Era arrivato ad una grande svolta del sentiero. In quel punto preciso del bosco, la viottola che serviva da collegamento tra i due borghetti spianava leggermente, si allargava e lasciava molto spazio all’immaginazione; un po’ meno alla giustizia, che da quando la terra è calpestata da passi d’uomo, tende a ragionare secondo traiettorie perpendicolari, raramente curvilinee o concentriche.
La luce del primo giorno cominciava ad irradiarsi gentilmente tra i germogli, mutando il corso degli eventi e cambiando il tono alle foglie di quella primavera bislacca, bagnata e fredda. I colori del bosco iniziavano a farsi più accesi e sinceri lungo la vecchia strada e i muretti a secco dei campi, distesi a sprigionar rugiada.
La foresta avvertiva il risveglio, lo percepiva chiaramente sotto la folta pelliccia. Attorno a lui, alle sue corna e alle sue zampe corte, da fronda a ramo, da mallo a radice, la vegetazione virava lentamente dalle cento sfumature del grigio alla gioia feroce della clorofilla. Intanto, lui riprendeva fiato.
C’è qualche cosa di magico nel momento del risveglio di un bosco; il passaggio da una fase all’altra del mondo nel lento ruotare degli equinozi è un moto obbligato della crescita e dell’evoluzione delle cose. E il mostro lo avvertiva, chiaro sotto la pelle ispessita dalle stagioni passate a contare le stelle del firmamento, o meglio: di quello spicchio di cielo sempre uguale e diverso che ogni notte, dal tramonto all’alba, si mette a ruotare sopra la Valsaviore.
La luce cresceva, il sentiero restava deserto: gli uomini quell’anno avevano altro a cui badare, altre voci e lezioni parlanti del mondo da apprendere. Lontano dalle loro calde case, il pallore del primo mattino a poco a poco prendeva confidenza con il suo pelame folto, nocciola e leggermente irsuto.
La sensazione di vuoto era un’attesa sospesa tra i rami dei castagni: mentre la notte consegnava con garbo e rassegnazione il testimone al giorno, il sentiero già vuoto sembrava ingrandirsi. Sembrava assumere i lineamenti propri di una strada, con il comparire delle tracce dei copertoni e delle buche lasciate dallo scavare di gomme e di acqua. il buio fitto e denso che aveva riempito le ore notturne dava finalmente spazio al chiarore della vita per come la conosciamo, o per come c’illudiamo di conoscerla.
Nella foresta di latifoglie gentili, tutto taceva. Non una foglia di nocciolo vibrava nell’aria, nemmeno la primula emetteva un sussurro nello schiudere la corolla al giorno. Il bosco era permeato da quel silenzio arcano e profondo che assume la vegetazione al passaggio del mostro. Tutto si offriva muto alla creatura rimasta immobile nello slargo del sentiero, anch’essa in silenzio, fremente ed esitante mentre le gocce della notte evaporavano dal manto castano chiaro, a tratti fulvo.
Il Badalisc sentiva che il tempo di girare incolume, libero e in ascolto per le vie del bosco terminava lì, nell’istante preciso in cui la viottola si faceva strada con l’arrivo grigio e mesto del nuovo giorno.
Il mostro alzò greve lo sguardo, piegando all’indietro l’enorme testa cornuta, sproporzionata rispetto al tronco tozzo. I suoi occhi si addentrarono nel folto, tra le foglie rade di quell’aprile freddo e spoglio. Tracciando con la vista curve di velluto, la creatura seguiva, come per gioco, i rivoli di fumo uscire dai comignoli delle case a valle. Il paese si era svegliato e con lui le stufe, gli impianti di riscaldamento e l’anidride carbonica che di lì a poco il bosco si sarebbe rimangiato.
Il mondo degli uomini, come ogni mattino, si stropicciava il muso nelle lenzuola, spegneva il trillo metallico delle sveglie, intingeva rabbioso i biscotti nella tazza di caffèllatte fumante. Un mondo fatto di umanità cangiante, sempre più colorata ed elettrica, magari ora anche un po’ meno incline a nascondere i propri segreti. “Che ne sarà di me, quando tutti racconteranno tutto?!”
Il mostro si scosse, lasciò che il filo di una ragnatela si poggiasse sul suo corpo bitorzoluto e poi, con un sussulto d’animale ferito, chiuse gli occhi di brace per rituffarsi nel verde eterno del bosco.
Aveva avuto un nome proprio, unico ed intimamente suo, ma lo aveva scordato. Come tutte le cose più belle, era andato perduto qualche secolo prima. Quando gli anni si accumulano come la polvere sotto il tappeto e il cardine del mondo permette alle costellazioni di vorticare nel cosmo, allora ecco che le stagioni mutano in secoli. E i secoli in storie, le storie in leggenda e i nomi propri delle cose cadono sepolti nell’oblio.
Il Badalisc non aveva più un nome proprio, né tantomeno si ricordava perché il mondo degli uomini gli avesse affibbiato quel nominativo. Un appellativo asciutto, sfuggente, come una lisca di pesce che ti scivola veloce tra i denti. Non avendo un nome tutto suo, non conoscendo nemmeno l’origine della parola usata per chiamarlo, il Badalisc si sentiva spesso incompleto.
Quando questa sensazione di assenza incisiva si faceva più forte, il mostro prendeva a vagare per intere notti nel bosco di antichi castagni. Gemendo alla luna, la creatura si spingeva fino alle conifere poco sopra: osservava, prendeva nota e continuava imperterrita a cercare.
Non gli altri, non la compagnia remota dei suoi simili, ma la cosa più sfuggente di tutte. L’elemento in grado di riunire persone e al contempo di separare famiglie. Il punto culmine di ogni racconto, la base di ogni nostra ricerca: la verità.
Tra le fronde del bosco di Andrista, in quella frazione dimenticata da tutto e forse persino un poco da sé stessa, la creatura pelosa si faceva schiva e lasciva nelle leggende locali; per una notte all’anno, seguendo scrupolosamente la tradizione, la sua ritrosia si tramutava in quel desiderio beffardo di spavalderia goliardica per il quale era conosciuto anche a valle. Per una sera soltanto, all’inizio di gennaio, il Badalisc veniva catturato e portava in piazza un discorso imbastito in rima, dove sbugiardava ogni segreto del paese, riuscendo a far tremare e ridere tutti, anche i bambini.
Ma per il resto dell’anno, la creatura tornava silenziosa, lesta e furtiva. Guardingo, il Badalisc di Andrista accoglieva ogni giorno come una rivelazione; ascoltava i commenti delle vecchiette, appostandosi sotto le finestre dalle tapparelle abbassate. Si annotava mentalmente gli improperi lanciati di nascosto ai vicini di casa, i sospiri funesti degli amanti – legittimi e non – categorizzava con cura e fedele precisione ogni atto nella propria mente di animale cornuto.
Si rimpinzava di aneddoti, dicerie e fatti reali ai quali riusciva ad assistere in presenza, grazie a quel dono immenso che, insieme alla capacità di ascolto e alla memoria, Madre Natura gli aveva fatto: la quasi totale ubiquità.
E così il mostro, nei secoli si era trasformato in collezionista di storie più o meno felici. Collezionava pettegolezzi, piccoli scempi del quotidiano, azzardi e ripicche. Così, da sempre; perché il virus poteva aver fermato per un poco il mondo, ma non le gesta incaute dei furbi, o il giudizio iracondo dei giusti. La pandemia gli uomini li aveva solo chiusi in casa, costringendo lui e la sua grossa stazza a strisciare radente i muri per riuscire ad impossessarsi d’un segreto, dell’ultima briciola di un discorso.
Semi-nascosto dal giallo della forsizia, l’afrore di bestia coperto dal profumo incantevole del calicanto, il Badalisc aveva continuato a prestare ascolto alle parole degli uomini e delle donne di Andrista, così pure come alle loro televisioni. Così facendo, fruga che ti fruga, era venuto a sapere che il regista di un Paese lontano si era appassionato alla sua storia, alla tradizione della sua cattura e del suo discorso ogni 5 di gennaio. Il regista ora lo voleva ritrarre in un cartone animato.
Quale delle sue mille facce avrebbe mostrato? Questa domanda restava in agguato nella sua testa sempre vigile, facendogli partire ogni tanto un lungo brivido gelato lungo la schiena.
A giugno può piovere in eterno, in Valle Camonica. Le giornate si trascinano simili per gli uomini, da sempre affannati nelle mille corse e nei tanti segreti del quieto vivere. Mentre nei paesi sui versanti della vallata e in quelli adagiati sul fondovalle la vita scorre, s’inceppa, rallenta e poi riprende incredula i propri inciampi, nel bosco trionfa il verde.
Ad ogni lauto scroscio temporalesco coincide puntuale un’esplosione di vegetazione. E tra quel rigoglio di muschio e clorofilla ci sono viaggi e carovane d’insetti, cucciolate di cinghiali e intrepidi passaggi di arvicole. Qui, il Badalisc resta seduto, assorto a contemplare la riva del torrente.
Gennaio, la caccia lungo mulattiere e sentieri da parte di quegli uomini mascherati… le loro scope di saggina, il secchio di acqua per ripulire il percorso, le finte sgualdrine pronte ad addescarlo ogni anno nella stessa trappola… tutto questo ora sembra lontano, come un tributo pagato ad un dio pigro e remoto.
Adesso è quasi estate e il mostro cerca di raccogliere il proprio riflesso nell’acqua corrente. L’udito finissimo gli restituisce i racconti di chi inganna, deruba, tradisce, promette e mantiene. Mentre il torrente fa gruzzoli di foglie e gusci di lumaca, le orecchie del Badalisc, volenti o nolenti, registrano anche confessioni d’amore e frasi di tenerezza che dalla bocca di una generazione vengono poggiate sulle labbra della successiva. Questa dolcezza la tiene per sé: non andrà nel calderone del suo discorso, tradotto ad arte nella lingua degli uomini dalla persona che ogni anno gli fa da interprete in quel rituale pagano di catarsi collettiva.
Le chiacchiere si accumulano nel suo enorme testone e nel frattempo aumenta la sua sete. Quell’arsura profonda e selvaggia lo prende di nuovo: è un desiderio immenso di scandagliare i segreti del mondo. Non tanto per restituirli agli umani, nel vano tentativo che ad ogni gennaio questi si rinnovino dopo avere appreso dalla sua bocca vorace tutte le malefatte passate.
Il mostro spera, nel suo grande cuore peloso, di poter indagare ancora e ancora e poi nuovamente ogni angolo di voce di questo assurdo mondo. Sotto di sé l’acqua scorre, le parole restano, in quel tentativo sempre bello e autentico di scavare sul fondo più torbido per portare a galla la più scomoda delle verità. E così facendo, provando e riprovando, magari in quelle storie ritrovare anche un pezzetto della propria identità perduta. O anche solo di quel nome proprio, ormai da troppo tempo dimenticato, sul fondo di chissà quale torrente della Valsaviore.
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