OST è stata per diversi anni una rubrica ideata e curata da Mattia Grigolo, apparsa su Soundwall Magazine. OST ha raccontato i film attraverso le sue colonne sonore.
Ora è su Yanez.
La musica
È il 2011, sono in casa di un amico. Come spesso facciamo in quel periodo durante le nostre serate insieme, beviamo della birra e guardiamo delle cose sul web.
Prevalentemente porcheria a caso; videoclip di musica che non ascolta nessuno oppure video amatoriali di gente che si fa del male in modo stupido. Streaming di film low budget e low resolution.
Il mio amico fuma tabacco sporcato di hashish scadente. Ha installato una fila di neon azzurri e verdi lungo il perimetro del soffitto della sua stanza.
Per un soffio non rientriamo nella generazione dei Millennials, la guardiamo con invidia e ne emuliamo le caratteristiche più superficiali, quelle che abbiamo appreso da Wikipedia. Come dei settantenni con le sneakers.
Poi lui mi chiede se ho mai sentito parlare di Oneohtrix Point Never e gli dico che no, non ne ho mai sentito parlare. Allora lui carica un video su youtube. La canzone s’intitola Sleep Dealer.
Mi dice, guardalo.
Ancora oggi, trovo grande difficoltà nel riuscire a descrivere a parole quel video, come anche, in parte, ho la stessa difficoltà nel descrivere quasi l’intera produzione del compositore americano. C’è un motivo.
La musica di Daniel Lopatin, vero nome di Oneohtrix Point Never, è composta per essere soggettiva. Potrei spiegarlo prendendo come esempio il concetto di bellezza. Esiste una bellezza oggettiva e una soggettiva, però anche la bellezza oggettiva diventa, destrutturandola, soggettiva. Se non ci si ferma alla pura essenza estetica, ma si taglia fetta su fetta il significato di bello, ci rendiamo conto che la perfezione e l’imperfezione si mischiano, addirittura si fondono, e il concetto iniziale di distinzione netta tra bello e brutto si annienta.
Ecco, io credo che la musica di Lopatin sia concepita, in qualche assurdo modo, per essere destrutturata ad uno stadio personale ancora più profondo di quello canonico. Insomma, quanti stadi del personale possiamo scendere, oppure salire? Infiniti.
È vero, tutta la musica nasce per essere apprezzata a livello individuale, anche se poi raggiunge degli standard di gradimento pubblico, quindi valutata in percentuale.
La musica di Lopatin riesce a scendere ancora di più – o a salire – e si trasforma, avvicinandosi molto all’idea dell’osservazione, piuttosto che dell’ascolto. Anzi, ancora meglio, della percezione.
Devi essere molto bravo a descrivere chiaramente qualcosa che riesci solo a percepire ed io, evidentemente, non lo sono.
Le immagini
Heaven Knows What, lungometraggio datato 2014 scritto e diretto da Josh e Benny Safdie, mi ha stritolato le viscere. Uno dei pochi film che, arrivato ai titoli di coda, avrei immediatamente riguardato dall’inizio. Ma con Heaven Knows What, non si può. Devi prenderti il tuo tempo per risalire da dove ti ha portato.
Quando è uscito Good Time, nel 2017, ho avuto seri problemi a convincermi nel guardarlo. Questo per due motivi: il primo è Heaven Knows What, il secondo è la colonna sonora di Oneohtrix Point Never.
Il cinema dei fratelli Safdie, parallelamente alla produzione musicale di Daniel Lopatin, cerca la sua forza nell’immagine in quanto messaggio diretto con la parte più recondita dello spettatore. Per fare un esempio, mi viene in mente Gaspar Noé che, a parte giusto qualcosa, punta sull’effetto immediato dell’immagine, sull’opera d’arte vista partendo dall’esterno verso l’interno. Ecco, i Safdie, pur restando su una linea di cinema simile, partono già da dentro il pozzo. I primissimi piani sono esagerati, volutamente sbagliati, i colori e i contrasti sono accesi oltre il limite, quasi a bruciare.
Le rare volte nella vita in cui sono riuscito a fermarmi abbastanza a lungo per fare un pensiero completo su di me, sul mio carattere e la mia personalità, mi sono accorto di quanto sia debole il mio istinto a non cedere alla sensibilità instabile che mi avvolge da quando ho memoria.
Se sei una persona sensibile cedi all’istinto di cedere, se sei un instabile sensibile, corri. Scappa. Questo mi porta a creare un muro, uno stupido scudo attorno a me.
Dunque ho pensato: il primo film mi ha letteralmente ucciso, il secondo sarà un film più maturo, con una consapevolezza maggiore. Ok. Poi, la colonna sonora è di Oneohtrix Point Never.
Boom. Un casino.
Alla fine, però, vince sempre l’altro istinto: la curiosità, che ci costringe, anche se non lo vogliamo, a spiare dentro le ambulanze quando sono sulla scena di un incidente, a stare in piedi di fianco al bagnino mentre fa un massaggio cardiaco, consapevoli di non poter fare nulla, e guardare la morte che arriva tifando per se stessa.
Il dolore e la paura altrui ci sfamano.
Così, alla fine, ho guardato Good Time.
Good Time
Non mi sono stupito quando ho letto che la colonna sonora di un film dei Safdie Brothers era stata composta da Oneohtrix Point Never. Anzi, l’ho trovato giusto.
Mi sono fermato e ho detto: certo, come poteva essere altrimenti?
I primi quindici minuti del film sono disturbanti. Sei lì a chiederti come si possa arrivare a così tanta ansia. In fondo non sta accadendo nulla di estremamente violento o drammatico.
Nella prima parte un ragazzo (interpretato da Benny Safdie) siede a colloquio davanti ad uno psichiatra, il quale gli pone semplici domande. Il ragazzo, evidentemente ritardato, risponde con difficoltà.
Un ragazzo entra nella stanza, interrompendo bruscamente la seduta, e porta via il fratello minore.
Nella seconda parte i due fratelli compiono una rapina in una banca, scappano, uno dei due – quello con il ritardo – viene preso dalla Polizia. Fine.
La potenza di queste immagini sta nella capacità dei registi di comprimere le emozioni dello spettatore come in una vertebra, attraverso le inquadrature e i dialoghi.
Mettiamola così, immaginate un’emozione negativa rinchiusa in uno spazio angusto. Immaginate di non avere nessuna possibilità di farla esplodere per poi eliminarla.
La grande capacità di Joshua e Ben è proprio questa: il non lasciare spazio vitale, la claustrofobia delle inquadrature, i primissimi piani volutamente sbagliati, i colori che bruciano e s’impastano.
È come nuotare in una vasca colma di olio.
In questo pozzo denso Lopatin trova il suo habitat ideale. La sua capacità, il suo imprinting musicale, il suo disturbante estro, si sputano fuori con una semplicità rara. Danno ancora più peso ad una cosa che già di per sé è un macigno.
Ascoltando le tredici tracce che compongono l’opera, non può non venire alla mente Carpenter: il lavoro sui synth – iniziato dai precursori Tangerine Dream, che hanno utilizzato le macchine come fossero chitarre elettriche – è imperante. Un lavoro che fa parte di tutta quella corrente contemporanea promossa – iniziata? – da Johnny Jewel e, in parte, dalla sua Italians do it Better, ma uscito per Warp Records e, soprattutto, vincitore del premio come migliore colonna sonora al Festival di Cannes del 2017.
È risaputo che i lavori di Oneohtrix Point Never sono basati quasi interamente su un lavoro di synth vintage e viene confermata, con questa colonna sonora, la capacità di Lopatin di sapersi destreggiare egregiamente nell’ambito della musica per film.
Ciliegina sulla torta o colpo di marketing, la collaborazione con Iggy Pop nella traccia composta per i titoli di coda del film, The Pure and the Damned.
Nota di rispetto per il videoclip, veramente bello, in cui un Robert Pattinson (il vampiro bellissimo della saga di Twilight e protagonista di Good Time) affianca un Iggy Pop computerizzato. Alla regia i fratelli Safdie, ovviamente.
Probabilmente è soprattutto grazie a questa collaborazione che si è arrivati alla vittoria del premio a Cannes.
Il vero colpo di genio è che, a contrapporsi alle immagini oppressive di cui abbiamo già parlato in precedenza, le musiche di Lopatin sono dei campi aperti. Il sintetico si allarga, creando paesaggi spesso infiniti che vanno a contrapporsi all’ossessione per il chiuso e il pesante.
Nei biechi punti di sfogo del film – vedi le geniali inquadrature aeree dell’auto che percorre le strade di New York – la musica diviene più ossessiva, ripetitiva, pure sempre allargandosi, generando una speranza emotiva spezzata e zoppicante. Acida.
Come spesso accade nelle colonne sonore ben riuscite, la vittoria sta nel saper dare il giusto spazio al suono, senza che copra l’immagine, ma che anzi la renda inconfondibile, tenendola appiccicata alle al ricordo dello spettatore, perché è proprio lì, nell’attimo in cui tutto s’incolla, che abbiamo il vero punto di rottura.
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