di Giorgia Bernardini
In uno dei miei tour de force lascio mia madre a Sarzana alle 13.35. La giornata è calda e io mi sono vestita di nero perché è quello che faccio sempre quando viaggio. Mi immagino le sedute dei treni su cui i ragazzi e le ragazze poggiano i piedi con le scarpe sporche, penso alle panchine delle stazioni o a quando certe volte al gate non c’è abbastanza posto e mi devo sedere per terra. Cambio prima a Viareggio e poi a Prato. A Prato però vedo una persona speciale, mi viene a prendere sul binario e poi mi porta a mangiare il gelato perché gliel’ho chiesto io. L’ora e mezzo in Toscana scorre veloce – fa caldo, la città brulica di persone che non si vedono durante la settimana, mi ha detto la persona che è con me. Fra le signore corpulente sedute ai tavoli ce n’è una che ha i capelli di un mogano un po’ violento e io non so perché mi immagino la testa della donna riversa dentro la vasca che si sciacqua il colore appena fatto. È stato ieri, mi dico fra me e me, l’altroieri al massimo.
Arrivo a Bologna e come ogni volta che arrivo qui ripenso al Corona Hotel, ripenso alle otto ore in cui mi hanno tenuta all’aeroporto, in uno stanzino, senza mangiare. Pensavano che fossi infetta. Ma Bologna non è più quella di gennaio, adesso è quasi metà luglio e stasera ci giochiamo una finale di un Europeo al quale sembriamo arrivati un po’ per caso e un po’ per volontà di questo gruppo fortissimo composto da giocatori che presi singolarmente e senza un pallone al piede, non hanno dimostrato di brillare. Che non si siano inginocchiati io un po’ non gliel’ho perdonata. Li osservo giocare, ne riconosco anche i preziosismi – Federico Chiesa con le sue facce buffe e i tiri in porta ogni volta come se fosse l’ultima possibilità di vincere qualcosa mi hanno fatto appassionare di nuovo al calcio maschile, che era un rito privato, una dolcezza che condividevo con mio nonno certe sere d’estate quando avevo tredici anni e seguivo una squadra perché la seguiva l’uomo che mi aveva insegnato tutto ciò che un corpo è capace di fare con una palla, con una bicicletta, o anche solo con le braccia nude che si muovono a tempo dentro il mare. Li osservo giocare e ne riconosco i preziosismi, dicevo, però non li stimo e se devo essere onesta mi fa molta fatica dividere l’uomo dal calciatore. Forse urlerei più forte se sapessi che si inginocchiano in segno di opposizione, forse mi comprerei la maglia di uno di loro e la indosserei per tutto il viaggio se solo sapessi che sono uomini da stimare oltreché la squadra azzurra che sta per girarsi la finale.
Fuori dalla stazione prendo il bus numero 11a e finisco alla fermata Po, che è esattamente all’opposto di Via Zanardi, che è la strada dove si trova il Centro Sportivo Piccioli. Andrò lì a vedere la finale con un gruppo di persone che perlopiù non conosco se si eccettua l’organizzatore di un festival a cui sono stata invitata il lunedì precedente per raccontare di Zarina e di sport femminile insieme al direttore di un magazine per cui scrivo.
Dopo 40 minuti di una corsa che doveva durarne al massimo 20 mi rendo conto che sono fuori strada. Così scendo alla fermata dopo e aspetto che arrivi l’11 in direzione opposta. Sotto alla pensilina c’è un ragazzo nord-africano giovanissimo che indossa la maglia dell’Italia e parla al telefono in italiano, poi ogni tanto passa all’arabo e ritorna all’italiano. Anche lui sale con me nel bus, e con noi due ragazze che avranno sedici anni, bellissime con la gonna corta e i capelli lunghi, l’accento napoletano quando chiedo loro un’informazione. La loro bellezza si frantuma in una gentilezza quasi ossimorica, e mi fanno pensare alle ragazzine dei video di Liberato.
Fuori dal bus c’è il caldo, c’è la città che ai margini ha il rumore di un motore affaticato soprattutto in prossimità delle ruote, ma abbiamo avuto fortuna e c’è l’aria condizionata. Arrivo al Centro Sportivo alle nove meno dieci. Poso la valigia in auto, e quando mi siedo con una birra in mano inizia l’inno accompagnato da alcuni ragazzi e ragazze che accendono dei piccoli fuochi fuxia. La partita inizia ed io ho il telefono in mano per sentire tutte le persone che non sono con me e con le quali vorrei vedere la partita, commentarla, dire una bestemmia con la mano fra i denti quando al secondo minuto Luke Shaw raccoglie un cross che taglia l’aria con perfezione da videogioco e insacca la rete di Donnarumma. Il primo istinto è restare immobile con il telefono in mano, intorno a me sono tutti paralizzati. Non è possibile, e se iniziamo così chissà.
E invece le cose pian piano ingranano, così come le birre. Roberto, che è l’organizzatore, mi sta accanto e risponde alle mie domande – sto studiando. Dove gioca Chiesa? Dove se ne andrà Donnarumma? e la domanda è lecita perché ogni volta che sfiora la palla prima dicono: cazzo, che parata allucinante! e poi subito dopo gli urlano: venduto! venduto!
Le partite di calcio a Bologna sono connotate politicamente. Uno del pubblico, che poi scoprirò essere chiamato il filosofo, urla che è arrivato il momento di fare la Rivoluzione. Si arrabbia molto, dà consigli tecnici ai ragazzi come se potessero sentirlo davvero e questa cosa mi piace, mi ricorda me a quindici anni quando urlavo al televisore mentre guardavo il Milan, e provo anche un po’ di tenerezza per me oggi che ho trentacinque anni e non mi infervoro più quando guardo lo sport in televisione. Per lo meno questo è quello che credo, perché stamattina con la testa un po’ fasciata ho riascoltato gli audio che ci mandavamo noi fra un rigore e l’altro. Urla di liberazione, messaggi carini di una amica che ha scritto “non ce la faccio a reggere, mi sono messa a leggere”, bestemmie, anatemi. La parola vince ancora su tutto.
Qualcosa dentro di me sapeva che avremmo vinto. Saranno stati i libri che ho letto e il fatto che questa squadra che non si era qualificata ai Mondiali e poi è arrivata in finale agli Europei era troppo simile al più classico dei cammini dell’eroe. Potevamo solo vincere dopo aver toccato il fondo ed aver avuto una ripartenza così. Quando Rashford, che poco prima era entrato in campo con un cambio proprio perché rigorista, ha scagliato la palla contro il palo sinistro ho urlato con tutta la forza che avevo e mi sono sentita anche fortunata perché per una volta stavo con la squadra giusta. I rigori nella nostra tradizione hanno sempre significato che avremmo perso una partita importante, e invece le cose sono andate diversamente.
Dopo che abbiamo alzato la coppa ho seguito Federico Chiesa per il campo, attraverso la telecamera. Mi sembra sempre un bambino, forse anche perché è figlio dell’altro Chiesa, quello che era in attività quando io ero una bambina. Mi ha fatto impressione vedere i giocatori girare per il campo con gli smartphone, come se avessero spaccato la finzione.
Quando però ho letto il labiale di Chiesa che cercava di parlare con sua mamma nonostante la bolgia, ho pensato che lo sport per me è ancora una delle più alte forme d’amore.
di Mattia Grigolo
La costa ligure, il mare increspato nel tramonto si riversa sul bagnasciuga cittoloso.
Giulia è in ritardo, ascolterà l’inno italiano dalla strada sopraelevata rispetto alla spiaggia. Qualcuno, passando di corsa, le urlerà la mano sul cuore! La mano sul cuore!
Cristina e Alfredo hanno bloccato il tavolo che abbiamo prenotato nello stabilimento balneare. Le prime due file di sedie di plastica arancione sotto il Samsung 50 pollici sono occupate da un plotone di adolescenti e preadolescenti armato di trombe da stadio. Dietro di loro, a semicerchio, gli adulti: petti nudi, bandiere della nazionale italiana indossate a mantello, Havaianas, bikini fosforescenti, tatuaggi tribali, cavigliere giamaicane. Sono tutti allenatori. Tutti. Doveva partire Raspadori dal primo. Tenere più basso il centrocampo. Più basso di così? Lino, portami una media chiara.
Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta, dell’elmo di Scipio s’è…
C’è il rumore assordante di queste trombe e anche dei pugni sui tavoli e delle corde vocali che vibrano e sbattono tra loro perdendo l’accordatura ma non l’impeto. Dei petardi esplodono lontano, da qualche parte oltre il buio della spiaggia. Un fumogeno accende di rosso una porzione di mare, trasformandola in uno specchio diabolico, il gioco di uno stregone.
Poi segna Shaw, dopo due minuti dal calcio d’inizio. L’entusiasmo si riequilibra, ma non la saccenza degli allenatori, non le bestemmie. Vincono loro.
Giulia arriva appena dopo il gol. Hanno segnato perché mancavo io. Con la mano sul cuore, ordina un Martini ghiaccio e limone.
Alfredo, invece, ha ordinato spaghetti aglio, olio e peperoncino: arrivano in un piatto di plastica. Dall’odore che producono sembra più uno spaghetto aglio, olio, aglio, peperoncino, aglio. Dice che manca completamente di sale, ma non di…aglio.
Cristina chiede chi è quello con la maglia rosa che corre dietro ai calciatori. L’arbitro.
Italia, all’arrembaggio!
Gli inglesi parcheggiano un double decker davanti alla propria porta, una ragnatela di divise bianche ripiega a difendere il buffo vantaggio.
C’è una trombetta in mano a un bambino che fa un suono tremendo, una sorta di sibilo violentissimo capace di scardinare ogni mia difesa psicologica. È grossomodo simile alla tortura della goccia cinese.
Non so se è l’effetto della giornata passata in spiaggia, dentro e fuori e dentro e fuori dal mare, oppure le dannate trombe e trombette e sibili e fischi, ma credo di avere allucinazioni uditive nel sentire ciò che esce dalle bocche di questi adulti. Una creatività rarissima nel bestemmiare, nell’insulto razzista, nell’educazione dei propri figli.
Ma che importa, pareggia Bonucci. Forza e Coraggio. Qualcuno urla Dant Vulnera Formam! E allora io alzo le mani, non tanto per festeggiare, ma per arrendermi.
Dal gol in avanti è tutto un aggredire la nazionale inglese – che si difende come riesce – e cercare la breccia per affondare il colpo del ko.
Ma non basta. Supplementari.
Uno degli adulti più infoiati si piazza dietro di noi. Ordina alla moglie di spostarsi di due metri sulla destra e stare in piedi. Mettiti lì che porti bene. E lei che lo fa. Io boh, guarda.
Costui incita la curva in età prepuberale con patetici cori da stadio, creando un surreale Signore delle Mosche in versione Ultrà.
Questa sorta di orango depilato e pieno di tattoo tribali 90s, indossa e sfila ripetutamente la maglietta, con una tale ossessiva compulsione, che dubito resisterà intatta fino al termine della partita.
Dunque, supplementari: Il primo tempo va via liscio. Il secondo: dramma.
Dal centosedicesimo minuto, l’immagine inizia a scattare, a bloccarsi, a perdere connessione. Immagino sia superfluo chiedere di immaginare la reazione del gruppo: sessanta persone tra adulti e bambini in preda a una sorta di ansia rabbiosa. Isteria di gruppo.
Diciamo che nemmeno io sarei contento di vedere a scatti dei probabili calci di rigore.
Un ragazzo, sulla t-shirt nera il logo dello stabilimento, appare dal nulla e dice: lo devo riavviare.
Afferra il telecomando, qualche bambino gli ronza attorno puntandogli trombe da stadio nelle orecchie, rovinandogli irrimediabilmente l’udito.
Smanetta un poco, attesa nervosa, Giulia dice i rigori no, non ce la faccio.
E invece sì.
L’immagine non scatta più.
Incredibilmente e contrariamente a quanto mi è sempre capitato da che ho memoria, vivo i calci di rigore con una tranquillità inaspettata. Giulia, invece, mi salta sulle spalle a ogni nostro rigore segnato e dagli inglesi sbagliato, contribuendo a peggiorare la mia ernia lombare. Fitte di dolore e di gioia, trombe e bestemmie, Berardi sì, Belotti no, Maguire apperò come l’ha calciato, Bonucci sì, Rashford palo, Bernardeschi sì, Donnarumma, Jorginho non tu, no. Donnarrumma! Donnarrumma! L’Italia è Campione d’Europa!
E poi.
E poi è tutto confuso, perché il mare si tinge ancora di rosso fumogeno e lungo tutta la costa lo specchio riflette le stelle esplosive dei fuochi d’artificio e che bello l’abbraccio tra Mancini e Vialli e io che stringo Giulia sotto i neon freddi, che nascondono i petali di luce che continuano a riempire il nero del cielo, il piombo del mare. E stringendosi saltiamo tra i tavoli di plastica. Gli adulti e i bambini si mischiano e si lanciano in acqua, tutti insieme, nel buio e nella schiuma, saltano e urlano qualcosa che forse conoscono e forse no, ma sono lì a schizzarsi in mutande e petto nudo, perdendosi tra i figli degli altri. Poi tornano tutti a riva facendo un trenino sbilenco, in testa il capo ultrà, un primate in mutande. Cantano pooooopopopo popopooooo.
Un trenino, perché siamo italiani e facciamo i trenini.
Mi guardo intorno, ricordandomi all’improvviso che, da tanti anni ormai, sono un expat e, immerso nell’assurdità di quella situazione, un poco mi commuovo: non per il calcio o per la vittoria, ma perché questa gente e questo posto mi dice da dove vengo. Radici.
Potrò odiare tante cose dell’Italia, è così purtroppo, potrò esserne scappato e, forse non ci voglio nemmeno più tornare, chi lo sa.
Ma niente potrà togliermi dalla testa che in fondo poooooopopopo popopooooo.
di Francesco Somigli
Ieri, nel giorno della finale, indossavo la maglietta della nazionale svedese. Il che sarebbe perfettamente normale se a giocare fosse stata la Svezia e non Italia e Inghilterra.
Il corto circuito cognitivo messo in moto dalla mia scelta si spiega in due punti: il primo è che la maglia della Svezia è bellissima e indossarla vedendo una partita di calcio mi sembrava appropriato. Il secondo è che ho guardato la finale di Euro 2020 da tifoso neutrale.
Neutrale.
Cioè che non tifo per nessuno. Cioè che non tifo Italia.
Cioè che non tifo Italia ma sono di nazionalità italiana.
Normalmente, a questo punto della spiegazione, la gente che parla con me di questo argomento inizia a malfunzionare, a non comprendere. Farnetica.
Escono fuori parole a caso come “orgoglio nazionale”, “inno”, “identità”…
Cazzate, insomma. Come se l’attaccamento al proprio paese si verificasse empiricamente con una partita di calcio.
Ma lascerei perdere e mi focalizzerei sul punto fondamentale della questione: ho guardato una finale di una competizione importante con il privilegio di potermi concentrare sull’aspetto sportivo, senza ansie, senza faziosità, senza PoooPoPoPoPoPoPooo, senza gasarmi per gli inni nazionali fischiati nel prepartita e senza desiderare che la coppa “tornasse a casa”. No, non è triste. E non è nemmeno una roba da poco.
Certo, mi sarebbe comunque piaciuto poterla vedere in pubblico, davanti a un maxischermo circondato dalla gente emozionata, dalle grida e dalla tensione agonistica, ma purtroppo non sono riuscito a prenotare da nessuna parte e i pochi luoghi aperti a tutti erano lontanissimi per essere raggiunti a piedi. Ovviamente avrei potuto prendere l’auto, ma vivo a Firenze, prevedevo la vittoria azzurra e i successivi caroselli sui viali cittadini. E non potevo affrontare l’idea di rimanere bloccato nel traffico tutta la notte.
E quindi alla fine ho visto la partita a casa, con meno fibrillazione ma con più comodità. E non sono stato influenzato dalla tensione che ha angosciato i tifosi azzurri per 70 minuti, fino al gol del pareggio di Bonucci: è strano, ma non ho mai dubitato per un momento della vittoria italiana. È stata una sensazione particolare, una consapevolezza robustissima che la “legge del calcio” prevedesse un chiaro trionfo, certo con qualche sussulto, ma senza ombra di discussione.
Forte di questa consapevolezza inconscia ho posto tutta la mia attenzione sull’Inghilterra e l’ho vista sbriciolarsi, minuto dopo minuto, dalla mia comoda poltrona.
Ho assistito prima alla metamorfosi di Luke Shaw, terzino grezzo “bullizzato” a suo tempo da un certo Mourinho per il suo fisico, diventato giocatore solido e inesauribile, premiatosi con un gol al volo. Poi ho atteso la contromossa azzurra, che mi aspettavo in qualche modo e in qualche momento, anche se il primo tempo faceva presagire un predominio inglese; e nel secondo tempo ho ritrovato l’Italia aggressiva che avevo visto in tutte le altre partite dell’europeo.
L’Inghilterra smette di giocare, si affloscia, si contrae, molle come una vela durante la bonaccia; il grido del pubblico di Wembley si affievolisce e lascia il posto ai sussurri.
Vuoi vedere che anche stavolta…
Ma no, questo è l’anno giusto! It’s coming home! Continua a gridare, ce la facciamo!
Kane sempre più stanco, Sterling corre a vuoto, entra Saka e non ne azzecca una. Ma la panchina inglese è zeppa di qualità, mi aspetto nuova verve in campo grazie alle sostituzioni.
La partita finisce e i britannici si accontentano. A bordo campo Southgate non si muove, solo un cenno di vita quando si sfila il cappotto. È l’unica cosa che toglie, visto che lascia in campo tutti i suoi centrocampisti ormai “cotti”.
Ma che fai Gareth, metti qualcuno! La vuoi trascinare fino ai rigori? Ma le hai viste le statistiche della tua squadra ai penalties?!
Non mi sente, va dritto per la sua strada, con gli occhi sbarrati.
Il tempo scorre e la partita si addormenta.
Al minuto 118’ l’allenatore inglese inserisce due tra i migliori giocatori di movimento a livello europeo: Rashford e Sancho.
Tutto Wembley ormai dubita.
Li mette per gli ultimi due minuti? È poco per farli ingranare…
Sta pensando ai rigori! Fa tirare loro!
Non è possibile, non può far tirare due che non hanno ancora la testa in partita. E poi sono giovani, l’esperienza…
E invece Southgate può eccome, ha semplicemente deciso di suicidarsi sportivamente.
I tre rigori inglesi vengono sbagliati proprio da Rashford, Sancho e dal povero Saka, colpevole suo malgrado di essere stato buttato allo sbaraglio in una partita non adatta a lui.
L’Italia ha guardato, studiato e atteso che la tragedia inglese si consumasse. E poi ha vinto con scaltrezza. La squadra più solida e che meno si è fatta prendere dal panico durante le tante insidie del torneo si è meritatamente presa la coppa.
Le agiografie, i trionfalismi, l’epica paracula e le belle storie di rivalsa personale le lascio a Caressa e a chi ci tiene più di me; io non le capisco, forse nemmeno merito di comprenderle.
Mi godo la partita, scambio qualche messaggio con gli amici che festeggiano e sono contento per chi è contento sventolando in strada il tricolore.
Poi ho riposto la maglia della Svezia, ho pensato a quanto fosse bella e che peccato sia stato che non sia mai usata in una partita e poi e me ne sono andato buono buono a dormire.
Avevo pochi pensieri in testa, tutti molto leggeri, e ho preso sonno quasi subito.
Io.
Chissà come avrà passato la notte Southgate invece. Poor lad…
di Elena Arcidiacono
La location è quella giusta.
Un pub di periferia alla periferia di una città del sud Italia con giardino annesso, erbetta e schermi un po’ ovunque, il classico posto dove chi cerca di sfuggire ai terribili giorni di afa cittadini va a rifugiarsi.
Il momento è quello giusto, rivedere un vecchio amico che per svariati e anti covid motivi non si è potuto incontrare per molto tempo. La serata è perfetta: la finale degli Europei di calcio, Inghilterra vs Italia. L’Italia chiamò!
“Ci vediamo intorno alle 20:00 per birretta defaticante”.
Arrivo alle 19:30 e me ne sparo una in solitaria, perché mi va e perché qui mi vogliono bene e me ne passano una sottobanco anche se sono ancora tutti intenti a preparare le svariate tavolate già prenotate da giorni.
Il socio arriva in perfetto orario, abbracci con mascherina e tanto da dirci e poi… sono già le 21:00 ed è il calcio di inizio.
Non sono stata, durante tutto il torneo, una grande fan di questa nazionale, non ci credo molto neanche questa sera, mi ha annoiato la parola che molto è stata usata durante questo mese, “il gruppo”, “siamo un gruppo”; adoro il gioco del calcio, gruppo o non gruppo, una bella giocata, un bel tiro da fuori area con un gol “nel sette”, un bel passaggio filtrante o una punizione come si deve sono quello che mi piace vedere in una partita. E poi succede: cross perfetto, un bel tiro al volo – quasi – perfetto ma forte e voluto. Siamo sotto di un gol, Donnarumma è sconfitto, e non è imputabile di nulla.
Ne ordiniamo un’altra va, la partita è lunga; come si fa, per altri 88 minuti più recupero, ad ascoltare alla TV tutti quei fischi e quei cori disturbanti?
Ma forse meglio così, gambe in spalla e si va a fare gol. Anzi, magari due, così siamo più sicuri ed evitiamo i supplementari.
“Questa la vinciamo, stai sereno”, dico io. Il socio è spaesato. Siamo circondati da bimbi urlanti, giovani coppie annoiate che non so perché siano qui, famiglie con 3/4 figli a carico ognuno munito di trombetta urlatrice e irritante, tutto quello che avremmo voluto evitare, ma l’aria è fresca e va bene così.
Ma non accade nulla, siamo spreconi. Comincio ad innervosirmi, comincio a insultare chiunque stia in campo, il socio se la ride, non concludiamo (neanche loro devo dire); i cellulari sono attivi e surriscaldati, tanta umanità che vorrebbe stare assieme e invece non può, tante distanze da colmare e solo un piccolo schermo a fare da tramite.
Che schifo la vita, penso.
Mi annoio, mi guardo in giro, devo fare pipì, mi scappa. Scappo in bagno, mi lavo le mani che non si sa mai cosa avrò toccato, la faccio, che bello.
GOL!!!
Il pub esplode e posso sentirne le vibrazioni, le urla infinite, godo.
Esco e c’è uno che aspetta il suo turno: “Chi è stato??”, “Bonucci!!!”. Pensa te, ed esco urlando “Sciacquatevi la bocca!!”.
Quando torno al tavolo il socio mi fa: “Sai che non dovresti più uscire da quel bagno?”. No, ma non siamo scaramantici, per niente.
Riprendo coraggio, siamo in partita e con il possesso palla e poi, Mister, hai da fare un po’ di cambi ed anche abbastanza obbligati, perché questi qua fanno male, maledizione! Dai, portiamola a casa e diamo una lezione di calcio.
Nulla, supplementari, nulla, 1-1.
Rigori.
Dannata lotteria dei rigori.
E qui comincio ad essere tutto quello che in un mese ho sempre criticato, perché ti agiti che è solo una partita di pallone, cosa ci guadagni, nessuno saprà che grazie alle tue profane preghiere ed ai tuoi riti loro hanno fatto tanti gol e giù con la scaramanzia; no, non guardo lo schermo perché porta sfortuna, guardo il cielo e c’è una stella. Ok guardo lei e se va bene la prima la guardo fino alla fine e datemi questa cazzo di trombetta!
Il primo va, il secondo non va, il terzo va. Insulti a casaccio, perdo il filo, non so cosa fare e guardo le facce di tutti e lo fa anche il socio, poi uno di loro prende un gran bel palo poi noi facciamo un gol, poi Jorginho lo sbaglia. E adesso?!?!
“Adesso tira questo che ha 12 anni e se sbaglia si va ad oltranza!”, “Non credo, sai? Ascolta che dice quello con il tricolore disegnato sulla guancia”.
Se lo sbaglia… Paratone di Gigione!!
E non penso lo abbia neanche capito che siamo noi i Campioni d’Europa: non esulta, passeggia, gli altri gli saltano addosso e quando anche il giardino del pub esplode finalmente sappiamo. ABBIAMO VINTO.
Urliamo, ci abbracciamo virtualmente, abbiamo gli occhi lucidi, videocall e telefonate di 1 secondo, esulto ma mi fa male la schiena e sto attenta a dove metto i piedi, partono svariati gesti dell’ombrello contro la TV e svariati insulti irreplicabili.
Perché alla fine, stare assieme a della gente che non vedrai mai più, in un fresco giardino di un pub della periferia sud di una torrida città del sud Italia, in cui in TV viene trasmessa una finale di un qualsiasi sport, è anche condividere un bel pezzo di vita e di ricordi che sempre ti faranno ripensare ad una bella serata di metà luglio.
Quella volta che io e il socio non capimmo che la Nazionale Italiana di calcio aveva vinto gli Europei.
La foto di copertina ci è stata gentilmente donata da Francesco Cerrigone
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