Ogni mese Margherita Seppi sceglie un luogo nel mondo e ci racconta che tempo fa, a modo suo.
Alessio
Alessio è arrivato a Lisbona nel gennaio del 2006, stava scappando. I segni li aveva riconosciuti immediatamente: si incazzava ancor più di frequente, si sentiva gli occhi di tutti addosso. All’improvviso aveva il bisogno di cambiarsi d’abito più volte al giorno, si metteva addosso cose strane, la giacca elegante con i pantaloni della tuta, gli stivali pitonati con il pigiama. Quando aveva iniziato a guardare con troppo interesse la banca di fronte a casa, ne era stato sicuro. Doveva partire di nuovo.
Era atterrato in gennaio, mondo bastardo che freddo. Di solito l’inverno e l’autunno a Lisbona sono miti, la media a gennaio è 11.5 gradi, a dicembre e a febbraio di 12.5, a marzo di 15, ad ottobre 18, a novembre di 15. Quando Alessio era arrivato, invece, il 30 gennaio del 2006, per la prima volta dal 1954 aveva nevicato.
E Alessio non se n’era stupito, perché ovunque andasse, portava bufera. Era sempre tormentato, sull’attenti, in tensione. Viveva in un mondo inquieto e ventoso. Forse per questo si era sentito subito a casa in quella città malinconica e sempre mossa dai venti, come se da secoli e secoli non riuscisse a trovar nessuna pace. Il vento a Lisbona soffia in media a 18 km/h per tutto l’arco dell’anno, soprattutto di sera, quando le ombre e i dolori tornano a galla. Si abbassa leggermente a settembre raggiungendo i 16 km/h, il picco più alto è a dicembre, con 20 km/h.
Alessio non lo sapeva da dove arrivasse di preciso quella rabbia che gli covava dentro da sempre. Se dalle botte date, se da quelle ricevute, se dall’amore che gli era stato tolto, se invece fosse stata colpa di quella periferia romana puttana che gli aveva divorato via l’infanzia e l’aveva sbattuto in galera, lasciandolo grande troppo presto, pazzo troppo in fretta. Ma forse invece così c’era nato, e quel pensiero era l’unica cosa al mondo che davvero lo spaventasse. Perché se uno con la rabbia ci nasce, se la trascina dietro finché muore.
Si era trovato abbastanza in fretta una stanza a poco prezzo nell’Alfama, il quartiere più antico, il meno colpito dal terremoto che nel 1775 aveva devastato la città, e per questo ancora così contorto, così arabo. Lisbona sembrava bloccata in uno spazio atemporale, una bolla di nostalgia ai margini dell’Europa, una terra di relitti, di edifici decrepiti e semi-abbandonati, che abituava a guardare verso l’oceano con tristezza, anelando ad altro. Lisbona era la fissità di quello sguardo sospeso. Alessio aveva trascorso l’inverno ad ubriacarsi per le viuzze di questa città in perenne salita e discesa, si era azzuffato con gli spaccini del Barrio Alto per un pezzo di roba o solo perché aveva voglia di azzuffarsi, aveva girato tutti i locali, tutte le notti, fino a quando non veniva sbattuto fuori al mattino. Una sera aveva rimorchiato una barbona, poi aveva cercato di seminarla scappando per le scalette erte dell’Alfama, quella era caduta, rotolata giù, lui l’aveva lasciata là a gridare senza un rimorso.
Ma poi era iniziata la primavera ed era arrivata l’estate, le temperature si erano alzate, media di 16 gradi ad aprile, 18 a maggio, 21.5 a giugno, 23 a luglio, 23.5 ad agosto e 22.5 a settembre. Piano piano anche il freddo dentro ad Alessio si era sciolto. Andava sempre così. Trovava un lavoro, metteva via due soldi, si innamorava e veniva lasciato, faceva troppi casini per restare in quel posto. E intanto la testa si rischiarava, i mostri lo lasciavano un po’in pace e soprattutto la rabbia si calmava, a volte per qualche mese, raramente per qualche anno. Così era pronto a tornare a casa. In quei momenti chi gli stava intorno capiva che oltre alla cattiveria, più in profondo, più in dentro, c’era qualcos’altro che lo animava. Un’assoluta e disarmante urgenza di affetto.
Sara
Dopo Londra e Berlino, Lisbona. Quasi una tappa obbligatoria per chi scappa senza sapere bene da cosa. Sara se la ricorda come l’unica città Europea che resiste, l’unica in cui si può trovare ancora qualcosa di intonso, che preserva un nucleo povero, grezzo e nostalgico.
Oggi però Sara si guarda intorno e vede come quel nucleo si sia iniziato a sgretolare impietosamente. Mentre gira un angolo le salta all’occhio una scritta su un muro, fuck off Airbnb, poi calpesta il milionesimo volantino che pubblicizza un corso di yoga. Lisbona è risorta dopo il terremoto, è sopravvissuta alla peste, ha combattuto una perenne crisi economica. Ma sembra si stia arrendendo di fronte ad un nemico interno che si spaccia da amico, la speculazione edilizia, e non si è ancora accorta di aver lasciato entrare un grosso cavallo di Troia vestito alla moda, i turisti di massa, i nuovi hipster, gli startuppari.
Sono passati sette anni dall’ultima volta che Sara è stata qui. Era rimasta solo pochi giorni nel 2011, ma alcuni posti ti si incidono nelle budella, ti girano nello stomaco e non ti lasciano in pace, ti fanno vivere con l’ansia di vederli ancora, questa volta più a lungo, in modo più forte.
Lasciare Berlino è stato uno strazio, le ha strappato un pezzo di se stessa, si sente esistenzialmente monca, ed ora, mentre si accorge di cosa è successo alla Baixa nel frattempo, le sale quasi un conato di vomito all’idea di aver commesso un terribile errore.
Forse la Baixa è l’area che ha subito i cambiamenti più drastici dopo il boom. Alle botteghe tradizionali si sono sostituiti una serie di negozi di souvenir tutti uguali, alberghi low-budget e ristoranti con i menù plastificati tradotti in cinque lingue. Se ci si sposta su nell’Alfama e nel Barrio Alto non ci sono più edifici sgomberi e deturpati, ora sono tutti imbellettati, abitati dai nuovi occupanti stranieri dal portafoglio gonfio, mentre i portoghesi devono trasferirsi in periferia, loro ed il loro stipendio da 500 euro al mese. Alla saudade e al fado si sono sostituite la mindfulness e la musica da discoteca.
Inizia a piovere quando Sara arriva all’edificio. In inverno piove di frequente, c’è un clima mediterraneo a Lisbona, con inverni ed autunni bagnati e primavere ed estati asciutte. A dicembre, gennaio e febbraio cadono 110 mm di pioggia, in marzo 75 mm, in aprile 55 e in maggio 45. L’estate è secca: giugno 15 mm, luglio e agosto 5, settembre 30 mm.
Sara entra. Il Disgraça è un collettivo DIY radicale, una specie di centro sociale, nuova roccaforte della scena punk in espansione. Lei sale al primo piano, ci sono tavole e sedie alla rinfusa, gente che mangia roba vegana, rumore di piatti che viene dalla cucina. Si guarda in giro, nessuno ricambia l’occhiata. Allora scende nel seminterrato, passa da una doppia porta che sembra apra un passaggio in un film di Cronenberg, arriva in quella che sostanzialmente è una scatola insonorizzata. Si gode un concerto punk così com’è giusto che sia, in modo sporco e violento, esagerato, e intanto si sente sola, disperata e immensamente felice nello stesso momento.
Esce dal Disgraça quando il sole sta sorgendo, è il solstizio d’inverno e sono le 07.50. Il giorno più corto dell’anno a Lisbona dura nove ore e mezzo, quello più lungo 14 ore e 50, il sole sorge alle 6.11 e tramonta alle 21.04.
Sara ha ancora dieci giorni di tempo per essere quella che è, o meglio, per vivere quella versione di sé che più le appartiene, poi inizierà un nuovo lavoro. Hanno aperto da poco un hub creativo che ospita spazi di co-working nel quartiere di Alcântara, LX Factory si chiama. Quando ci pensa, per la seconda volta nella stessa giornata le viene da vomitare. La vede già tutta quella gente in provetta, la creatività che serve i soldi, il progredire tecnologico vuoto di tutta una serie di astrazioni. La parola innovazione le trapana il cervello già da settimane, innovazione, che disgusto, soprattutto per lei che crede che la razza umana si debba sterminare. Si chiede per quanto riuscirà a sopportare di vivere questo dissanguamento etico, per quanto tollererà la contraddizione. Poi decide che è meglio non pensare. Lancia un’occhiata malinconica al Disgraça e a passo lento si avvia verso il suo piccolo loft in centro, pagato dalla start-up per cui lavora, alle spese di un lisbonese che là non ci può più stare.
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