Illustrazioni di Francesco Gulina
Cappie Pondexter deve aver visto la vita intera passarle davanti quando Penny Taylor e Diana Taurasi si sono contemporaneamente scagliate su di lei, accerchiandola l’una da sotto canestro, l’altra direttamente da centro campo, e l’hanno spintonata fino a farle prendere posto accanto al pubblico della prima fila.
È l’ottobre del 2010, siamo in casa delle Phoenix Mercury, la squadra di WNBA in cui militano Penny Taylor e Diana Taurasi. Si affrontano le Mercury vs le Liberty di New York. Fino alla stagione precedente anche Cappie Pondexter ha vestito la maglia delle Mercury e le tre giocatrici, insieme, sono state le stelle che hanno portato a Phoenix due titoli WNBA, nel 2007 e nel 2009.
È sufficiente cercare su Google “Taylor Taurasi Pondexter” e ecco apparire immagini delle giocatrici che saltano a centrocampo gaudenti o sono in posa davanti alla macchina, truccate e acconciate per l’occasione. Lo scheletro nell’armadio di una relazione che fino a quel momento si presume perfetta compare alla posizione numero quattro del ranking. Si tratta del video in questione dove la Pondexter ha peccato di Hybris pensando di poter sfidare non una, ma due divinità.
Penny Taylor e Diana Taurasi infatti sono due delle giocatrici più forti che il circuito del basket femminile abbia mai avuto l’onore di vedere in azione sul campo. Inoltre le due donne erano (e sono) in una relazione sentimentale affiatata dentro e fuori dal perimetro di gioco.
Il fatto
La Taurasi sta attaccando il centrocampo di ritorno da un contropiede a velocità media. Come da manuale, la Taylor corricchia sulla fascia di sinistra per ricevere un eventuale passaggio dalla sua compagna. Lo scarico quindi arriva – chiunque nella confusione della folla cerca sempre e prima di tutto il suo innamorato –, così Penny attacca il canestro in un rilassato terzo tempo da sinistra che termina con un tiro come al solito elegante mentre il tentativo di stoppata da parte di Pondexter, volente o nolente, si trasforma in una manata in faccia.
La Taylor rovina per terra, Pondexter la ignora totalmente contravvenendo alla regola del savoir faire del basket – se ne butti giù una, almeno aiutala a alzarsi.
Quindi la giocatrice delle Liberty raccoglie la palla da terra e si volta dall’altra parte cercando di trattenere il suo sorriso interiore, senza notare però che, alle sue spalle, la Taylor si alza da terra fuori da ogni grazia divina mentre, sull’altro fronte, la Taurasi si catapulta da centrocampo come una valchiria che scende a cavallo giù per il monte con tanto di Wagner in sottofondo.
La Taurasi spintona, la Taylor anche e, se non fosse che l’arbitro le divide, una tranquilla partita della domenica pomeriggio si trasformerebbe in un incontro di MMA.
L’invitata si è dimenticata le buone maniere.
Pertanto le due padrone di casa l’accompagnano subito alla porta.
Ecco, in breve, la prima rissa dentro un campo da basket femminile che ho visto autopticamente senza avervi partecipato in prima persona.
Questa azione epica non smette mai di emozionarmi, come il passaggio con la P maiuscola di Michael a Steve (e se non sapete perché sto usando solo i nomi propri, è il caso che diate un’occhiata a questo) oppure Zanda che realizza i primi due punti della sua carriera in WNBA.
Il video in questione è uno degli highlights che prima o dopo mostro a chi vuole capire cosa è per me la pallacanestro femminile. È il mio tentativo di dire: se mi vuoi conoscere, devi avere a che fare con questa roba qui. Per sempre.
In tre secondi di azione si svolge la narrazione della mia esperienza cestistica – grandezza, sbaglio di mira, Penny Taylor.
Terminus post quem
Esiste un evento dopo il quale la traiettoria della mia storia di giocatrice di basket è cambiata. Intorno ai tredici anni mia madre e mio padre decidono che la solita vacanza estiva dai miei nonni in Liguria si sarebbe trasformata in una permanenza sine die. Nel giro di poche settimane otteniamo il nulla osta per la scuola e, grazie a un passaparola che origina dal mio allenatore della Gimar Catania, riusciamo a trovare una squadra di ragazze nelle vicinanze di Sarzana, in provincia di La Spezia.
Quando arrivo alla Anthares Romito sono una ragazzina corpulenta e silenziosa a cui piace vincere le partite, a cui piace segnare i canestri decisivi e abbassare lo sguardo a terra per l’imbarazzo. Una foto che ci ritrae nello spogliatoio, dopo una partita, mi vede in fondo, dietro tutte. Sono ingobbita, ho un sorriso appena accennato – le mie compagne sono buttate le une sulle altre, con le gambe all’aria o incrociate, mentre io sto seduta per terra, con un braccio sulle ginocchia come una figura marmorea di un frontone di un tempio greco che è messa lì a riempire uno spazio angusto.
Le stagioni che vanno dai tredici ai quindici anni trascorrono con qualche piccola soddisfazione, come spesso accade in una squadra di medio livello a quell’età: si vince, si perde, soprattutto si esercitano i fondamentali. Quindi palleggi con la sinistra e la destra senza soluzione di continuità, esercizi di tiro da ogni mattonella del campo mentre sul piano tecnico si inizia a fare amicizia con gli schemi di gioco. In questo modo la pallacanestro da gioco istintivo si trasforma gradualmente in un sistema ordinato di passaggi precisi che si susseguono fino a quando non si trova la via intelligente e veloce per attaccare il canestro. La Anthares è una squadra mediocre ma noi ci prendiamo le nostre soddisfazioni, io intanto imparo la responsabilità di fare un passo avanti quando le compagne me lo chiedono. Il campionato in Liguria infatti non è dei più difficili, ma la grande squadra imbattibile è La Spezia. Il quintetto di partenza è composto da sole ragazze che si allenano con la prima squadra, la Termomeccanica La Spezia, che milita in serie A1.
Trascorrono così due anni, fra piccoli miglioramenti e ragazzine che perdono gradualmente interesse per lo sport, soprattutto quando il prezzo da pagare è partire il sabato pomeriggio su un pulmino alla volta di una palestra gelida e con il campo in cemento ricoperto da un sottile strato di gomma impolverata.
È intorno ai quindici anni che le cose cambiano, quando sulla panchina arriva un uomo mite che però, come molti altri allenatori, non riesce a comunicare il basket senza urlarlo. Quell’anno lo trascorro a palleggiare avanti e indietro per il perimetro della palestra, a rinforzare l’abilità della mia mano sinistra. Il nostro quintetto di partenza è debole e talvolta è già un miracolo se riusciamo a superare la metà campo, allo stesso tempo non penso a altro che alla palla a spicchi e inizio a fantasticare su una vita da sportiva professionista. Perdiamo quasi tutte le partite, ma il tacito accordo con l’allenatore è che io ripeta i fondamentali in silenzio e che, a tre secondi dalla fine di un’azione d’attacco, la palla torni in qualche modo fra le mie mani per il tiro decisivo.
Alla fine di una stagione in cui mi rafforzo molto, soprattutto sul piano emotivo, l’allenatore convoca i miei genitori e li informa che io, su quel campo, non ho più niente da imparare. Esiste solo un logico passo successivo: mandarmi a giocare nella squadra giovanile di La Spezia.
Da lì a qualche giorno mi ritrovo in un palazzetto con un campo in vero parquet a fare uno di quelli che si chiamano allenamenti di prova. Mio padre è in visita da Catania, così mi accompagna e si siede sugli spalti a aspettare come me che avvenga qualcosa.
Cubo e sfera – Le ragazze di La Spezia sono diverse dalle mie compagne di squadra. C’è un’allegria in loro, mista a serietà, che mi è nuova. Sono scherzose, fanno battute da insider, ma quando tirano a canestro sono concentrate come se non ci fosse nient’altro di più importante nell’universo che mettere a segno quei due punti. Io le osservo dall’altra metà campo, quella deserta, e ascolto con attenzione mentre tiro a canestro da sola. Stanno parlando di una partita: Mery è stata infinita come sempre e una certa Monica ha fatto tornare a casa la sua avversaria con i segni delle dita stampate da tutte le parti.
Chi è Mery, mi chiedo? Chi è Monica? Non passerà molto prima che lo scopra.
Quando l’allenatore arriva in campo le ragazze si fanno serie, si stringono in un capannello attorno a lui e ascoltano attentamente – fino a quel momento nessuna ha dato cenno di essersi accorta della mia esistenza. In breve ci viene esposto l’allenamento, ci mettiamo subito a lavoro. Mi bastano pochi minuti di riscaldamento per notare gli abissi tecnici che ci separano. I loro fondamentali di passaggio e palleggio sono raffinati, in campo vige un ordine gestito con maestria dal playmaker, che aumenta o rallenta il ritmo di gioco in base alla lettura delle situazioni. I ruoli delle giocatrici all’interno delle squadre sono stabiliti in modo definito e io, che fino a quel momento ho coperto la posizione da uno a cinque in base alle necessità di gioco, mi trovo senza un posto a cui tornare ogni volta che la mia squadra prende il possesso della palla.
«Tu», mi chiamano, e io non rispondo, inconscia che si stiano rivolgendo a me. Per imparare il mio nome ci impiegheranno qualche settimana, ma quando sono più avanti di tutte, la palla mi arriva fra le mani con un passaggio perfetto.
Siamo nel 2000. La mia vita è quella di una liceale di provincia come tante. Quell’anno in classe cominciamo a leggere le Bucoliche di Virgilio e a studiare la scuola di Mileto. Ogni mercoledì pomeriggio vado in edicola a comprare Superbasket, un settimanale di approfondimento sulla pallacanestro, in cui scopro nomi di giocatrici, squadre, brevi notizie sulla nazionale femminile che soffre molto, vince pochissimo. Tutti i lunedì, mercoledì e venerdì subito dopo la scuola vado a La Spezia in bus per gli allenamenti, il sabato si gioca. I miei compagni di classe iniziano a mettere su band e a suonare nell’unica sala prove di Sarzana, si passano i CD masterizzati dei Nine Inch Nails in cortile, la mattina prima dell’inizio delle lezioni, indossano t-shirt di Nevermind. Il sabato si vedono dietro HP, che è una specie di parco in un parcheggio nei pressi di una jeanseria storica di Sarzana. Qualcuno inizia a fumare sigarette durante la ricreazione. Quando passo accanto a loro trattengo il respiro. I miei polmoni da sportiva sono sacri, penso.
Il senso di appartenenza è riuscire finalmente a prendere posto nel profilo di un’ombra che corrisponde esattamente ai limiti del nostro corpo. È come il cubo che nei giochi dei bambini entra solo nella forma del cubo e da nessun’altra parte. Riuscire a entrare da qualche parte è lo scopo più importante di una ragazza di quindici anni, il problema è quando nella stessa persona convivono gli angoli del cubo e le curve della sfera.
Il continuo stato di sospensione fra la vita a scuola che procede a un ritmo sincopato – i compagni di classe cambiano nei gusti e fisicamente, i programmi scolastici avanzano – e quella sportiva che è sempre uguale a se stessa – ripetere lo stesso esercizio, lo stesso fondamentale di nuovo e ancora fino a raggiungere la perfezione – alla lunga spezzano in due. Se hai quindici anni e ti sta succedendo questo, molto probabilmente non ti starai sentendo a tuo agio da nessuna parte, ma anzi continuerai a ricercare sempre un momento che non è quello che stai vivendo, ma quello che potresti vivere se.
Area piccola – In maniera del tutto imprevedibile, un giorno, le ragazze mi hanno chiamata per nome e da quel momento in poi non hanno più smesso di farlo. E non era fortuna né una logica conseguenza del tempo trascorso in una comunità in cui ogni individuo ha ovviamente un nome proprio. Si trattava di un simbolo di fiducia conquistata sul campo, in cui ogni piccolo miglioramento veniva notato e annotato da qualche parte nella loro mente. Da adulti ci dimentichiamo di quanto possiamo essere stati crudeli e integerrimi da ragazzini. Su quel campo non c’erano favori né simpatie: se una aveva una giornata storta, si cominciava piuttosto a passare la palla a quella che era in partita. E così era meglio essere in partita il più spesso possibile.
Vincevamo tanto e bene. Io avevo scoperto la mia posizione, che era quella di ala piccola – una giocatrice con un buon tiro da fuori area, un palleggio discreto per poter giocare in uno contro uno, e poi, dove possibile, un gioco eventuale con le spalle a canestro; la capacità insomma di essere rapida e forte fisicamente nella zona più “sporca” del campo, sotto canestro, nell’area chiamata “area piccola”, che è il luogo vero e proprio in cui si agisce il rito sacro della pallacanestro.
Lì non c’è spazio per tutte.
Lì c’è spazio solo per la più forte di tutte.
Terminus post quem o della grandezza – I sintomi dell’innamoramento sono tremore, mal di stomaco, afasia nel caso in cui il soggetto sia introverso, incredulità, terrore irrazionale di perdere l’oggetto amato.
L’aspetto magico dell’amore è che anche se non lo hai mai provato prima, quando arriva sai che è lui. Non è ri-cognizione, ma l’esatto opposto, proprio perché non lo conosci, intuisci che ti stai ammalando e che farà molto male.
Questi sono stati i sintomi la prima volta che ho messo piede nel palazzetto di casa della Termomeccanica La Spezia. Le ragazze mi avevano invitata a vedere la partita della Serie A con loro. La sfera, una volta che ha capito di essere tale, scivola dentro la sua forma con una semplicità annichilente.
Dentro al Palaspezia l’aria era immobile e tesa come prima di una tempesta. Il tempo dello sport non è intelligibile secondo i canoni della linearità. È un tempo che procede per accumulo di energia e scarico di essa. È per questo che il pubblico trattiene il fiato, è la sospensione di tutto di fronte alla domanda: e ora cosa accadrà?
Avevo visto tante partite, ne avevo giocate di più. Ma nessuna occasione aveva pulsato di vita come quelle donne perfette e muscolose e belle e buone che giravano a metà campo per riscaldarsi.
Mery era finalmente Mery Andrade. Monica, era Monica Pellizzari. Quelle figure avevano lasciato la carta di Superbasket per sustanziarsi in carne e muscoli davanti a me. La pelle lucida sotto i riflettori, la musica a alto volume, lo speaker che annunciava, tutta una confusione di pubblico che ronzava sugli spalti come un intero alveare che si prepara al cambio della regina. Le mie nuove compagne stavano lì tutte insieme, in prima fila, e Erika, una di noi, quella più forte fra noi, era in campo a girare nel terzo tempo da destra durante il riscaldamento.
Willy, il capo ultrà, se ne stava a cavallo della transenna e parlava a tutti e a nessuno, come un pazzo del paese. Mormorava parole al vuoto davanti a sé, sembravano un sussurro in quel formicolio di pubblico, e dopo aver spostato lo sguardo alle sue spalle, sul campo dove le ragazze tiravano a canestro silenziose e concentrate, urlava: LA-SPE-ZIÀ e il pubblico di rimando: LA-SPE-ZIÀ.
A bordo campo l’allenatore Mirko Diamanti si stava allentando il nodo della cravatta. In campo le ragazze mettevano dentro una palla dietro l’altra, da fuori area, da sotto canestro. Vista così, ai suoi massimi livelli, la pallacanestro sembrava una pièce teatrale, un’esperienza in primo luogo fisica, dove il corpo si muove al massimo della sua espressione artistica. Andrade si ergeva sul campo con le sue gambe lunghe e solide, osservava tutto da lì. Lei e Diamanti si scambiarono un cenno di intesa, una certa espressione degli occhi quasi invisibile – sembrava che tutti stessero eseguendo un rito e ognuno sapesse la sua parte a memoria.
Scesi i gradoni fino a raggiungere le mie compagne di squadra, e presi posto in silenzio. Ricordo che pregai, ricordo che offrii a Dio tutto il poco che avevo in cambio di una canotta bianconera e di un posto in quella squadra, all’ombra di quelle donne, sotto i cori di quel pubblico.
La lettera – L’estate senza gli allenamenti era sempre lo stesso giorno che si ripeteva con le stesse dinamiche. La versione di latino e di greco, il pranzo a casa di mia nonna, la punta alle due e un quarto nella piazza dei bus dove ci incontravamo in motorino e poi partivamo tutti insieme alla volta del mare.
Il bagno appena arrivati, il gelato dopo il bagno, la partita a carte lunga tutto il pomeriggio, da cui ci sganciavamo e ci riattaccavamo per andare a fare un altro bagno o a nasconderci dietro le cabine da cui tornavamo con gli sguardi bassi.
Ho la sensazione che questa storia sia una collana di perle che a un certo si è spezzata, e che adesso siano solo le perle a essere rimaste. Oggetti piccoli, di fatto belli ma comunque trascurabili se non inanellati in un filo da applicare al collo.
Quando in uno di quei pomeriggi di ritorno dal mare avevo trovato nella buca della posta la lettera in cui c’era scritto che da quella stagione 2001/2002 mi sarei allenata con la prima squadra per prima cosa mi sono chiesta: dove hanno preso il mio indirizzo?
Solo in un secondo momento ero risalita in sella al mio Scarabeo giallo, avevo parcheggiato nel vialetto di casa, ero andata a sedermi sul divano con i piedi ancora insabbiati. Avevo pensato a Mery Andrade in piedi al centro del campo e non mi ero mossa di lì, impietrita, fino a quando qualcuno non era venuto a svegliarmi.
Sbaglio di mira – Questi sono i tempi in cui, soprattutto per motivi di tipo letterario, la riflessione sullo sport nella fase della mia vita post sportiva si è intensificata. I risultati di questa ricerca si possono sintetizzare in: il mondo si divide fra quelli che hanno fatto sport a livello agonistico e quelli che no. Il mondo si divide fra quelli che hanno passato i pomeriggi chiusi in un perimetro composto da linee artificiali e hanno mosso il loro corpo sulla base di regole istituzionalizzate e quelli che non l’hanno fatto. E ancora, il mondo si divide fra quelli che, considerati come “giovani” (giovani, per inteso, rispetto a veterane che a loro volta coprivano un arco di età compreso fra i venti e i ventotto anni), hanno pagato penitenza portando vassoi su vassoi di paste per un ritardo che non era davvero un ritardo, o per un capriccio di un compagno di squadra più adulto, e quelli che non hanno mai pagato pegno in mignon alla crema. Quando racconto questi aneddoti a coloro che “non hanno mai fatto sport a livello agonistico”, tutto ciò che ottengo in cambio è un sopracciglio sollevato sullo sfondo di un’espressione facciale sconvolta. Ora che sono adulta anche io, e persino più adulta di quelle veterane di allora, posso dire che il quadro che mi accingo a tratteggiare non è altro che una “educazione sentimentale” che ha avuto luogo non in un salotto ottocentesco, ma dentro un campo di 28×15 metri.
Uno dei pensieri più ricorrenti che mi trovo a fare quando mi diverto a fantasticare sulla mia vita da atleta professionista è che oggi sarei probabilmente la giocatrice più anziana della squadra, vale a dire una cestista con pochissimi minuti sul campo ma una donna con grandi responsabilità nello spogliatoio. Se mi trovassi nella condizione di parlare a una ragazza di sedici anni che si appresta a fare parte di una squadra di donne, la avvertirei, prima di tutto, degli imminenti cambiamenti sul piano sentimentale. Quello che fino a un certo momento è percepito come un divertimento dopo la scuola, in un ambiente adulto, si trasforma in un gioco serioso, in una professione retribuita in cui da una vittoria non dipende solo l’umore di tutta la settimana, ma anche lo stipendio. Tenterei inoltre l’impossibile, e cioè di mettere in parole gli ineffabili sacrifici e il tempo che lo sport a alti livelli si arroga.
Nello specifico: due sedute di allenamento al giorno (giovanili e prima squadra) per sei giorni, due partite di campionato a settimana più una di coppa europea nei casi più rosei, niente feste il sabato pomeriggio, niente gite con la scuola, niente giri in due in motorino. Totale divieto da parte dell’allenatore di andare sui pattini o a cavallo o sugli sci. Una pesata sulla bilancia ogni lunedì con relativa seduta di atletica, suicidi a più non posso, dove da intendersi con questo nome truce è sequenza di scatti dalla linea di fondo fino a quella successiva e ritorno per quattro volte – l’ultima che taglia il traguardo ripete tutto da capo mentre le altre stanno a guardare e a urlare facendo il tifo per la corritrice solitaria.
Una volta in mezzo alle grandi, la discrasia fra me e loro si è notata subito. E non su un piano fisico, perché su quello si può lavorare, ma su un piano mentale. Era accaduto tutto in fretta e dentro quel campo, a fianco di quelle giocatrici di professione, mi ero sentita presto come un’infiltrata. Prima di tutto mi ero trovata di fronte a un divario su un piano tecnico che mi sembrava incolmabile – io con le mie mancanze non facevo altro che inceppare un meccanismo altrimenti perfetto, una serie di passaggi fluidi che portavano la palla così vicina al canestro che bastava sfiorarla per fare due punti. L’incapacità di agire il basket come una sequenza di movimenti naturali aveva contribuito a irrigidire il mio gioco nel giro di poche settimane. A un errore se ne sommava un altro con una facilità allucinante, e mentre le altre giovani del gruppo affinavano la loro tecnica di giorno in giorno, si amalgamavano al gioco delle grandi fino a diventare un nuovo ingranaggio della squadra, io al contrario sentivo il mio corpo paralizzarsi passaggio dopo passaggio.
Tutte vedevano cosa stava accadendo, ma ognuna di loro contava sul fatto che da buona atleta quale sarei diventata prima o dopo – le giovani si chiamano “promesse”, non dimentichiamocelo –, sarei uscita da quel momento di impasse così come vi ero entrata: in un alone di silenzio.
Ma il vettore delle mie energie aveva imboccato la direzione sbagliata e sembrava impossibile da arrestare nella sua caduta verso il basso. Dopo un primo momento di iniziale pazienza, la paralisi aveva provocato le urla delle mie compagne più grandi a ogni errore, oppure una scossa di testa, che per inciso è molto più segnante perché denota silenziosa rassegnazione. Ero entrata nel braccio troppo contorto di un labirinto, avevo iniziato a pensare a tutto ciò che stava fuori dal campo e lo avevo portato dentro: la mia storia, le mie insicurezze, la mia piccolezza nel mondo delle grandi. Pensare i pensieri sbagliati in un momento sbagliato è la scelta tecnica peggiore che un atleta possa compiere – in un campo è il corpo a avere la priorità. Bisogna lasciarlo libero di agire, lui sa tutto e interporre il pensiero fra l’occhio e la reazione delle braccia e delle gambe è una pessima idea se ciò che si deve fare è buttare la palla dentro un canestro almeno una volta in più rispetto al proprio avversario.
Loro erano geni, io no – Per anni mi sono chiesta come ho fatto a diventare una di quelle ex atlete che guarda il basket e lo commenta anziché giocarlo ogni domenica in televisione. La riposta era così spaventosamente vicina al limite di quello che potessi essere in grado di sopportare che per lungo tempo non sono riuscita a darmela. Afasia totale come escamotage per non impazzire.
Per alleviare il dolore ho provato tutto. Ho provato a non parlare più di basket, ma mi sono presto accorta che non funzionava. Così ho provato a farlo, ma tralasciando il lato affettivo. Ho ricominciato a giocare in tarda età, quando il tempo interposto era ormai così tanto che qualsiasi paragone con allora sembrava il ricordo di una vecchia bisbetica. Ho interrotto questa agonia solo qualche mese dopo. Secondo il consiglio di altri ex giocatori, ho cercato di giocare per divertirmi, senza riuscire a divertirmi mai nemmeno per un secondo. Allora ho deciso di prenderla sul serio, ma in una categoria così bassa in cui prendere sul serio qualsiasi cosa era insensato. Mi sono trovata in mezzo a contraddizioni in cui ero troppo vecchia per giocare bene ma troppo giovane per poter smettere del tutto. La mia testa mi suggeriva di lasciare definitivamente perdere, ma il mio corpo si metteva in posizione di attacco ogni volta che nel giro di qualche metro si trovava una palla a spicchi. Scattavo come un militare al suono della tromba, ma spesso la guerra porta con sé ricordi orrendi.
Qual era il motivo per cui una volta di fronte alla grande chiamata non sono riuscita a slegare le mie contraddizioni interne per diventare come quelle donne eroiche dentro al campo di basket?
Loro erano geni, e io no.
Questa frase, di cui io non mi attribuisco la maternità, ma che ho sottolineato e riadattato da un saggio di D. F. Wallace intitolato “Come Tracy Austin mi ha spezzato il cuore”, già di per sé urticante nella dicotomia fra genialità altrui/normalità dell’io, sarebbe capace di spezzare le ossa a qualunque essere umano esente da velleità di alcun tipo.
In questo testo, che è al limite fra un pezzo sul tennis e un approfondimento di antropologia culturale sull’homo sportivus, Wallace scrive: “Negli atleti di livello mondiale che si affrancano dalle leggi della fisica c’è una bellezza trascendente che rende manifesto Dio nell’uomo.” E ancora, poco più in là, aggiunge che “Essere un grande atleta, in campo, significa essere quel mirabile ibrido fra animale e angelo che noi spettatori medi, privi di bellezza, facciamo tanta fatica a vedere in noi stessi“.
Il genio – L’anno successivo la divinità si era incarnata in una giocatrice di ventuno anni proveniente dall’Australia che portava il nome di Penelope Jane Taylor. Penny per noi tutte.
Se fino a quel momento avevo avuto il sentore che la mano della Madonna non si era ancora poggiata sulla mia fronte (nel nostro gergo cestistico si diceva che una di noi “aveva visto la Madonna” nelle occasioni in cui era particolarmente in partita), al cospetto di Penny mi ero resa conto che tutte le attenzioni della santissima si erano concentrate su una giocatrice sola. Qualsiasi cosa lei facesse in campo era semplicemente perfetta.
Se non avessi visto lei prendere un passaggio sulla linea da tre e ergersi in sospensione per lasciare uscire la palla dalle sue dita in un gesto estetico che mi fa pensare ogni volta a un cigno che sfiora con il suo becco una foglia, se non avessi visto la facilità con cui Penny riusciva a manovrare il suo corpo alto 186 centimetri dentro spazi a stento agibili per una bambina alta poco più di un metro, non avrei mai esperito che cosa si intende quando si affianca lo sport a un’esperienza religiosa. Non avrei neanche mai capito fino in fondo come è una giocatrice di pallacanestro che sa davvero giocare a pallacanestro. Lei non era come le altre, lei era un individuo per cui andare in uno contro tre e uscirne vincente era scontato come respirare.
Ho trascorso un intero anno della mia vita in nome di e a fianco di e pensando solo a quella che sarebbe stata la mia più grande ossessione vivente. Io e Penny coprivamo lo stesso ruolo, quella posizione numero tre che è un ibrido, un continuo pendolare fra la zona alta e poi quella bassa dell’area di tiro. Ogni giorno andavo in palestra sapendo di dover difendere su lei ma una volta lì di fronte il terrore di romperla era più forte della tentazione di giocarci insieme.
Dicevo continuamente a tutti di voler essere come lei, ancora ignara del fatto che non si può essere come la più grande di tutte – si può esserlo e basta.
È stata l’esperienza Penny Taylor a farmi capire che ci sono sportivi che accedono al paradiso, altri che lo sfiorano soltanto, e altri ancora che restano lì sotto a osservare tutto.
E io ero solo un altro membro di quest’ultima categoria.
Ci sono notti in cui non riesco a prendere sonno. Notti in cui revisionare tutto è inevitabile. Allora ripenso a quei pomeriggi in cui andavo a La Spezia in motorino, oppure alla semifinale di campionato in casa del Cras Taranto, quando mi ero alzata dalla panchina per esultare sul canestro sulla sirena di Penny e uno sputo giunto dalle tribune mi aveva presa direttamente sulla testa. Quel giorno avevo creduto di essere una giocatrice di pallacanestro, avevo creduto di combattere con le altre ragazze per un campionato italiano di serie A. Ogni volta che mi concedo di ripensare a quel palazzetto che vibrava a ogni salto del pubblico urlante, la vertigine è decisamente forte. Ricadere da lì non mi ha lasciato molte ossa intere.
Quella a Taranto è stata l’ultima partita in cui ho visto Penny giocare in carne e ossa, in cui sono stata così vicina a lei da poter scomporre ogni suo movimento in una sequenza di scatti muscolari che speravo prima o poi sarei stata in grado di ripetere.
Quando io ho deciso di fermarmi, lei ha preso definitivamente quota. Ancora una volta le nostre traiettorie si sono incontrate, anche se non nel modo in cui avrei sperato io.
Dopo l’anno a La Spezia, Penelope Jane Taylor ha vinto praticamente tutto. Il campionato italiano con Schio, tre titoli WNBA, una medaglia d’oro ai mondiali del 2006 e due argenti alle olimpiadi del 2004 e del 2008 nelle fila della nazionale australiana. Al termine di una lunga carriera ai massimi livelli, si è ritirata nel 2016 con indosso la maglia delle Phoenix Mercury, in cui ha militato con fedeltà per dodici anni. Io sono una delle 58000 persone circa – al momento in cui scrivo – che si sono sottoposte su YouTube a un’ora e due minuti di cerimonia di ritiro con tanto di musica da discoteca di dubbio gusto e discorso finale in cui Penny non si dà nemmeno la pena di citare il nome delle due squadre in cui ha militato in Italia, soffermandosi piuttosto sui chili che ha preso mangiando pasta e pizza. Un dolore lancinante, ve lo posso assicurare.
Sul muro della mia camera da letto, in provincia di La Spezia, è appesa la canotta di quella magica stagione 2002/2003. Il numero è il 16 e sullo sfondo bianco ci sono gli autografi e le dediche delle compagne. Una mia coetanea e compagna di squadra ha scritto “Alla nostra Penny Taylor”.
Penny Taylor stessa, invece, aveva scritto “Giorgia always have fun”.
Non ci sono riuscita, sorry Penny.
Di Penny parlo sempre come se fosse una manifestazione divina nella mia vita di comune mortale, esserle stata accanto per una stagione mi fa sentire come se fossi riuscita a rubare un po’ di polvere dorata dalla sua aura. In campo era sempre perfetta e nonostante la sua natura extraterrestre, fuori da lì era una ragazza semplice. Parlava poco, ma sempre con gentilezza. A fine partita andava a centro campo e alzava le braccia in alto, applaudiva il nostro pubblico e poi si incamminava verso lo spogliatoio con lo sguardo basso.
Non ha mai avuto bisogno di alzare la voce, e se facevo un errore mi diceva comunque “Well done, Giorgie”.
È per questo che quando la vedo alzarsi da terra con quello scatto e andare a aggredire Cappie Pondexter con violenza penso: dovevi essere davvero arrabbiata, Penny.
Lei non è così, fidatevi.
Io la conosco.
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