Diario di Godot.
Sono passati quarant’anni da quella volta a Tempelhof. Un’esperienza strana. Un’esperienza folle più che strana.
Solo pochi anni fa mi è capitato di tornare nel vecchio aeroporto tedesco, in quello che dal 2010 è diventato il parco pubblico più grande della città. Tre anni fa lessi sul giornale che a Berlino, il 25 Maggio 2014, si sarebbe tenuto un referendum contro lo smantellamento dell’aeroporto. Il progetto iniziale era di raderlo al suolo, insieme a tutto quello che quel luogo rappresentava, per poi costruirvici sopra nuovi complessi abitativi ed una biblioteca, sfruttando gli oltre trecento ettari di terreno disponibile. Fortunatamente la faccenda dello smantellamento non andò in porto, ma sicuramente in me ebbe un forte impatto. Il ricordo di quel luogo mi prese a tal punto che volli tornare a vederlo.
Non me l’aspettavo così. Anche perché, dopotutto, non sono mai riuscito a vedere cosa ci fosse al di fuori del terminal. Il parco esterno era immenso, pieno di persone di ogni età, ognuno con il proprio motivo per essere lì: c’era chi mangiava seduto sugli spazi d’erba tra le piste di atterraggio, chi correva, chi andava in bici, chi si ubriacava e chi giocava a pallone. C’era anche chi dormiva e chi pilotava quelle stupide tavole con le ruote trascinate da un aquilone. A qualcuno era persino venuta la bizzarra idea di costruirci un orto. Un orto in un aeroporto, dico io. Sbandati, ecco come li chiamavamo ai miei tempi.
Fu proprio in tale occasione, però, che mi tornò alla mente di un taccuino, un diario più che un taccuino, che usavo portare con me quando ero più giovane.
Nel periodo in cui scrissi il suddetto diario avevo da poco terminato la visita ad una cara amica a Berlino; sarei poi dovuto tornare a Parigi per incontrare i miei due compari teatranti, con cui avrei dovuto mettere in scena un nuovo spettacolo teatrale intitolato “Noi e Godot”.
“Noi e Godot”, mi dico; solo a ripensarci oggi, dopo tanto tempo, dopo tutto quello che è accaduto, mi vengono le lacrime agli occhi dalle risate.
Così, tornato a Parigi, rimestai tra i ricordi abbandonati in una cassapanca mangiata dai tarli; conservato dentro ad un fazzoletto di pizzo bianco, sotto ad un vecchio giornale, ecco che lo trovai, ancora intatto in ogni sua pagina: il mio piccolo diario. “Il diario di Godot. Francis Arnauld Godot. Attore.”
Aeroporto di Tempelhof
4 Dicembre 19_
Spero che il volo parta a breve perché non ho alcuna intenzione di aspettare.
Questo posto è esattamente come lo hanno descritto i giornali: a dir poco maestoso. Forse anche troppo, dico io; un francese non avrebbe mai esagerato in tal modo. Mai.
Le persone nella sala principale però hanno tutte un modo di fare molto elegante. Ho riconosciuto qualche politico, qualche giovane soubrette e, se la vista non mi inganna, devo avere intravisto anche qualche celebrità. Non puoi che essere nel posto giusto Godot: anche tu sei quella che si definisce una celebrità.
Ore 21.00
Ho incontrato un uomo.
Seduto in attesa del mio aereo mangiavo uno spuntino e sorseggiavo una coppa di champagne quando vicino a me si è seduto un signore curioso. Tra le mani stringeva una pipa e ne aspirava il fumo a grandi boccate bianche; nel mentre, concentrato, sezionava il giornale con la stessa cura che metterebbe un chirurgo nell’operare un paziente. Sporgendomi sulla sedia, cercando di non farmi notare, provai a leggere l’articolo che gli richiedeva tanta concentrazione. Il giornale era francese e parlava di un certo delitto avvenuto in una casa al centro di Parigi, in via Morgue. Un caso terribile pare: una scimmia, dopo essere scappata dal suo padrone, si era introdotta nel suddetto appartamento e, senza un apparente motivo, aveva ucciso le due inquiline. Una di queste, la più giovane, era stata spinta a forza dentro il camino, mentre l’altra gettata dalla finestra. Una poltiglia, vi era scritto. Una schifezza, avrei scritto io.
Non feci nemmeno a tempo a finire di leggere l’articolo che l’uomo bisbigliò con tono pacato: “Un caso decisamente bizzarro, mi creda”.
Quasi caddi dalla sedia quando mi resi conto che stava parlando proprio con me.
“Mi scusi, non volevo sbirciare il suo giornale, mi creda. È che ero incuriosito” risposi.
Quell’uomo aveva un modo di fare arrogante sin dall’inizio. Arrogante, mi dico.
“Non se ne curi Signor Godot; la curiosità è un istinto insito nell’uomo saggio” mi rispose. Ma non feci in tempo a ringraziare per il complimento ricevuto che l’uomo continuò: “O il peggior difetto d’un ficcanaso”.
Il peggior difetto d’un ficcanaso? Il Signor Godot? Come si è permesso? Sicuramente non sapeva con chi stesse parlando. Io un ficcanaso? Io sono Francis Godot per la miseria. Un uomo rispettabile. Un uomo d’onore.
Così, con l’eleganza smodata che mi distingue, da vero francese quale sono, gli risposi: “Come si permette di offendermi lei? Maleducato! Sì sì, le lascio il suo giornale. E poi come fa a sapere che mi chiamo Godot? Sappia che se è un mio ammiratore, mi spiace, ma non le farò alcuna firma. Ed impari le buone maniere”.
Mi alzai senza lasciargli la possibilità di rispondere ma, stupidamente, dimenticai di finire il mio champagne.
Era un uomo sgarbato, maleducato ed impertinente. E avevo pagato cinque franchi per quello champagne. Un uomo terribile. Un francese sì, ma uno dei peggiori.
Ore 21.30
Credo che la sorte mi remi contro.
Come se non bastasse l’offesa ricevuta, è appena accaduta un’altra faccenda fastidiosa. Mentre scrivevo di quest’uomo e del mio champagne, un altro giovane mi si avvicinò con sottomessa cortesia. Credevo si trattasse di un altro ammiratore alla ricerca di un autografo, ma in realtà costui era venuto da me come portatore di brutte notizie, di bruttissime notizie: Il mio volo è stato soppresso. Soppresso dico io. Maledetti tedeschi.
Fortunatamente sono un uomo tutto d’un pezzo. Giusto in quel momento un ragazzetto magro come uno stecco, con in testa un berretto da pescatore e vestito come uno di quei piccoli vagabondi che gironzolano per le strade di Londra, mi venne incontro con dei giornali. Mi sembrava uno di quei ragazzetti disposti a tutto pur di racimolare qualche franco, così lo chiamai verso di me.
“Ragazzo! Sì, tu che vendi giornali: come ti chiami?”
“Oliver, signore”
“Ciao Oliver. Ascoltami bene: se ti pago, riusciresti in qualche modo a far arrivare un messaggio a Parigi?”
“A Parigi, signore?”
“Sì sì a Parigi, conosci Parigi? La Francia?”
“Sì signore, un altro mio compare è appena scappato a Parigi. Ma per mandare il messaggio non le converrebbe usare quella cornetta che si usa per parlare da lontano?”
“Cosa? Il telefono? No no, i miei amici non hanno telefono. E poi li vuoi i soldi oppure no?’”
“Sì signore.”
“Bene, benissimo. Allora ascoltami: devi far recapitare questo messaggio al parco di Rue. Dovrebbero esserci due uomini che mi attendono su una panchina nel lato nord del parco, sotto al pioppo. Avevo un appuntamento per domani ma non arriverò in tempo perché il mio aereo è stato soppresso. Mi capisci?”
“Sì signore.”
“Falli informare che il Signor Godot arriverà domani. Tutto chiaro?”
“Sì signore. Panchina, lato nord, due uomini.”
“Bene. Cosa deve dire il tuo compare?”
“Il Signor Godot arriva domani”
“Bene, benissimo. Ecco un franco. Ora va.”
“Grazie, signor…?”
“Godot. Signor Godot. Ora va.”
“Grazie Signor Gogo. Buona giornata. Che dio la benedica.”
“Godot per la miseria! Godot!”
Ho troppo sonno per poter resistere a lungo. Credo che ora andrò a dormire.
Tempelhof
5 dicembre 19_
Maledette panchine di ferro, maledetti tedeschi.
Dormire in questo aeroporto è un impresa che sfiora l’impossibile. Come durante il giorno, anche la notte è tagliata dal continuo rombare metallico degli aerei americani; si parla di quantità folli di aerei. Un giovane soldato di stanza nell’aeroporto accennava al fatto che, di media, siano 1.398 gli aerei in transito nell’aeroporto. Al giorno. Al giorno, dico io. Un numero folle, appunto. Sono aerei enormi, dal rumore assordante che fa tremare le vetrate. Li chiamano i Rosinenbomber (bombardieri d’uva passa), aerei merci imponenti che ogni giorno portano 12.940 tonnellate di rifornimenti di ogni tipo per soccorrere la parte ovest della città. Carbone, latte, medicine, cibo. Giorno e notte, notte e giorno. Ora, dico io, immaginatevi di dormire con tutto questo fracasso. Se solo i sovietici lasciassero un passaggio autostradale tutto questo rumore non esisterebbe. Ed io, forse, riuscirei anche a dormire.
Ma bando alle ciance. Questa giornata è partita fin troppo male per perdere altro tempo.
Questa mattina, alzandomi di fretta dalla mia scomodissima sedia di ferro, sono inciampato e mi sono storto la caviglia. Poi, zoppicante, sono andato alla ricerca di spiegazioni sul mio volo.
C’è da dire che il terminal dell’aeroporto è quello che si definisce il luogo ideale per sentirsi a disagio. Ho letto che dopo il primo restauro, avvenuto nel 1934 per mano dell’architetto nazista Ernest Sagebiel, si sia voluto optare per un aspetto più sobrio e militaresco. Imponente. Tutto squadrato e duro. Tutto più nazista, per intenderci. Per chi non potesse vederlo, basta immaginarsi una sala immensa dal soffitto altissimo fatto di travi intervallate a spazi vuoti. La sala è costruita interamente di granito, dall’aspetto resistente. Sui due lati più lunghi, trattandosi di un immenso spazio rettangolare lungo 400 metri, una serie di finestrone lasciano filtrare la luce che illumina l’intera sala, conferendole un’aria più leggera ed elegante. I colori vanno dal giallognolo al rosso granito. Ma sinceramente a me non piace. Anche se grazie alle maestose vetrate si possono osservare gli aerei in movimento, vi assicuro che dover attendere diverse ore in una sala così immensa e robusta, senza nessuno svago a disposizione, fa sembrare tutto una prigione; la sola sensazione che provo è quella di essere rinchiuso in gabbia come un topo, in un’unica sala senza troppi fronzoli e con delle scomodissime sedie di ferro.
Mentre scrivevo questa descrizione con esagerata premura, una voce si alzò alle mie spalle:
“A me questo aeroporto piace.”
A parlare era un altro ragazzino dall’aria squattrinata.
“Cosa vuoi ragazzino?”
“Stavo leggendo quello che hai scritto”
“Leggendo? Non mi dire che sai leggere.”
“So leggere, so scrivere e so fare molte altre cose. Ho sentito che hai dato un franco ad un mio amico per far arrivare un messaggio a Parigi. Se vuoi te lo posso fare arrivare io. Sono molto più bravo. Solo 10 franchi.”
Quest’impertinente deve avermi preso per una banca.
“Vattene via ragazzino. Per cosa mi hai preso? Per una banca?” risposi.
“Ma quale banca? Ti ho visto che dormivi sulle sedie come me, sai?” sghignazzò il ragazzino.
“Vattene. O vuoi che chiami la sicurezza?”
“Vattene. O vuoi che chiami la sicurezza?” ripeté lui.
Fu a quel punto che provai ad allontanarlo con una manata, senza però riuscire a colpirlo. Quella carogna. Mi è guizzato via come un pesce, brutto impertinente, e per giunta mi ha anche urtato. Piccolo maleducato. Se n’è andato sghignazzando e ripetendo sempre la stessa frase:
“Vattene ti ho detto. O chiamo la sicurezza. Vattene, vattene o chiamo la sicurezza.”
Faceva inchini esagerati scimmiottandomi e togliendosi il cappello. Brutto ragazzino.
Solo dopo ho scoperto che il ragazzino si chiama Artful Dodger. Un mezzo teppistello scappato da Londra assieme al suo amico Oliver.
Ma quello era solo l’inizio della giornata.
Dopo quell’incontro andai al bar ordinai un caffè con qualche goccia di schnaps: un tipico spirito tedesco, peggiore della grappa che bevono gli italiani, ma altrettanto efficace. Anche troppo efficace, dico io. Così efficace che mi sentii subito lo spirito alleggerito, molto più di quanto mi aspettassi.
Continuai la mia ricerca finché trovai un addetto dell’aeroporto: volevo che risolvesse il mio problema e mi lasciasse partire. Quest’ultimo, molto comprensivo e dispiaciuto per il disagio arrecatomi, mi portò a sedere in una stanzetta più piccola dove mi chiese i documenti d’identità.
Convinto che la mia visita “al magnifico, immenso aeroporto di Tempelhof”, “la terza struttura più grande del mondo” (come si diceva in giro), fosse finita, iniziai a frugare nelle tasche alla ricerca del portafogli. Frugavo e frugavo. Mi palpeggiavo con foga isterica. Isterica, mi dico. Infilavo le mani in ogni tasca senza però alcun risultato. Cercavo in ogni dove e in ogni modo, al punto tale che, dopo aver sventolato la giacca come una bandiera, paonazzo in viso, cercai persino di sfilami i pantaloni pur di arrivare ad dunque. Ma questo non mi fu possibile: mi fermarono prima che potessi slacciarmi la cinta. Le guardie mi ammanettarono e mi buttarono a terra.
Mi avevano da sempre raccomandato di muovermi con il documento d’identità poiché, in quanto francese, non avrei avuto alcun problema con le autorità. Ed infatti fino a qualche istante prima, e ne sono tuttora sicuro, il mio portafoglio era nella tasca sinistra della mia giacca.
Mentre me ne stavo immobile con le guance schiacciate sul pavimento freddo, i gendarmi iniziarono a intimidirmi colpendomi con parole come “Nein. Nein. Eins, zwei, drei. Was. Nein.” Chiaramente non capivo nulla di ciò che stessero dicendo. Quella lingua è incomprensibile. “Nein nein” chissà cosa volevano che facessi. “Bis. Tris. Chezzzen, mezzen”. Anche se, ad essere sincero, in quelle condizioni ho dovuto trattenermi per evitare di scoppiare a ridere per tutte quelle parole senza senso. Forse per colpa del caffè corretto. “Shvaz, straz, caz”. Troppo forti questi tedeschi.
Vedendo che non capivo nulla e forse anche a causa del mio innaturale sorriso, chiamarono un altro soldato. Americano stavolta.
Entrò un uomo robusto, un certo tenente Friedrich Henry che iniziò subito a farmi domande riguardo una donna russa.
“Donna russa con il cappello? Ma voi siete matti”
“Parla! Sei una spia russa?”
“No no, macchè spia russa! Io sono Godot. Francis Godot. Attore. Niente spia.”
“Allora dove sono i tuoi documenti?”
“Non lo so. Li avevo nella…”
“Parla, spia!”
“Ma quale spia” continuavo a dire. “Attore. Attore.”
Me ne stavo lì, a terra, con il corpo immobilizzato dai due tedeschi e dall’americano, quando bussarono alla porta. Dalla parte opposta risuonò una voce autoritaria ma elegante di un uomo.
“Aprite immediatamente la porta. È Monsieur Dupin che parla. Aprite vi ho detto!”
Quel nome… Monsieur Dupin. A primo suono non mi diceva nulla, a parte che anch’esso era francese e, di conseguenza, probabilmente mio amico.
“Aprite ho detto!”
I gendarmi restavano immobili e si guardavano con sguardo attonito. I colpi si fecero più forti e la voce più severa.
Confesso che in quel momento non sapevo più cosa pensare: ero terrorizzato e continuavo a ripetermi in mente il nome dell’uomo. Dupin, Monsieur Dupin. Poi, d’un tratto, mi ritornò alla memoria dove avevo già incontrato quello strano nome; era impossibile da credersi, ma si trattava dello stesso nome che avevo letto sul giornale dell’uomo con la pipa. Credo che si trattasse – anzi ne sono certo – dell’uomo che risolse il caso del truce delitto della via Morgue. “Un uomo dalle immense capacità analitiche” diceva il giornale.
Al terzo colpo sulla porta i gendarmi mi rimisero a sedere. La loro agitazione era tale che uno dei tre si prese la briga di sistemarmi i capelli ed il colletto della camicia, che nel frattempo mi era stata rimessa addosso.
“Aprite!” risuonò la voce; e la porta venne aperta.
Dalla parte opposta, ancora più incredibile a dirsi, con l’aria tranquilla ma severa al tempo stesso, stava l’uomo che avevo incontrato al bar: l’uomo con la pipa in bocca. L’uomo con la pipa in bocca, mi dico. Restò fermo sulla soglia e pronunciò qualche parola in tedesco. Fui fatto alzare. I due gendarmi, stranamente intimiditi da quest’uomo baffuto, mi slegarono e mi accompagnarono al bar. “Essen” disse uno prima di tornare dentro la stanza. Ordinò per me un caffè ed un panino e se ne andò.
Appena il soldato si chiuse dietro la porta scoppiai in una risata isterica. Non ci potevo credere, troppo stupide quelle guardie: erano cascate nel tranello di quell’uomo, Monsieur Dupin. Certo che quell’uomo è proprio uno stupido, non può essersi spacciato davvero per Monsieur Dupin. Quell’uomo un genio dell’analitica? Lui Monsieur Dupin? Non smetterò mai di stupirmi.
Sempre Tempelhof
Data sconosciuta
Ho perso il conto delle giornate passate in questo aeroporto. Non faccio una doccia da giorni e nessuno sembra volermi aiutare.
Ho deciso di ricominciare il mio diario perché non avevo altra soluzione alla noia e poiché, dopo averle provate tutte, non mi resta che accettare il fatto che forse non me ne andrò mai più. Le guardie mi hanno comunicato che tutti i voli per Parigi sono fermi per problemi di gestione delle piste di atterraggio. Mi hanno spiegato che fuori c’è fermento. Fermento, dico io. Maledetti tedeschi. Maledetti americani. E perché no, maledetto Dupin.
I giornali parlano di una possibile svolta di questa guerra silenziosa tra America e Russia.
Fuori si sente costantemente il rumore di aerei che arrivano ed atterrano. Eppure io sono ancora qui, unico rimasto. Le guardie mi hanno raccontato che in questo momento non c’è modo di far atterrare un aereo passeggeri in questo stupido aeroporto. Ci sono solo due piste, una di decollo ed una di atterraggio, lunghe poco più di 2.000 metri, e gli aerei cargo americani non accennano a rallentare la loro folle corsa. Ne atterra uno, ne parte un altro.
Solo un uomo, per mia fortuna, mi è venuto in soccorso, ed è proprio lui il motivo che mi ha spinto a ricominciare a scrivere su questo diario. Un ragazzo più che un uomo: americano, di bell’aspetto e con i denti ben dritti. Vestito da viaggiatore e con una postura che lasciava intravedere in lui una grande forza d’animo. Si è seduto al mio fianco.
“Buongiorno.” disse.
Ripensandoci ora, credo di non aver mai visto un ragazzo con una postura così impeccabile. Mi tese la mano con così tanta sicurezza da farmi sentire incapace di rispondere.
“Le dispiace se mi siedo al suo fianco?”
“Prego. Prego, signor…?”
“Jay Gatsby. Moto lieto. Anche lei in viaggio verso le Americhe?
“No. No. Io sono Godot. Niente Americhe” risposi.
Niente Americhe? Devo essere sembrato un perfetto idiota, dico io.
“Sa, io sono già stato in questo aeroporto” disse il ragazzo guardandosi attorno “da ragazzino, ero in viaggio da solo e arrivai qua proprio durante la festa d’inaugurazione di una nuova compagnia aerea. Una festa enorme, che mi colpì molto. Era il 6 gennaio 1926 credo, e la compagnia si chiamava Lufthansa. O qualcosa di simile”
“Molto interessante” risposi. Ero stupito dalla sicurezza emanata dal ragazzo. “Pensi che io sono bloccato in questo aeroporto e non ho ancora mai visto un aereo, mi crede? Sto aspettando di partire per Parigi” continuai.
“Capisco vecchio mio. Io sono in viaggio per tornare a casa, finalmente: New York City. Il centro del mondo. Sa, sono stato via molto a lungo. Ho viaggiato per mare, in compagnia di un marinaio. Ho attraversato i mari più imponenti, le tempeste. Ho visto molte cose vecchio mio. Ho visto la morte ed ho avuto paura, perché la paura è naturale. Ma sa cosa mi ha dato la forza di resistere? Lo sa? La speranza vecchio mio.”
“La speranza…” ripetei anche io inebetito dallo sguardo vivo di quel ragazzo.
Così lo lasciai parlare.
“Conobbi una donna prima della guerra, una donna con la quale condivido il mio destino. Il giorno che la conobbi sapevo già che baciandola sarei rimasto per sempre sposato a lei. Ed ora non mi resta che tornare a New York, e finalmente ritrovarla.”
A quel punto fui colto dal forte impulso di aiutare questo ragazzo. Dopotutto solo un pazzo avrebbe potuto sperare di andare a New York senza un centesimo in tasca a cercare qualcuno di casa in casa.
Gli spiegai quello che a parer mio era l’unico modo di trovare quella donna. Doveva solo ascoltarmi con molta attenzione.
“Ragazzo, vecchio mio” gli dissi. “Ascoltami bene: io sono Godot. Francis Godot. Attore. Sei fortunato ragazzo, perché ora ti svelerò qualcosa che solo Godot può svelarti.”
“Grazie Signor Godot ma..”
“Io sono francese, capisci? Parigi. Mi sembri un ragazzo coraggioso.”
“Lo sono, vecchio mio.”
“Sì, bravo. Dicevo: mi sembri un ragazzo coraggioso e voglio aiutarti. Io ho una soluzione. Una soluzione per te, capisci? La metterò giù semplice quindi sta molto attento. Dunque: tu ora tornerai in America. Ti darai da fare e metterai via tanti soldi in poco tempo. Tanti soldi, capisci? Poi ti farai costruire una casa enorme a Long Island, esattamente sulla riva opposta a quella del buzzurro che sta con la tua donna. La casa dev’essere enorme, più grande della sua, capisci?”
“Ma Signor Godot..”
“Bene. Poi, sul molo rivolto verso la casa di lei, posizionerai una luce verde che ogni notte e ogni giorno, in continuazione, richiamerà la sua attenzione. La dovrà ipnotizzare con la sua bellezza, come se dentro a quella luce verde ci fosse la tua voce che la chiama di continuo; finché non sarà lei stessa a venire da te. Lei verrà da te, capisci?”
“Sì vecchio mio, ma se lei non venisse? Non faccio prima ad andare io a bussare alla sua porta? E soprattutto: chi ha detto che lei viva con un buzzurro in una casa enorme sulla riva di Long Island?”
Questi giovani non capiscono niente.
“Beh tu ascoltami. Io ne so di queste cose. Mal che vada, fai così: ogni mese, nella tua villa, organizzerai una festa alla quale inviterai tutta New York.”
“Tutta New York City?”
“Sì sì, tutta New York. E prima o poi, o poi e prima, fidati di me: arriverà anche lei”
Il ragazzo improvvisamente si irrigidì ed afferrò con forza la sua valigia.
“Lei è pazzo, vecchio mio. Come crede che io riesca a fare qualcosa del genere? Mi ha visto? Io sono un ragazzo senza nulla se non l’amore per una donna. Lei dovrebbe essere rinchiuso in un manicomio, Signor Gorot.”
“Godot. Signor Godot, per Dio!”
Dopo l’incontro con il giovane Gatsby che, devo ammettere, mi stava anche simpatico, sulle pagine del mio diario non vi è più nulla. Quel che ricordo è che mi svegliai a casa mia, sul mio letto, a Parigi.
Aprii gli occhi, senza capire cosa stesse succedendo. La testa mi rimbombava senza pietà. Fortunatamente le finestre non lasciavano passare molta luce. Ricordo che riuscii a tenere le palpebre abbastanza aperte per rendermi conto che nella stanza, oltre a me, c’era qualcun altro. Non riuscivo a vedere chi fosse, così cercai di concentrarmi sugli altri sensi e nel fare questo, non lo dimenticherò mai, sentii il forte odore di tabacco da pipa. E subito dopo, una voce.
Era Monsieur Dupin, che con la tranquillità che lo distingueva, mi raccontò ogni cosa. Mi disse che ero stato vittima di uno sfortunato errore.
“Come ricorderà bene” disse “io e lei ci siamo incontrati al bar dell’aeroporto mentre io leggevo il giornale. Forse però non ricorderà con la stessa chiarezza che, al tavolino a fianco, era seduta una donna con un grande cappello in testa.” Ed effettivamente non lo ricordavo affatto.
“Il suo nome è Anna Karenina ed è la stessa donna con cui lei ha parlato poco prima di essere colpito dalle guardie. Ma dubito si ricordi di tutto questo.” Poi proseguì nella descrizione.
“Mi perdoni questi preamboli, ma sono necessari perché lei capisca. La signora Karenina, a differenza di quel che si possa credere considerati i suoi modi molto delicati, non è altro che una spia russa; con la scusa di un tradimento verso il marito è riuscita a sviare ogni sospetto agl’occhi di tutti. Dopotutto, chi sospetterebbe mai che una donna incapace di nascondere un tradimento possa vantare delle abilità legate allo spionaggio?” diceva.
Mi raccontò di come un complice della Karenina, un certo Alec Leamas, durante la mia prima notte avesse scambiato i nostri documenti per far ricadere la colpa di uno sventato attacco terroristico su di me. Su di me, dico io. Maledetti sovietici.
“Fortunatamente” mi spiegò Dupin “io ho assistito a tutta le scena e, poco dopo il nostro incontro e dopo essermi accertato che lei fosse veramente il Signor Godot, ho incaricato Artful Dodger, un ragazzo molto scaltro e dalle doti sottovalutate, perché le rubasse il portafogli con il documento scambiato. Ora, ricorderà quando le guardie l’hanno fermata dubitando di lei, giusto? E ricorderà anche che, ad un certo punto, il mio intervento le è stato di grande aiuto: in quel momento però non mi trovavo ancora in possesso del suo reale documento d’identità, ma possedevo solo quello dell’agente Lemas, ed è per questo motivo che non le fu possibile andarsene per molto tempo.
Sfortunatamente non siamo ancora stati in grado di recuperare il suo portafogli. La signorina Karenina infatti, pur di non rivelare l’identità del proprio complice, si è tolta la vita gettandosi sotto ad un treno poco prima che potessimo interrogarla. Ma ora arriva la parte più intrigante Signor Godot: per riuscire a nascondere le sue tracce alle guardie sovietiche, che la cercano per ucciderla avendola scambiata per una spia al servizio degli Stati Uniti, siamo stati costretti a crearle una nuova identità.”
Fu allora che la mia vita cambiò definitivamente. Che iniziai a nascondermi dietro al volto di una persona che non ero. Un alter ego che mi avrebbe mascherato per sempre al resto del mondo.
Fui riconoscente al Signor Dupin fino al giorno della sua morte, anche se non vidi mai più i soldi del mio champagne.
Venni a saper che Gatsby era riuscito nel suo intento, diventando l’uomo più famoso di New York. Anche se lui non dichiarò mai chi fu l’artefice delle sue migliori idee.
Andai al funerale di Artful Dodger, assassinato per aver intralciato i piani sovietici.
Assistetti allo spettacolo di fama internazionale “Aspettando Godot”. Senza però potermi presentare con il mio vero nome.
Ora il mondo mi conosce come un uomo diverso, come un uomo comune che se ne va in giro per le strade della città senza che nessuno lo riconosca. Un uomo senza nome, senza identità. Di me non resta nulla se non questo diario, che ho deciso di condividere con voi tutti. Non restano che queste parole, testimoni di una storia assurda, pubblicate nella speranza che un giorno qualcuno, seduto ad un bar, faccia rivivere la mia storia.
La storia di Godot. Francis Arnauld Godot. Attore.
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