologico, ci s’imbatteva allora in un nuovo, minuscolo e profondamente invasivo nemico: la Processionaria del Pino.
Un lepidottero, certo, scialba farfalletta che nutre le sue larve di aghi, larve che per altro sono dei fastidiosi bruchetti: viaggiano in fila indiana, li avrete di sicuro incontrati in giro per foreste, sempre pronti a disperdere nell’aria microscopici peli urticanti. Bene, si dà il caso che noi formiche rufe siamo letteralmente ghiotte di larve e insetti; ghiotte e voraci, al punto da convincere negli anni Cinquanta gli studiosi a tentare l’impossibile, trasferendo alcuni dei nostri nidi di qui presso dei boschi dell’Appennino Ligure. La cosa non si fermò mica lì: come racconta il pannello vicino al mio formicaio. “Per circa vent’anni le nostre formiche vennero raccolte e spedite in giro per l’Italia, sino in Calabria, Sicilia e Sardegna, ma anche in altre paesi europei ed in Canada.” È sullo stesso pannello, sito vicino al piccolo anfiteatro ora ricoperto d’erbacce che si spiega come venivano eseguiti i traslochi: si prendevano dei barili di legno compensato della capacità di 100 litri, vi s’inserivano dei rametti e poi i nostri nidi. Di solito, tutta l’operazione veniva svolta a mano, aiutandosi a vicenda a spingere il cumulo nel barile e cercando poi le regine rimaste a terra. Certo, i formicai più grandi venivano divisi in più barili, tutti contrassegnati in modo tale da non confondersi e soprattutto da non perdere le nostre splendide queen. I trapianti andarono avanti per alcuni decenni e diedero ragione della fatica degli scienziati, che sulla “lotta biologica” – ovvero la lotta alle malattie delle piante senza dover ricorrere ad antiparassitari chimici – ci fecero convegni, giungendo ad istituire il parco. Fu così che il Giovetto divenne il primo esempio di area protetta creata in Europa al fine di tutelare un popolamento naturale di formiche.
C’è da dire che con le consorelle finite sull’Appennino abbiamo da tempo perso i contatti. Una cosa piuttosto triste, in effetti, mi sono ritrovata a pensare appoggiando le zampe anteriori alla grata della finestra. Ma le sorprese non erano ancora finite! Poi uno pensa che i boschi siano sempre lieti e tranquilli. Qualche anno fa, attorno al 2000, sono ricominciati i trapianti: per la prima volta dal 1981 uno dei nostri 1.500 acervi veniva spostato in un’università a Roma, dove un’équipe di psicologi ha svolto delle ricerche sul nostro comportamento. Degne di nota, ve l’avevo detto, no?! Per altro in quel periodo una quindicina di formicai vennero traslocati da una zona all’altra del parco, come esperimento interno nell’ambito del miglioramento del bosco.
Certo che, io non ho mai assistito alla scena, ma spostare un formicaio mica deve essere robetta da dilettanti! Quante saremo a nido? Bah, a occhio e antenna direi che ci aggiriamo sulle 200.000, talvolta addirittura 500.000 formiche. In effetti se ci fate caso, il diametro medio di un acervo è sul metro e 20, per un sessanta centimetri circa di altezza. Badate bene però: il formicaio si sviluppa anche in profondità, su per giù tanto a fondo quanto si sviluppa in altezza con la cupola. Nel terreno di solito inglobiamo una grossa radice morta, oppure una ceppaia. Insomma, una struttura di tutto rispetto, credetemi, con tanto di buchi per il sistema di areazione: un edificio complesso che a noi operaie tocca ispezionare di continuo.
Insomma, ero lì che rivangavo con il pensiero il passato, quando la pioggia è finalmente cessata. E mi sono resa conto di avere un buco allo stomaco pazzesco! Sospirando osservando i miei fianchi, rimandando la dieta al lunedì successivo, mi sono detta: certo che noi formiche mangiamo un casino! Vi accennavo prima alla processionaria, ma mica è la sola a finire nelle nostre cucine. Da carnivore (o meglio “principalmente carnivore”) ecologiche, c’è da dire che il 60% della nostra dieta è costituito da insetti, di cui molti vengono ritenuti dannosi per le foreste. Sì ma quanto mangiamo! Solo l’estate, le formiche delle Alpi italiane si dice catturino almeno 14 milioni di chili d’insetti, mica bruscolini.
Ripensando alla scultura all’ingresso, il punto il cui la maggior parte dei visitatori si accalca giocando a carte, facendo grigliate e prendendo il sole, resto dell’opinione che dovrei dimagrire. Rientrando quel giorno, sperando che la mia assenza non stesse dando troppo nell’occhio, ho allungato il giro togliendomi dalla strada principale, che nei weekend conta sempre visitatori. Mi sono fatta quattro salti sul muschio profumato (ha giovato alle mie povere articolazioni), ho seguito per un bel tratto le tracce di un tasso per accertarmi che portassero lontano da casa e infine sono riuscita comunque ad incappare in un gruppo di bimbetti sui 7-8 anni. Uno ha allungato la manina dalle dita sporche per prendermi e non ho resistito: mi sono girata e gli ho spruzzato addosso una buona dose di acido formico. Poi, bellamente, ho fatto ritorno al nido.
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