Ogni mese raccogliamo il meglio di quello che è stato proposto da Yanez e lo riproponiamo. Questi sono gli articoli che avete apprezzato di più nel mese di giugno 2017, raccontati attraverso stralci e citazioni (cliccando sul titolo verrete rimandati direttamente all’articolo):
Hanno ammazzato Boxhagener Platz
di Serena Montera
foto di Cesare Zomparelli
“Ho appena messo piede in piazza. Scendo dalla bicicletta in corrispondenza di un segnale stradale: devo parcheggiare la bici. In un attimo mi raggiunge Jens e la leghiamo insieme. Stasera allo Zielona Gora, il caffè antifascista di Gruenbergerstrasse, c’è la Vöku, la VolxKüche , la cucina del popolo: mangerò qualcosa lì. La musica punk mi costringe ad alzare la voce, io e Jens cerchiamo di distaccarci dal suono e ci sediamo ad uno dei tavoli all’entrata.”
“Questa piazza ha significato molto per la gente – mi racconta ancora Thomas – Poi c’è stato un cambiamento totale e adesso i piccoli negozi non possono più sopravvivere, tutto è costoso. La domenica qui era pieno di gente, soprattutto in estate, adesso sono solo turisti, che hanno i soldi in borsa, ma non vogliono pagare. Io pago sempre, anche ora, cinque euro per questo posacenere in cristallo: per i miei sigari è perfetto”.
Thomas è cresciuto nella DDR fino a diciotto anni, ma non a Berlino, in un paesino del Brandeburg, poi, nel 1982 è riuscito a spostarsi ad Ovest. Mi dice che quel passato non lo rivorrebbe indietro.”
Racconti da Tempelhof
di Riccardo Zamunaro
“Il progetto iniziale era di raderlo al suolo, insieme a tutto quello che quel luogo rappresentava, per poi costruirvici sopra nuovi complessi abitativi ed una biblioteca, sfruttando gli oltre trecento ettari di terreno disponibile. Fortunatamente la faccenda dello smantellamento non andò in porto, ma sicuramente in me ebbe un forte impatto. Il ricordo di quel luogo mi prese a tal punto che volli tornare a vederlo. Non me l’aspettavo così. Anche perché, dopotutto, non sono mai riuscito a vedere cosa ci fosse al di fuori del terminal. Il parco esterno era immenso, pieno di persone di ogni età, ognuno con il proprio motivo per essere lì: c’era chi mangiava seduto sugli spazi d’erba tra le piste di atterraggio, chi correva, chi andava in bici, chi si ubriacava e chi giocava a pallone. C’era anche chi dormiva e chi pilotava quelle stupide tavole con le ruote trascinate da un aquilone.”
“Ho perso il conto delle giornate passate in questo aeroporto. Non faccio una doccia da giorni e nessuno sembra volermi aiutare.
Ho deciso di ricominciare il mio diario perché non avevo altra soluzione alla noia e poiché, dopo averle provate tutte, non mi resta che accettare il fatto che forse non me ne andrò mai più. Le guardie mi hanno comunicato che tutti i voli per Parigi sono fermi per problemi di gestione delle piste di atterraggio. Mi hanno spiegato che fuori c’è fermento. Fermento, dico io. Maledetti tedeschi. Maledetti americani. E perché no, maledetto Dupin.
I giornali parlano di una possibile svolta di questa guerra silenziosa tra America e Russia.”
Pensieri circolari sulla S-Bahn
di Paola Moretti
“Salgo sulla S42 perché arriva prima, ma avrei voluto prendere la S41 perché è quella con tutti gli studenti che vanno alla Freie Universität. Il vagone è moderatamente pieno e silenziosissimo. Non so che ore siano, mi sono dimenticata di controllare, ma sono uscita di casa poco prima delle dieci. Alla mia destra un cartellone pubblicitario pro sesso sicuro.”
“Mi piacerebbe affittare una di quelle casette nelle Kolonie vicino al lago. Starci una settimana o due, facendo del giardinaggio vero magari. Andrei a nuotare la mattina, anche se l’acqua del lago mi fa schifo perché mi fa sentire viscida. Tornerei e accenderei la brace per la griglia, ci metterei su le verdure che tanto cuociono lente. Nel frattempo leggerei. Dopo pranzo riposino, poi un bel caffè solubile, perché di sicuro mi sarei dimenticata la moca. Mi metterei a scrivere fino a sera, poi con l’arrivo del fresco farei un giro in bici. Una volta tornata mi griglierei due salsicce da accompagnare con un bicchiere di vino rosso e poi a nanna. Non sarebbero neanche le undici di sera. Ci sono un sacco di corsi d’acqua a Berlino, credo di averne passati già almeno quattro.”
A Trieste quarant’anni dopo Basaglia
di Cecilia Callegari
“La prima volta che mette piede in un ospedale psichiatrico è il 1961 e Basaglia ha 37 anni. Fino ad allora si è limitato a portare avanti le sue teorie all’interno dell’ambiente protetto dell’università, prima come specializzando in psichiatria e successivamente come dottorando, scontrandosi spesso con l’élite accademica ortodossa. Ma nel ’58 ottiene la licenza alla docenza di psichiatria e comincia a dare fastidio sul serio. Un conto è polemizzare da studente, un altro è insegnare teorie sovversive che mettono in cattiva luce professori e luminari. Il piano è semplice ma efficace: Basaglia viene contestato pubblicamente dagli altri docenti e le sue possibilità di proseguire la carriera universitaria vengono annullate.”
“La stanza è affollata, non si riesce quasi a stare là. Esco subito ed il mio interesse è attratto dalla ultima porta in fondo al corridoio dalla quale intravedo dei colori sgargianti. È una sartoria di recupero di materiali che produce borse e zainetti. Subito di fianco all’ingresso una vecchia signora non alza lo sguardo dalla sua macchina da cucire. Sopra di lei un manifesto raffigura il disegno di un degente dall’espressione sconsolata e dalla corporatura poderosa vestito di un abito decisamente troppo corto che gli lascia scoperti le caviglie ed i polsi. A fianco un manichino parlante commenta: “Non bisogna allungare il vestito basta accorciare il degente” (citazione di una nota vignetta di Ugo Guarino).”
Mangia, prega, Erfurt
di Francesco Somigli
“Venendo da Berlino sono ben contento di poter camminare in lungo e largo per il centro senza necessariamente dover usare i mezzi pubblici, mi fa capire che sono arrivato in una dimensione diversa, più a misura di essere umano. L’avevo un po’ dimenticato negli ultimi 5 anni di vita nella capitale tedesca. A rivelarmi il legame con la città dalla quale provengo è il nome di una delle prime strade che attraversiamo, Juri-Gagarin Ring. Come direbbero gli Offlaga Disco Pax in “Robespierre”, Erfurt mi sorprende subito con la sua meravigliosa toponomastica.”
“Saluto la direttrice e inizio la mia visita passando attraverso la gabbia dei lemuri, che saltano impertinenti da un ramo all’altro della foresta privata a loro disposizione. Poco dopo uno struzzo addormentato a terra mi ricorda quanto anche io stia soffrendo il caldo e la stanchezza. Cerco di non farmi convincere dal suo cattivo esempio: stringo i denti e procedo con la mia salita sulla collina, tra gli sguardi bovini (ça va sans dire) di Gnu e Bisonti mansueti. Arrivato in cima mi fermo a riposare e a osservare i segni che la Germania Est ha lasciato su Erfurt: una distesa di plattenbau, decorati con temi animaleschi, si stende davanti a me. È in questa periferia a nord della città che scopro quello che già ben conosco della DDR: il cemento, gli appartamenti-alveari e, probabilmente, l’alienazione. Gli elefanti nel recinto sottostante si muovono placidamente, incuranti del tramonto e delle mie riflessioni architettonico-sociali. ”
Il nostro fottuto rap
di Elena Cascio
“Se vi aspettate che vi racconti una storia sul rap della serie, “C’era una volta la me bambina che ascoltava Lauryn Hill a colazione, Queen Latifah a pranzo e Roxanne Shante a cena”, mi dispiace deludervi: a me fino a qualche anno fa il rap faceva schifo. E so anche il perché. Quando ero piccola avevo un fidanzato. Lui ascoltava “musica rap” che poi tentava in ogni modo di propinarmi. I suoi artisti preferiti erano gli Articolo 31. Non è per giustificarmi – e con tutto il rispetto per gli Articolo 31 – però immagino possiate capire perché il mio entusiasmo non fosse proprio alle stelle.”
“Mentre sono intenta a sciacquarmi le tempie di fronte al lavello nella toilette delle donne, entra un ragazzo. È alto, muscoloso, sprizza testosterone da ogni suo poro ubriaco, e decide di voler fare la mia conoscenza esordendo con un amichevole: “Ehi, ma tu sei gnocca!”. Cominciamo bene, penso. Lo ignoro e me ne vado, con suo grande disappunto. Nella mia testa gli ingranaggi iniziano a emanare fumo nero e scintille, e a questo punto capisco che non è solamente a causa del calore. Mi guardo intorno e quello che vedo è tutto uguale: ragazze e soprattutto ragazzi giovanissimi, col cappellino da baseball in testa girato al contrario e le canottiere, sudati ed eccitati, alcuni ancora con lo zaino di scuola sulle spalle. Quando lo show inizia, io non ci capisco più niente. Sono schiacciata lungo la parete in fondo al locale, tra un ragazzino di diciannove anni al massimo e una tizia annoiata che continua a succhiare il suo cocktail da una cannuccia troppo corta, versandomene immancabilmente un po’ sulle scarpe ad ogni spintone che riceve.”
Pensieri inopportuni dal capezzale
di Margherita Seppi
“Mia madre ha passato i suoi ultimi giorni a casa sua, dal 30 giugno al 13 luglio, dove la sua famiglia l’ha assistita con amore e nel dolore. Lei avrebbe preferito buttarsi dal piano dell’ospedale in cui le hanno annunciato che non c’era più niente da fare, piuttosto di patire quello che ha patito, e di coinvolgere noi in tutto quel male. Lo ha detto chiaramente, più volte. Purtroppo, però, in Italia non viene riconosciuto il diritto di decidere della propria morte, anche in casi estremi. Per mia madre, la legge non ha avuto nessuna pietà.”
“Vedo la borsa da shopping di mia mamma appoggiata su una sedia, è una cosa costosa ed elaborata, come i vestiti che le piaceva mettere anche solo per andare a stendere i panni in terrazzo. Di rimando vedo quella borsa com’era quando pendeva dal suo braccio prima di uscire, la vedo che ciondola mentre facciamo il vialetto per andare a prendere la macchina, la vedo sistemata sul sedile dietro e sento lo sbattere della portiera, poi guardo nello specchietto retrovisore e vedo gli occhi di mia mamma, quando ancora non avevano le squame, e allora la mia gola inizia a sanguinare, sanguinare, sanguinare e mi chiedo come farò a vedere tutte le cose che le appartengono senza di lei a dargli uno scopo, e a non morire dissanguata.”
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La foto di copertina è di Cesare Zomparelli
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