L’alluvione del 1960 è forse l’ultimo atto che ha profondamente inciso la memoria collettiva camuna in riferimento a due cose: il fiume che attraversa la valle per quasi tutta la sua lunghezza (un’ottantina di chilometri su novanta circa) e la percezione che i suoi abitanti hanno del corso d’acqua. O di sé stessi rispetto al corso d’acqua. I camuni si vedono ancora riflessi nelle acque dell’Oglio?
“Il nonno è stato via per giorni quando c’è stata l’alluvione”. Mio padre appoggia la tazzina di caffè al ripiano di legno e fa un tuffo carpiato all’indietro nei ricordi di un lui più piccolo, sui cinque anni. “Devi sentire lo zio, lui si ricorda meglio”. Suo fratello, classe 1952, si siede sul divano e con il fare di chi un po’ si sente sotto interrogatorio e un po’ non vede l’ora di seguire i flutti della memoria, mi aiuta a ricucire i ricordi di famiglia. Una famiglia come tante, in Valle Camonica. E di una generazione i cui primi ricordi non sono stati marchiati dalla guerra, ma da un evento che, nell’immaginario di un bambino, doveva avere una simile portata distruttrice.
Ascolto il racconto appollaiata sulla sedia, con il sole di agosto che entra dalla finestra. Le gambe incrociate nel 2019, mi ritrovo immersa nell’autunno di 59 anni fa, sotto una pioggia che scende fitta da giorni e tra le vie e i pergolati di piccoli paesi addormentati in parte a mezza costa, in parte nella piana. Mio nonno lavora all’Enel e ha appena finito di costruire la casa di famiglia. La notte tra il 16 e il 17 settembre alla pioggia battente, che già scroscia da diverse ore, si uniscono le scintille. Scrutando il cielo plumbeo fuori dalla finestra della cucina, Bortolo tiene gli occhi fissi sulle condotte d’acqua che corrono lungo il pendio del monte sopra il paese. Osserva e vede delle incandescenze: sono massi che rotolando a valle si scontrano contro il metallo e fanno brillare la notte. Dopo poche ore, compaesani e colleghi passeranno a casa a chiamarlo.
“Non lo abbiamo visto per giorni e quando è tornato, ci ha raccontato le cose a tratti”. Nel frattempo, mentre la piena sale, tracima gli argini e l’Oglio inonda i campi, spazza via i ponti, cancella le strade e costruisce mura di fango, le acque del fiume, divenute torbide, da minaccia si fanno certezza insieme a quelle dei suoi affluenti, che a rivoli scorrono attraverso i paesini camuni. Le comunità si mobilitano. C’è chi cerca di salvare il salvabile, chi raccoglie i detriti, chi si rende conto – mentalità contadina in un mondo che sta cambiando, non solo nell’emergenza del momento – che è quasi tempo di vendemmia e che le viti, piegate dal peso dell’acqua che scende dal cielo, rischiano di ritrovarsi sommerse dal fiume. “Quando è tornato, il nonno è andato avanti per mesi svegliandosi la notte, urlando”.
Torno con lo sguardo fisso nel presente, immergendomi in quel ricordo tanto vivido quanto ai miei occhi inverosimile. Il nonno era uomo ben piazzato, caratterialmente forte, come buona parte della popolazione locale di quegli anni, forgiata da guerre vissute ed ereditate e anche da una relativa miseria. Nel settembre del 1960 Bortolo vede un fiume che non riconosce; non lo riconosce perché, se da un lato ha rotto in più punti gli argini, modificando la geografia dei confini visivi, dall’altro trasporta di tutto. Detriti, cose strappate alla terra e al lavoro degli uomini, tronchi (gli stessi che a furia di accumularsi faranno crescere la massa d’acqua e si porteranno via il ponte di Cividate Camuno) e carcasse. Mio zio, mandato dal proprio nonno materno ad acquistare del fil di ferro per legare le viti piegate dalla pioggia, non solo non riuscirà a raggiungere la ferramenta (trovandosi davanti una distesa d’acqua che non conosce e che ha separato case e botteghe), ma registrerà nitido nella memoria il ricordo del cadavere gonfio di una mucca trasportata dalle acque.
L’alluvione del 1960 ha colpito tanti, tantissimi paesi della vallata in cui sono nata, come purtroppo accaduto ripetutamente durante gli ultimi 500 anni. Mezzo millennio di alluvioni. 96 piene, contando solo quelle che hanno provocato danni, del Fiume Oglio in Valle Camonica dal 1500 ad oggi: in media, un’alluvione ogni 5 anni e due mesi, con settembre e ottobre a fare la parte dei cattivi, in quanto periodi con il più alto tasso di tracimazione.
Tutto questo, anche se sembra paradossale, perché il fiume è un “qualcosa” di vivo. Bisogna però capirlo, costantemente studiarlo, anche adesso che è imbrigliato da dighe, un’ottantina di ponti, viadotti, piloni, strade e ferrovia. Ciò che si conosce, fa meno paura. Ciò che si conosce, è di maggiore comprensione e quindi anche di miglior possibile gestione per tutti: ne sono ben consapevoli le autorità locali e gli enti, che portano avanti un’azione continua di monitoraggio e recupero, oltre che campagne di sensibilizzazione ed approfondimento con pubblicazioni e convegni aperti al pubblico. Eppure, come la goccia sciolta dal ghiacciaio impiega tempo per arrivare al mare, così l’abitante medio della Valle Camonica non si sente ancora legato al suo patrimonio fluviale.
L’Oglio – in dialetto “l’Òi” – nasce in Valle Camonica, nell’abitato di Ponte di Legno, a 1236 metri sul livello del mare. Mentre i turisti di Brescia e Milano fanno apericena e passeggiano per le vie del centro sotto l’ultimo sole estivo, i torrenti Narcanello e Frigidolfo si congiungono, per poi scorrere insieme per un’ottantina di chilometri, fino al placido tuffo nel Lago d’Iseo, in quello che un tempo era un piccolo delta e che ormai si è trasformato in una notevole foce a estuario. Per lunghezza, in Italia, il fiume Oglio si piazza quinto: 280 chilometri di acqua che scorre prima di sfociare nel Po (di cui è il secondo affluente per importanza), di fauna ittica che si riproduce, di economie locali ad esso legate e di storie da raccontare, di rive, di massi, di tanta biodiversità, passando dal clima glaciale dell’Adamello a quello mediterraneo.
La Valle Camonica, in provincia di Brescia, aveva puntato praticamente tutto il proprio sviluppo economico del Novecento restando nel solco della tradizione di “ferrarezza” (manufatti ed arnesi in ferro) che ne contraddistinguevano il tessuto produttivo locale. Non più magli azionati dall’energia di Oglio e affluenti, ma stabilimenti siderurgici nati e mantenuti attivi dalle centrali dei bacini idroelettrici. E se le fabbriche devono oggi rispettare normative maggiormente attente all’ecologia, allo stesso modo i paesi e i paesini (una quarantina, frazioni escluse) dell’area lungo il corso del tempo hanno a loro volta imparato (o in alcuni casi stanno imparando) a gestire scarichi e rifiuti.
Nonostante questo, capita ancora, con troppa frequenza, di trovare sacchetti di immondizia lungo i torrenti. Durante i lavori di riqualificazione ecologica per la costruzione di un percorso pedonale adiacente alle sponde del fiume e di completamento della Pista Ciclabile Camuna, sono state decine le tonnellate di rifiuti di ogni tipo raccolti, appunto, lungo le rive dell’Oglio.
Nel frattempo però, rispetto al passato, il fiume si è parecchio antropizzato. Sono cresciute costruzioni vicine, a volte troppo vicine, agli argini. Indice di una memoria singola e collettiva che ha rimosso il ricordo delle alluvioni. Ciò è stato in parte reso possibile anche dalla visione adottata negli ultimi cinquant’anni, una visione poco integrata e onnicomprensiva del corso d’acqua, che va inteso, sempre, come un insieme. Bisogna capire che quando si parla di acqua e del suo ecosistema di riferimento, agire in un punto significa apportare una modifica al tutto. Questo è mancato, per un tempo relativamente lungo: la comprensione complessiva del fiume Oglio. E in parte forse manca ancora.
Insieme alle costruzioni degli uomini – anche su piane chiaramente di origine alluvionale – nell’ultimo mezzo secolo sono arrivate un centinaio di specie esotiche. Parliamo di flora e di una sua progressiva “colonizzazione” del corso d’acqua che, risalendolo, dimostra di essersi particolarmente intensificata nell’ultimo ventennio.
Resta quindi la grande domanda: come si vive il fiume? Si tratta infatti di un corso d’acqua che nei secoli non ha assunto la funzione, almeno in Valle Camonica, di confine politico. Ovviamente le divisioni tra singole comunità locali poste lungo le due sponde ed i contenziosi legati alla gestione di ponti e risorse legate al bacino, non sono mancate. Ricerche d’archivio parlano anche di casi di liti abbastanza violente, ma il fiume veniva comunque percepito quale importante risorsa del territorio. Diverso invece il caso del basso corso, ovvero dell’Oglio che dopo il Lago d’Iseo recupera le forze e torna a farsi fiume, scorrendo nella pianura bresciana e cremonese (dove fu confine tra i territori del Ducato di Milano e quelli della Repubblica di Venezia). Un corso d’acqua, nell’alveo camuno, mutato nei secoli e nei millenni, ma per la maggior parte non navigabile a causa della conformazione. Laddove però esso non rappresentava una via d’acqua per le persone, lo poteva essere per le merci: il legname veniva trasportato su zattere, ad esempio. Un elemento quindi che non ha diviso la popolazione nell’arco dei secoli tra dominazioni diverse: lo stesso rischio delle piene, nei secoli, ha creato “aggregazione” per la gestione del corso d’acqua. Una risorsa anche fortemente economica quale fonte di energia e cibo (i ricordi di genitori e nonni di oggi parlano di un Oglio pescoso).
Riappropriarsi di un luogo, più nel senso di provare affetto nei suoi confronti, attaccamento emotivo e sociale, è un processo lungo, collettivo ed interiore. Fatto di azioni e gesti quotidiani che volgono alla salvaguardia di un topos che oggi appartiene ad una polis sempre più estesa: l’antropizzazione citata prima ha di fatto portato alla nascita di un tessuto urbano esteso ed interconnesso, soprattutto nella parte medio-bassa del corso camuno dell’Oglio, che poco si discosta dalla conformazione di una città vera e propria. Se capire un luogo studiandolo è un passo imprescindibile, accostarglisi vivendolo in prima persona risulta allora fondamentale.
Scendo spesso al fiume. Di solito verso sera, una volta spento il computer. Parcheggio la macchina nei pressi di un santuario cristiano e facendo scattare la serratura ci lascio a bordo i pensieri della giornata. Raggiungo la ciclabile e vado a trovare l’acqua, sbirciando il colore tra le fronde degli alberi lungo le sponde: ogni volta ha sfumature diverse, che parlano del tempo che ha fatto in quota, di eventuali smottamenti, di luoghi che appaiono lontani mentre invece non lo sono. Anche la voce è diversa: ci sono giorni che l’Oglio canta con tono sommesso, altri che sprizza spruzzi bagnando d’allegria le due sponde. Mi rattristo quando ci vedo le alghe, mi sorprendo quando scopro persone in costume lungo spiaggette improvvisate e arrivata nei pressi della statua della dea Minerva sento una voce antica che chiama. Al benessere, alla salute, al prendersi cura. È lungo la “Ciclovia dell’Oglio” che sto camminando, apprezzandone gli scorci anche da profana delle due ruote: è stata del resto eletta quale ciclabile più bella d’Italia agli Italian Green Road Awards di quest’anno.
Mi fermo ad osservare la Minerva Igea che, tra le sbarre del suo santuario divenuto parco archeologico, osserva a sua volta i viandanti dell’Oglio. I Romani stessi erano rimasti colpiti dalla roccia alle sue spalle, dalle cui fessure sgorgava acqua salutare: inglobando con il loro fare pragmatico, sincretico, un precedente luogo di culto, ci avevano costruito un tempio. Un posto in cui fermarsi a riprendere le forze, godendo della forza curativa dell’elemento che eternamente scorre e perpetuamente si trasforma: l’acqua. Della ritualità dell’acqua parlano anche alcune delle incisioni rupestri, primo sito UNESCO in Italia, che compie quest’anno 40 anni. Tanta bellezza racchiusa in rocce, in gocce.
L’Oglio è un mondo, difficile da raccontare in maniera univoca, impossibile – almeno per me – da comprendere in ogni suo aspetto. Cerniera naturalistica tra i versanti di questa valle alpina, esso costituisce sia un corridoio ecologico di tutto rispetto che un luogo dimenticato. Relegato sullo sfondo del paesaggio, “tanto c’è, ovvio che sappiamo che c’è!”.
Ai tempi del Fascismo qui era nata una colonia elioterapica: le foto raccolte mostrano bambini distesi lungo il greto, in file ordinate, con costume e cappellino candidi, intenti a fare il pieno di vitamina D. I miei genitori invece nell’Oglio facevano il bagno: c’erano zone per lavare i panni, “vasche” per i bambini, altre per le bambine e anche luoghi di boscaglia e di “infrattamento” per le coppiette. Un mondo, davvero. Un mondo che univa, più che dividere; un taglio netto sul fondo di una vallata di origine glaciale che ancora potrebbe, nell’immaginario collettivo, riunire, creando un senso di appartenenza comune, avulso (come l’acqua impalpabile di cui è fatto) da inutili campanilismi, da patriottismi riesumati. Anche perché il fiume, da millenni, fra alterne fortune, ha continuato a scorrere.
“Il nonno è andato avanti mesi a svegliarsi la notte urlando”, ma non solo per quanto ha visto. Anche per quanto ha vissuto. Arrampicato sul palo a tagliare i fili della luce, in quel 1960, Bortolo si sente mancare l’equilibrio: anche il secondo cavo che teneva momentaneamente saldo il palo si stacca e il mondo si fa sotto-sopra. Si aggrappa più forte, ma precipita a pochi centimetri dal pelo dell’acqua torbida, che scorre con rabbia appena più in basso. I colleghi, gli amici, lo tireranno a riva. Salvo.
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