“Per contrastare il nemico, occorre prima di tutto capirlo”, dice Mauro Mondello a conclusione del suo intervento. Una diapositiva iniziale permette di capire come il movimento jihadista si evolverà nel tempo, fino a portare alla nascita dello Stato Islamico.
L’occasione per approfondire la nostra conoscenza su ISIS, su com’è nato, come si è evoluto, com’è riuscito a imporre il suo sconcertante sistema di credenze, si presenta un venerdì sera di novembre, allo Spektrum di Neukölln. Siamo alla presentazione di Terror Feeds: inside the fear machine, la conferenza organizzata da Disruption Network Lab che si terrà il prossimo 24 e 25 novembre a Berlino, allo Studio 1 del Kunstquartier Bethanien. Studiosi, giornalisti, tecnici informatici, racconteranno nel dettaglio il sistema di comunicazione e propaganda del terrorismo islamico, il significato di cyber jihad e quello che possiamo fare noi per confrontarci con questa sfida.
Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle e i conseguenti bombardamenti americani a Tora Bora, nelle montagne dell’Afghanistan orientale, lì dove Bin Laden e i miliziani di al-Qaeda si erano rifugiati, l’organizzazione terroristica più famosa del mondo era sul punto di scomparire, con i capi storici di al-Qaeda in fuga o costretti all’immobilità. Attraverso video amatoriali, Osama Bin Laden lanciava sermoni a un movimento jihadista ormai avvilito. Al-Qaeda era all’epoca un’organizzazione incentrata sulla figura di Osama Bin Laden, l’uomo d’affari saudita che aveva dichiarato guerra all’America, ma che non univa, nella sua visione, tutto l’islamismo terrorista. Idee diverse riguardo al tipo di guerra da condurre verso gli “infedeli” ne aveva, ad esempio, Abu Musab as-Suri, l’uomo siriano che rimane ancora oggi uno dei maggiori teorici del jihad e che aveva in mente, già all’epoca della nascita di al-Qaeda, alla fine degli anni Ottanta, una linea più radicale di “guerra santa”, più aderente all’Islam salafita, la parte puritana e fondamentalista dell’islamismo. Nei campi di addestramento di al-Qaeda in Afghanistan, dove Bin Laden si unisce alla lotta per la libertà dei mujahidin, i guerrieri santi, contro l’Unione Sovietica, as-Suri è colpito dalla disorganizzazione dei combattenti di al-Qaeda. Negli anni a venire, sarà proprio il pensiero radicale di as-Suri che influenzerà Bin Laden.
As-Suri, il cui vero nome è Mustafa Setmariam Nasar, nel 2004 pubblica un libro lunghissimo, milleseicento pagine, “Appello alla resistenza islamica mondiale”. Nel testo Abu Musab as-Suri giudica fallimentari i metodi di al-Qaeda, incapace, a suo parere, di imporsi militarmente sul territorio e di aggregare tutti i musulmani sotto una stessa causa. Traccia la strada per il jihad futuro, evocando “la resistenza senza leader”, gruppi spontanei e individui che spargono terrore in Europa e nel mondo. Spiega che senza una lotta aperta sul campo per la conquista del territorio, non si può creare uno Stato, che diventa l’obiettivo principale dell’islamismo radicale: as-Suri pone le basi teoriche dell’affermazione dello Stato Islamico.
Non è dunque un caso se fra gli estremisti vicini alla visione di as-Suri vi era un giordano, di nome Abu Musab az-Zarqawi, un delinquente brutale e un assassino, che lentamente riesce a diventare uno dei leader di al-Qaeda e a competere con Osama bin Laden per il controllo del movimento. Nel 1999 Zarqawi costituisce il gruppo Jama’at al-Tawhid-Jihad (Monoteismo e Jihad) che dopo l’invasione americana dell’Afghanistan, in seguito all’11 Settembre, si sposterà in Iraq. Qui, l’organizzazione prenderà il nome di Tanzim Qaidat al-Jihad fi Bilad al-Rafidayn (Organizzazione della base del jihad in Mesopotamia) e nel 2004, dopo aver giurato fedeltà alla “Base” di Bin-Laden, diventerà noto come al-Qaeda in Iraq, di cui az-Zarqawi si definirà l’emiro. È l’invasione americana dell’Iraq dell’aprile 2003, dunque, che offre agli islamisti radicali un’occasione d’oro per dare avvio a una nuova fase storica. Con az-Zarqawi, che odiava gli sciiti, gli attentati suicidi in Iraq contro le forze della coalizione, le istituzioni governative e la popolazione sciita si moltiplicano.
Gli uomini di az-Zarqawi si spostano anche in Europa e risultano coinvolti negli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004, lo stesso anno in cui viene diffuso, per la prima volta, un video che mostra la decapitazione di un prigioniero, in quel caso l’americano Nicholas Berg.
Anche Ayman az-Zawahiri, attuale capo di al-Qaeda, ma all’epoca vice di Osama bin Laden, critica, in una lettera del 2005, i metodi di az-Zarqawi, esprimendo la sua disapprovazione per la strage d’innocenti sciiti e le efferatezze delle decapitazioni degli ostaggi. È così che dal 2006 in avanti le due organizzazioni terroristiche, quella di Zarqawi e la “casa madre” al-Qaeda, si allontanano sempre di più, si scontrano, lavorano con modalità differenti e incompatibili. Quando, nel 2011, scoppia la guerra civile siriana, il movimento fondato da Zarqawi, ucciso nel 2006 da un bombardamento statunitense, decide di estendere il campo delle proprie operazioni in Siria, un passaggio che diventa operativo nel 2013 e che vede il trasferimento della base del gruppo dalla città di Baquba, in Iraq, ad al-Raqqa, nel Nord siriano: nel giugno del 2014 il nuovo leader, Abu Bakr al-Baghdadi, annuncia nella Grande Moschea di an-Nuri a Mosul, la seconda città più grande dell’Iraq, la nascita dello Stato Islamico, ad-Dawlah al-Islāmiya fi’l-Iraq wa-sh-Shām.
I nomi ISIS (Islamic State of Iraq and Syria) e ISIL (Islamic State of Iraq and Levant) con cui ci si riferisce al gruppo oggi, derivano dalle diverse possibilità di tradurre e interpretare il nome wa-sh-Shām. Al-Sham in arabo è infatti usato per indicare “Levante”, “Grande Siria” e perfino “Damasco”, la capitale della Siria, dando quindi vita ai nomi ISIS e ISIL. Quest’ultima denominazione è diffusa più negli Stati Uniti, mentre la prima è usata prevalentemente in Europa. La sigla IS, Islamic State, sebbene preferita dagli islamisti radicali, per via della referenza alle proprie ambizioni espansionistiche, non è accettata da governi e istituzioni internazionali. La denominazione Daesh, invece, è l’adattamento di Daiish, cioè l’acronimo tratto da al-Dawla al-Islamiya fi al Iraq wa al-Sham, è usata nel mondo arabo con connotazioni peggiorative e in senso dispregiativo.
La presentazione a Spektrum ci mostra le organizzazioni terroristiche islamiste legate ufficialmente all’Isis e il numero dei foreign fighters. Le cifre ci permettono di avvicinare il tema centrale della conferenza Terror Feeds: capire come Isis sia riuscito a scatenare il cyber jihad, analizzare la sua sofisticata ed efficace strategia di comunicazione, costituita non più solo da immagini di guerra e di sommarie esecuzioni, ma dalla pubblicazione di riviste, dall’attività sui social media, dalla realizzazione di video e programmi radio in grado di influenzare l’opinione pubblica in Occidente e nei paesi arabi.
L’incontro va avanti mostrando come l’emergenza dei rifugiati, che si è venuta a creare in Europa dopo l’inizio delle guerre civili in Libia e in Siria (2011), ha fatto vedere che l’islamismo radicale è in grado di adattare la propria strategia comunicativa alle dinamiche politico-sociali dell’Occidente, sfruttando la capacità di saper raccontare una storia, di sviluppare una narrativa che fa breccia nelle menti e nei cuori di molti. Dice Mondello: “La guerra civile libica è stata il punto di svolta per l’Isis. Prima della guerra in Libia c’erano undici milioni di lavoratori stranieri che guadagnavano 800 dollari al mese. La crisi libica e quella siriana hanno creato quello che è stata chiamata “emergenza rifugiati”, ovvero milioni di persone che cercano di raggiungere l’Europa. La questione dei migranti e dei rifugiati è diventata sempre più un tema cruciale della politica, che ha portato a una polarizzazione del dibattito all’interno della società civile; polarizzazione che si è presto trasformata nel perfetto terreno per la propaganda dell’Isis, capace di attrarre alla propria causa migliaia di cittadini europei come foreign fighters”.
Mauro Mondello ci presenta due esempi di questo tipo di propaganda, mostrandoci un video realizzato con un drone in cui si vede, per la prima volta nella storia dei video del terrorismo islamico, un attentato kamikaze dall’inizio alla fine. “È qualcosa che è stato realizzato da professionisti, da gente che sa usare i mezzi tecnologici, non da amatori” commenta alla fine del video. Il secondo esempio riguarda le trasformazioni che hanno caratterizzato i modi di azione terroristica e la novità agghiacciante del jihad “fai da te”, in altre parole la possibilità di aderire alla causa jihadista da casa, senza essere un combattente che sa usare esplosivi e armi, ma semplicemente seguendo una serie di istruzioni online.
Ovviamente non si può comprendere del tutto l’organizzazione terroristica dello “Stato Islamico” se non si analizza anche la sua guerra per la conquista del territorio. Quest’aspetto, oltre alla capacità di finanziarsi e a una visione millenaristica e apocalittica, fa dell’Isis qualcosa di diverso da tutte le altre organizzazioni terroristiche: la sua ambizione di costruire il “Califfato Islamico”. Anche se oggi, dopo la perdita della capitale Raqqa, l’IS ha visto ridursi molto il territorio sotto il proprio controllo, questo non significa che non stia combattendo per la riconquista dei territori. Si pensa che il suo leader, Abu Bakr al-Baghdadi, sia stato ucciso nel maggio scorso dai russi e che adesso il suo successore sia Jalaluddin al-Tunisi, tunisino con passaporto francese, già leader dell’Isis in Libia.
Internet ha cancellato le frontiere fra la terra dei credenti e la terra dell’empietà, come teorizza il pensiero islamista, permettendo la propagazione di “un sistema online di shari’a e fatwa”. Nel corso degli anni abbiamo assistito a una specie di mutazione genetica da parte dello Stato Islamico, che ha consentito agli islamisti di avere non solo soldati (fra cui foreign fighters anche dalla Svezia) sul territorio in Medio Oriente, ma anche moltissimi fan sparsi in tutta Europa, come dimostrano gli ultimi sondaggi effettuati fra le comunità islamiche europee, compresa l’Italia (tre anni fa gli ambienti islamisti da tenere sotto controllo in Italia erano 108, adesso siamo già a un migliaio, anche se i nostri numeri sono nettamente inferiori a quelli di paesi come la Francia, la Gran Bretagna, la Germania o il Belgio dove vi è un’immigrazione islamica radicata ormai da diverse generazioni).
La vera sfida per l’Europa è capire che i nuovi terroristi, quelli degli ultimi attentati, non provengono dal gruppo dei combattenti, ma dalle fila nutritissime dei sostenitori dello “Stato Islamico” che vivono nelle “terre degli infedeli”, cioè da noi. Fra questi, tantissimi sono pronti a “radicalizzarsi”, seguendo le indicazioni di Abu Muhammad al-Adnani, il capo della propaganda dell’Isis ucciso nel 2016 da un drone americano. “Non è necessario che voi siate dei professionisti della guerra, l’importante è che voi usiate il coltello che avete in cucina o l’auto che tenete in garage per colpire gli infedeli a casa loro”.
Gianandrea Gaiani, direttore della rivista Analisi Difesa, ha sostenuto in una recente intervista che forse – ma con molte virgolette, ha specificato – non avremo più gruppi di fuoco capaci di organizzare attentati in grande stile come quelli di Parigi del 13 novembre 2015. Il Presidente francese Hollande, allora, dichiarò lo Stato d’emergenza e la guerra allo “Stato Islamico”. Il suo successore Macron l’ha revocato e ha detto che non siamo più in emergenza. Non perché il pericolo del terrorismo jihadista sia finito, ma perché qualcosa è cambiato nella nostra percezione: l’incubo di vivere ai tempi del cyber jihad è diventato una costante quotidiana.
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