Illustrazioni di Claudio Rossi
M – Il mostro di Düsseldorf (M – Eine Stadt sucht einen Mörder)
Germania, 1931
Regia – Fritz Lang
Soggetto – Thea von Harbou, Fritz Lang
Sceneggiatura – Thea von Harbou, Fritz Lang
“Scappa, scappa monellaccio, sennò viene l’uomo nero, col suo lungo coltellaccio, per tagliare a pezzettini… proprio te!”
La filastrocca canticchiata da un gruppetto di bambini mette subito in chiaro cosa abbiamo di fronte. Il bianco e nero, questa volta, non è rassicurante, per niente. C’è qualcosa di sinistro, ed è tra noi. Smettete di cantare questa maledetta canzone, basta!
Non deve essere stato difficile per Fritz Lang trovare ispirazione per questo film. Come rispose Nanni Moretti alcuni fa a chi gli domandava come avesse fatto a prevedere tante delle tendenze sociali che si sarebbero poi puntualmente avverate nel tempo, “ma io lo faccio di mestiere. E poi basta osservare, non sono un genio, basta stare fermi ed osservare quello che già ci succede attorno”.
Fritz Lang dichiarò a Peter Bogdanovich, nel libro-intervista Il cinema secondo Fritz Lang: “Penso che ogni film serio, che descriva i contemporanei, dovrebbe essere una sorta di documentario del suo tempo. Solo allora, secondo me, si raggiunge un certo grado di verità in un film.”
M-Il Mostro di Düsseldorf, è il primo vero film nella storia del cinema ad avere come protagonista un serial killer. Girato in sole sei settimane, è un lavoro al contempo imponente e attuale. In una città tedesca (il film è ambientato a Berlino, ma il titolo italiano richiama un caso di cronaca del 1925, che ha ispirato il film, avvenuto a Düsseldorf) la popolazione è terrorizzata da un maniaco, che ha adescato e ucciso otto bambine.
Nel primo dopoguerra, Weimar era il cuore pulsante della cinematografia europea. Collocandosi in una via mediana molto cupa tra l’immensa e spettacolare produzione hollywoodiana e le ricerche sperimentali del versante sovietico, il cinema di Weimar si mostra oggi come uno dei più ricchi movimenti artistici del ventesimo secolo. È frutto di un clima postbellico intriso di precarietà corrosiva che, a causa delle conseguenze del trattato di Versailles, non lasciava indifferente nessuno: tutti soffrivano, tutti avevano qualcosa da espiare. Il film è animato da una doppia vita, tipica dei periodi di crisi. Da un lato l’aspirazione al sublime, dall’altro l’attrazione bambinesca per l’oscuro, un elemento, questo, distintivo dell’espressionismo tedesco, che, tenendo le due correnti in costante equilibrio, le fondeva e trasformava, rendendole un potente vettore di disturbo, disagio e meraviglia.
Registi quali Friedrich Wilhelm Murnau e Fritz Lang, attori come Emil Jannings e Marlene Dietrich (in particolare con Der blaue Engel, 1931, di Josef von Sternberg), raggiunsero grande notorietà internazionale facendo dell’industria cinematografica tedesca una vera concorrente di Hollywood. Per la realizzazione delle scenografie e dei costumi, gli studi cinematografici di Berlino divennero famosi e ne è un esempio assoluto Metropolis (1927), sempre di Fritz Lang, un film pazzesco e visionario.
Con “M”, in realtà, siamo già quasi oltre la stagione espressionista. Un fenomeno, quello dell’espressionismo tedesco, purtroppo mai abbastanza ricordato. Lang respira questa atmosfera, e la dispiega. Quelle inquietudini che serpeggiavano, più o meno consciamente, nella società tedesca del primo dopoguerra e che il miglior cinema di quegli anni ci ha mostrato in termini per lo più metaforici o allegorici, in questa opera vengono esplicitate al massimo. Lang, con M, sviluppa un discorso rigoroso sulla natura dell’uomo e sulla società, e consegna al pubblico una visione prospettica dell’ingiustizia della società, una lucida visione delle sue colpe, dei suoi errori, della sua disumanità.
A un’inquietante e magnifica scena iniziale che funge quasi da prologo sociale, seguono 60 minuti di rappresentazione vivida della città, un luogo che viene rappresentato nelle esistenze dei suoi cittadini confusi e spaventati. Con la magistrale e iconica scena che ci introduce al primo omicidio, siamo travolti presto dall’abisso, in cui ci caliamo attraverso la visione della celebre ombra e del palloncino, sospeso e immobile.
Le ombre…quello che rimane impresso è lo spettrale gioco di ombre; ombre che si rincorrono continuamente, che si fondono col rumore dei passi nei momenti cruciali della caccia in cui Peter Lorre, nei panni del protagonista indiscusso del film, è oramai un ratto in fuga, braccato dai mendicanti. Il sonoro, qui viene valorizzato al massimo, diventa così il vero polmone d’acciaio della sceneggiatura.
Un sonoro che aveva fatto il suo ingresso nel cinema solo pochi anni prima e che qui diventa riferimento assoluto (primo film europeo ad utilizzarlo) e strumento di indagine. In modo raffinatissimo, viene sancita dal regista tedesco la fine di un’epoca, quella del cinema muto. Si dà spazio ad una novità che saprà diventare un valore aggiunto per la settima arte, chiudendo una volta per tutte le polemiche di chi, al tempo (forse anche comprensibilmente) temeva troppo la vicinanza alla formula teatrale. La trovate del mendicante-mercenario cieco, che riconosce l’assassino ricordando il celebre fischiettio che precede i suoi adescamenti, è un colpo di genio ineguagliabile.
M-Il Mostro di Düsseldorf è un’opera seminale, anche dal punto di vista tecnico, che oltre all’introduzione del sonoro mostra una gestione montaggio nuova, con sequenze di grande efficacia e fluidità, che mostrano una modernità straordinaria (si pensi al ping-pong di l’alternanza della scena delle due riunioni). A tutto questo si unisce un formidabile uso del controcampo, di grande potenza espressiva.
Forse la scena che racchiude da sola tutto il senso del film è quella della corsa della madre della prima vittima, e poi quella dell’espressione terrorizzata del Mostro, un Peter Lorre che, catturato dopo un’estenuante ricerca, regala, in 15 minuti, un monologo breve, intriso di infinito mestiere e amore per l’arte della recitazione, che si imprime nell’immaginario collettivo come una maschera folle, scolpita da due occhi che sono come palle da golf. Due occhi potenti, evocativi, che, nel bianco e nero della pellicola, sembrano prendere fuoco.
L’assassino è uno psicopatico criminale, segnato da un vissuto di sofferenze, abusi e abbandoni. Quel disperato “correre dietro a me stesso per strade senza fine” gridato nel silenzio assordante dell’ ”aula bunker” ,non ci abbandona tanto facilmente.
Nei primi secondi torna alla memoria una celebre scena di Chaplin in Monsieur Verdoux, dove si accusa di ipocrisia l’intero sistema di governo che, per compiere le sue attività criminali, corre al riparo della solita vecchia “ragion di stato”. In M, però, basta poco per rendersi conto di come gli accenti virino verso un sottofondo molto più umano e, al contempo, ben più psicotico. Lang scava, sviscerando nei meandri della psiche, senza esaltazione o superficialità, e lo fa evitando di trasmettere giudizi. Vuole semplicemente condividere il grande disagio presente nella società, condensando in meno d due ore la quintessenza del malessere, del disagio e della disperazione intesi come motori del male, degli errori storici. Il suo film diventa così una perfetta fotografia della società tedesca, uscita a pezzi dalla prima guerra mondiale e in procinto di vivere altri 15 anni di buio sociale e politico.
Ci si sente vulnerabili, alla visione di questa pellicola.
Forse il bianco e nero, unito alla tensione, all’autentica sensibilità degli autori di un tempo, fortemente partecipi dei fenomeni culturali e sociali della loro epoca, conferisce alle immagini un lato dolorosamente serio e perturbante. Il passaggio in cui il Mostro si rifugia in un bar e, nascosto tra le piante, cerca invano di affogare le proprie ansie e i propri demoni nell’alcool, turbano nell’intimo, fanno riflettere sulla terribile attualità tematica del film. È il primo, Lang, che tratti di un serial killer, il primo ad avventurarsi nella psiche umana di un caso clinico. Da piccolo, leggendo il libro dedicato al cinema più bello del mondo (Truffaut intervista Hitchcock), mi emozionavo a leggere di Hitchcock e mi immedesimavo in lui quando raccontava a Truffaut del suo terrore per la polizia, per i momenti della vita.
Essere condannati ingiustamente è un topos che Hitchcock cerca di esorcizzare in decine di film. L’ossessione di dover rispettare rigidamente determinati codici comportamentali, la paranoia di essere accusati di colpevolezza in qualsiasi momento. Una mania di persecuzione che ognuno affronta e incanala al meglio che può. È quindi illuminante, in M, la scena del signore che compie l’ingenuità di fermarsi a parlare con una bambina. Casca il mondo, le bande lo assalgono e solo l’intervento dei poliziotti evita il linciaggio. È la rabbia cieca, la caccia all’uomo sfrenata, la solitudine di una società che è orfana di una solida guida istituzionale.
Tra le tante cose, è questo aspetto che colpisce: la difficile sensazione di doversi fare giustizia, da soli, nel bene o nel male, per colpa di una società che è che priva di guida. Una società che non sa non sa “vedere” gli individui, che li lascia ai margini, che li abbandona ai demoni. E forse non lo fa a caso. Altri demoni, meglio vestiti, si annidano dentro lo stesso sistema, forti di una struttura psichica più solida, più inespugnabile, che li rende funzionali al sistema stesso. Sono più controllabili e quindi più e accettati ma, per questo – e solo per questo. sono assolti.
Lang esplora il tema della giustizia istituzionale, che necessita di esistere per difendere gli uomini dagli uomini. Un bestiario di individualismo sfrenato che poco fa ben sperare, con un finale solo all’apparenza rassicurante. Un’esecuzione a morte, quella di Hans – Peter Lorre, scampata solo grazie all’ intervento della polizia e al temporeggiare del provvidenziale e ineccepibile eloquio dell’avvocato d’ufficio. Oltre che dalla lucida capacità osservatrice ed dall’ipersensibilità di Lang, si rimane colpiti dalla presentazione in immagini del nodo giuridico dell’infermità mentale. Lang, da connazionale e sostenitore di Freud, si fa promotore della nascente psicologia criminologica dei primi del ‘900.
Col suo concentrato di idee, M riporta alle discussioni odierne sui casi di cronaca famosi che sconvolgono e hanno sconvolto il nostro, da Cogne a Meredith, passando per Olindo e Rosa. M è un film imperdibile, necessario, angosciante: tremendamente attuale. Osservare il comportamento dei personaggi significa osservare la nostra società ed i suoi meccanismi più intimi.
Buon compleanno caro Mostro, 90 anni portati benissimo. Anche troppo.
Il monologo finale
Hans: Ma non potete, non potete uccidermi a sangue freddo! (Risate degli astanti) Io pretendo di essere consegnato alla polizia! (Risate di scherno) Io pretendo di essere portato davanti a un tribunale regolare! (Il presidente del tribunale dei ladri ribadisce la condanna a morte di Hans)
Hans: Ma non è colpa mia, lo giuro! No… non è colpa mia… (Si getta in ginocchio in preda alla disperazione. Ripete più piano) Non è colpa mia… lo giuro.
(Si alza un ladro e chiede. E di chi è la colpa?’)
Hans: Ma chi sei tu? Cosa dici? Chi sei tu che vuoi giudicarmi? E chi siete voi? Un branco di assassini, di malviventi… Ma chi credete di essere, solo perché sapete come si fa… a scassinare una cassaforte, o ad arrampicarsi sui muri, sui tetti? Sapete fare solo questo. E niente altro. Non avete mai lavorato, in vita vostra! Non avete mai imparato un lavoro onesto. Siete un branco di maiali. Non siete altro che un branco di maiali! Ma io, io che posso fare? Che altro posso fare? Non ho forse questa maledizione, in me? Questo fuoco, questa voce, questa pena!
(Il capo dei ladri interloquisce: “Vorresti dirmi, allora, che tu devi… ammazzare?”)
Hans: Quando cammino per le strade ho sempre… la sensazione che qualcuno mi stia seguendo. Ma sono invece io che inseguo me stesso.
Silenzioso… Ma io lo sento. Sì, spesso ho l’impressione di correre dietro a me stesso. Allora, voglio scappare. Scappare! Ma non posso, non posso fuggire! Devo, devo uscire ed essere inseguito! Devo correre, correre! Le strade senza fine… Voglio andare via… Voglio andare via! Ma con me corrono i fantasmi… di madri, di bambini… Non mi lasciano un momento. Sono sempre là. Sempre! Sempre! (Grida) Sempree! Soltanto quando uccido. E allora… (D’improvviso si affloscia, privo di energia, come un fantoccio disanimato) E poi non mi ricordo più nulla. Dopo… dopo mi trovo dinanzi ad un manifesto e leggo tutto quello che ho fatto. E leggo, leggo… Io ho fatto questo? Ma se non ricordo più nulla! Ma chi potrà mai credermi? Chi può mai sapere come sono fatto dentro, che cos’è che sento urlare nel mio cervello… e come uccido? Non voglio! Devo! Non voglio! Devo! E poi, sento urlare una voce… ma io non la posso sentire! Aiuto! Non posso… non posso… non posso… non posso… (Si accascia, stringendo la testa fra le mani).
Hans: Ma non potete, non potete uccidermi a sangue freddo! (Risate degli astanti) Io pretendo di essere consegnato alla polizia! (Risate di scherno) Io pretendo di essere portato davanti a un tribunale regolare! (Il presidente del tribunale dei ladri ribadisce la condanna a morte di Hans)
Hans: Ma non è colpa mia, lo giuro! No… non è colpa mia… (Si getta in ginocchio in preda alla disperazione. Ripete più piano) Non è colpa mia… lo giuro.
(Si alza un ladro e chiede. E di chi è la colpa?’)
Hans: Ma chi sei tu? Cosa dici? Chi sei tu che vuoi giudicarmi? E chi siete voi? Un branco di assassini, di malviventi… Ma chi credete di essere, solo perché sapete come si fa… a scassinare una cassaforte, o ad arrampicarsi sui muri, sui tetti? Sapete fare solo questo. E niente altro. Non avete mai lavorato, in vita vostra! Non avete mai imparato un lavoro onesto. Siete un branco di maiali. Non siete altro che un branco di maiali! Ma io, io che posso fare? Che altro posso fare? Non ho forse questa maledizione, in me? Questo fuoco, questa voce, questa pena!
(Il capo dei ladri interloquisce: “Vorresti dirmi, allora, che tu devi… ammazzare?”)
Hans: Quando cammino per le strade ho sempre… la sensazione che qualcuno mi stia seguendo. Ma sono invece io che inseguo me stesso.
Silenzioso… Ma io lo sento. Sì, spesso ho l’impressione di correre dietro a me stesso. Allora, voglio scappare. Scappare! Ma non posso, non posso fuggire! Devo, devo uscire ed essere inseguito! Devo correre, correre! Le strade senza fine… Voglio andare via… Voglio andare via! Ma con me corrono i fantasmi… di madri, di bambini… Non mi lasciano un momento. Sono sempre là. Sempre! Sempre! (Grida) Sempree! Soltanto quando uccido. E allora… (D’improvviso si affloscia, privo di energia, come un fantoccio disanimato) E poi non mi ricordo più nulla. Dopo… dopo mi trovo dinanzi ad un manifesto e leggo tutto quello che ho fatto. E leggo, leggo… Io ho fatto questo? Ma se non ricordo più nulla! Ma chi potrà mai credermi? Chi può mai sapere come sono fatto dentro, che cos’è che sento urlare nel mio cervello… e come uccido? Non voglio! Devo! Non voglio! Devo! E poi, sento urlare una voce… ma io non la posso sentire! Aiuto! Non posso… non posso… non posso… non posso… (Si accascia, stringendo la testa fra le mani).
Claudio Rossi nasce a Cagliari nel 1989. Dopo anni passati a scarabocchiare qua e là si innamora della comunicazione visiva e decide di salutare anni di studi in architettura. Così finisce per riempire il suo tempo di Illustrazione, User interface e Brand Identity, finendo per incappare in una candidatura per il Compasso d’Oro.
Si diverte a saltellare tra similitudini visive e colori.
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