Ogni mese Margherita Seppi sceglie un luogo nel mondo e ci racconta che tempo fa, a modo suo.
James Cook approdò a Cape Tribulation il 10 giugno 1770 alle 6 del pomeriggio. Il sole stava per scendere e le nuvole temporalesche si stavano aprendo lasciando che gli ultimi squarci di sole, come miliardi di dita affusolate e sanguinanti, accendessero le perle gonfie d’acqua rimaste sulle piante.
La foresta pluviale diventava un immenso quartiere a luci rosse.
James Cook arrivò in quella parte dell’estremo nord est australiano – oggi Queensland – nella stagione invernale, che gli aborigeni del luogo, i Kuku Yalanji, chiamavano Duluruiji.
I Kuku Yalanji identificavano cinque diverse stagioni:
Kambar, da fine dicembre fino a marzo, è la stagione estiva delle piogge, con temperature che vanno dai 23,6 ai 31,4 °C.
Kabakabada, da aprile a maggio, è l’autunno, ancora molto caldo, con temperature dai 21,5 ai 29 °C e con meno precipitazioni.
Duluruiji, da giugno a settembre è, appunto, l’inverno, con temperature tra i 17,5 e i 26 °C, più fresco e con precipitazioni sporadiche.
Wungariji, ottobre e novembre, è la primavera, calda (dai 20,5 ai 29 °C) ed asciutta.
Jarramali, novembre e dicembre, è una stagione mezzana, calda e tempestosa.
I Kuku Yalanji non avrebbero avuto molte altre occasioni di preoccuparsi del tempo. Dopo aver abitato il territorio per più di 4000 anni, nonostante una fiera resistenza a mo’di guerriglia, sarebbero stati lentamente decimati dall’arrivo prima degli europei e poi dei cinesi, ed infine rilocati nelle baraccopoli costruite per loro dagli occupanti.
Oggi ne sono rimasti circa 3000 e sono protetti dalle politiche paternalistiche del governo. Per preservare la loro cultura, dicono. Allora li si può vedere in costumi tradizionali, nei ridicoli panni di finti anfitrioni, portare a passeggio sfilate di gambe bianchicce in quella che ora non è più la loro casa.
James Cook, quando arrivò a Cape Tribulation, era incazzato.
La nave, infatti, venne gravemente danneggiata dall’urto con la barriera corallina nell’approccio alla terraferma, rischiando di sprofondare. Ci vollero ore di manovre per raggiungere un punto sicuro. L’equipaggio, intanto, lavorava a ritmi infernali per pompare l’acqua fuori dall’imbarcazione e gettava fuori bordo buona parte del carico per mantenere la nave a galla.
Cook, dopo l’ultima sterzata, levò sopra al timone la faccia rossa come il tramonto che la circondava, con un inutile gesto tentò di liberarsi delle zanzare che si stavano ubriacando del suo esotico sangue europeo, e si vendicò di quella natura nefasta appioppandole nomi ingiuriosi. Il primo monte che vide fu chiamato Mont Sorrow, la barriera corallina con cui la nave si era scontrata Endeavour Reef, la baia dove si era riposato durante il salvataggio Weary Bay, e il primo promontorio che aveva avvistato prima dell’incidente Cape Tribulation perché, come riportano i suoi diari di viaggio “here begun all our troubles”.
Oggi Cape Tribulation è un paesello di passaggio che probabilmente non verrebbe menzionato nemmeno dai suoi 400 abitanti scarsi, se non facesse parte del sottobosco della foresta pluviale più antica del pianeta.
La Daintree Rainforest, questo ecosistema vecchio oltre 160 miliardi di anni, funziona come un enorme condizionatore naturale: la densa volta di foglie ed arbusti filtra la luce del sole e l’evaporazione dell’acqua dalla vegetazione sottostante fa scendere le temperature. Per questo il clima a Cape Tribulation è decisamente più piacevole rispetto a città più a sud, come Cairns e Port Douglas, dove il cemento fa da magnete e contenitore per il caldo.
Diversamente dalle altre città del nord australiano, però, Cape Tribulation è anche più piovosa. La media delle precipitazioni annue è di 1.700 mm ed esse non si concentrano solo durante la stagione dei monsoni, ma sono sparse con intensità differenti durante tutto l’arco dell’anno. Il Mont Sorrow e le altre vette che spiccano vicino alla costa forzano l’aria calda e umida ad alzarsi e raffreddarsi velocemente, creando in questo modo le condizioni ideali per il verificarsi di temporali tropicali. I mesi più piovosi, comunque, sono gennaio, febbraio e marzo, con una media di precipitazioni fra i 400 e i 500 mm, seguono dicembre e aprile, con circa 250 mm, poi marzo e novembre, con 125 mm, infine giugno, luglio, agosto, settembre ed ottobre, con meno di 70 mm.
I venti soffiano più forti a fine autunno e inizio inverno, con una media di 28 km/h fra aprile, maggio, giugno e luglio, perdono di forza da agosto a gennaio, abbassandosi fino a 20 km/h, poi ricominciano gradualmente a salire durante febbraio e marzo, con una media di 22 km/h.
Il giorno più corto dell’anno di Cape Tribulation dura circa 11 ore. È il 21 giugno, il solstizio d’inverno, quando il sole sorge alle 06.45 e tramonta alle 17.51. Il giorno più lungo, il 21 dicembre, dura solamente due ore di più: il sole sorge alle 05.41 e tramonta alle 18.47. In questa parte subtropicale dell’emisfero le giornate si trascinano pigre a ritmo della natura e si stancano presto. Non conoscono l’ora legale, rimangono incontaminate dall’uomo come la foresta a cui si rivoltano attorno.
Io arrivai a Cape Trubulation il 10 dicembre 2017 alle 4 di pomeriggio. Diedi solo una rapida occhiata al paese. Una gas station, un negozietto, qualche casa, tutti edifici squadrati, bassi e giallognoli, tipici della periferia australiana. Li lasciai scivolare via, come buttando dei pezzi di lego dal finestrino appannato dell’auto in corsa. Superato il paese parcheggiai di costa alla strada e iniziai a camminare nella foresta.
Non aveva ancora piovuto quel giorno, ma il cielo mi annebbiava le caviglie e l’atmosfera mi si addensava sulle meningi creando una sensazione da camera iperbarica. È sempre così su a nord, nei mesi estivi. Ti svegli e non riesci a capire se stai ancora dormendo, l’afa è soporifera, il grigio del cielo si confonde con la tua materia grigia e ti sembra di essere tutt’uno con l’aria che ti circonda. Diventi gassoso ed irrisolto, senza contorni.
Camminammo un po’, io e il senso di irrealtà, sfregandoci le spalle. La foresta pluviale è difficile da descrivere. È un organismo vivente, pullulante, sensuale, che freme e ti inghiotte. Se la Terra fosse una donna, la foresta pluviale sarebbe la sua vagina. Matura, pelosa e bagnata, sempre pronta alla fecondazione.
Arrivai fino a Cape Tribulation Beach e i suoi chilometri di spiaggia deserta, dalle acque che d’estate non si possono toccare, colpa delle meduse, eteree e mortali, ed i coccodrilli, muti e voraci, in agguato nelle baie. In questa zona del mondo riescono ancora ad emergere le forze ancestrali del pianeta. La prima forza creatrice, la prima forza distruttrice, tutt’e due unite in una sola forma, perché si sa che il male e il bene sono solo le due facce di una stessa medaglia.
Restai seduta da sola sulla spiaggia per un tempo incerto, guardando l’oceano azzurrare nel cielo, aspettando niente e nessuno, infine dimenticandomi chi fossi.
REDAZIONE
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