Quando mi è stato proposto di scrivere un articolo su Firenze, la prima cosa che ho pensato è stata: “E io che cosa scrivo su Firenze?”
Che non è bello, a pensarci bene. Non è bello per Firenze e non è bello nemmeno per me, perché forse non l’ho vissuta come avrei dovuto e potuto.
Poi ci ho riflettuto con calma e mi sono lavato la coscienza: no, in realtà il problema è di Firenze.
Voglio mettere subito le mani avanti. A me Firenze piace, è la mia città, dove sono nato e vissuto per la maggior parte della mia vita. Quando all’estero mi presento e mi chiedono di dove sono rispondo Firenze, non Italia: non c’è bisogno che lo aggiunga perché tutti la conoscono, ovunque. È forse spocchia la mia (e quella di molti miei concittadini)? Perdio se lo è. E ne andiamo abbastanza fieri, anche se ci fa disprezzare dal resto della nazione.
D’altro canto, Firenze è anche il posto che ho deciso di abbandonare sette anni fa: l’amavo, ma l’ho lasciata. Non la meritavo, come nel più classico dei cliché sentimentali.
Che sentimenti provo per Firenze?
Intanto vediamo di capire di quale Firenze vogliamo discutere, perché di Firenze ce ne sono tante. C’è Firenze centro ad esempio, un museo all’aria aperta paralizzato nel terrore che un piccolo cambiamento possa rovinarlo per sempre. D’altra parte cosa vuoi toccare quando hai un patrimonio culturale che l’universo intero ti invidia? Ecco, le amministrazioni comunali fiorentine si sono poste questa domanda per decenni. E per decenni si sono date la stessa risposta: assolutamente nulla. E infatti il centro di Firenze visto con gli occhi di un abitante ha la vitalità di una pozza d’acqua stagnante. Sempre i soliti turisti, sempre i soliti negozi (moda globalizzata, perlopiù), sempre i soliti ristoranti (pizza/pasta/panini, perlopiù), sempre il solito caos. Gli unici cambiamenti possibili l’hanno chirurgicamente peggiorato. Fantastico.
Ci sono ovviamente anche cose da salvare, ma vanno sapute cercare; il fiorentino le conosce, ci va ma non ve le dice. Ben vi sta, così imparate a venire a Firenze per mangiare la pizza Hawaii in piazza Duomo a 17€.
Se dipendesse da noi eviteremmo proprio di andare in centro, ma non possiamo farne del tutto a meno. Proviamo quindi ad essere strategici: andiamo all’appuntamento dal dentista, ci facciamo visitare e poi fuggiamo a casa. Una esfiltrazione militare più che una passeggiata.
Non ci viene voglia di rimanere in giro: e se poi ci stanchiamo? Mica possiamo sederci sulle montagne di turisti cinesi, a loro volta seduti su montagne di turisti russi. Forse sotto questi due strati troveremmo anche una panchina, ma preferiamo rinunciare in partenza.
Il fiorentino tollera ma sbuffa, sorride in pubblico ma si incazza in privato. Il centro storico rimane immutato, lui si evolve. Qualche mese fa sono passato in piazza Duomo e ho riconosciuto i miei concittadini dalla capacità di schivare con naturalezza i selfie stick: i turisti li brandiscono come scimitarre, rischiando di decapitare o accecare i passanti. Il fiorentino ormai ha sviluppato un sesto senso per il pericolo imminente e si piega, schiva, evita come nemmeno Neo con i proiettili nel primo Matrix.
Essendo di Firenze non mi va mai bene niente: sono polemico, e mi piace esserlo, così come alla maggior parte dei miei concittadini. La nostra indole ci porta ad essere particolarmente sensibili quando c’è di mezzo la nostra città: la insultiamo, ma possiamo farlo solo noi; se un milanese dovesse parlare male di Firenze saremmo capaci di colpirlo in testa con una statuina del Duomo (quello di Milano, in quanto più appuntito).
La mia polemica cittadina preferita degli ultimi anni è stata “Firenze VS Schiacciatine ripiene”: per chi non sapesse l’antefatto, una schiacciateria del centro da qualche tempo è diventata molto nota grazie a Tripadvisor; il passaparola digitale ha portato orde di persone a mettersi in coda sui marciapiedi per ordinare e, successivamente, stravaccarsi a terra nelle strade limitrofe per gustare la famosa prelibatezza.
Ovviamente questo impedisce ai passanti di fare quello che la parola stessa definisce (passare) e alle macchine di transitare.
“Ma come, nel centro di Firenze passano le macchine?!” chiederanno i miei attenti lettori. Ebbene sì, ma non apriamo anche questa questione che altrimenti non la finiamo più.
Il fiorentino è da sempre contro i poteri forti (tranne i massoni. Quelli a Firenze stanno come le lucertole al sole) e contro chi gli impedisce di fare quello che cazzo vuole. Saranno mica delle schiacciatine a fermarlo?
E via di risse reali e virtuali, sputi reali, ordinanze comunali, articoli di giornale, interviste ai gestori della schiacciateria e agli abitanti delle case vicine che si lamentano per il decoro urbano perduto. Non che il decoro stesse granchè meglio quando a disturbarlo erano gli americani ubriachi che pisciavano nelle nicchie della chiesa di Orsanmichele o stroncavano i peni di statue rinascimentali per farsi un selfie del cazzo. Letteralmente.
Ma il fiorentino, come detto, passa sopra a molte cose: degli americani sa che non può farne a meno. Ma dei panini sì.
Se pensate che stia girando intorno all’argomento per non dirvi come la penso sullo schiacciatina gate, vi sbagliate: ho la polemica nel DNA, in queste cose ci sguazzo. Fosse per me multerei tutti quelli che si siedono a mangiare per terra infastidendo il passaggio del Fiorentino (da ora in poi userò la maiuscola per dargli l’importanza che dà per scontato di avere) e, se fossi negli abitanti delle case circostanti, getterei secchiate di liquidi corporei a scelta libera sui banchettanti.
E non dico così perché sia un amante dell’ordine pubblico nonché amico delle guardie, ma perché sono un fiero sostenitore dell’evoluzione: trovo inaccettabile che l’essere umano sia regredito ad uno stato primordiale in cui gli è impossibile mangiare qualcosa con le mani e, contemporaneamente, mantenersi in posizione eretta.
C’è poi la Firenze popolare, quella dei quartieri, il polmone d’acciaio del Fiorentino asfissiato dai turisti; confuso dalla perdita di riferimenti del centro storico, il suddetto si aggira smarrito per la città come un animaletto spaventato in un bosco in fiamme. La gelateria dove andava da bambino si è trasformata in un negozio di cover per cellulari, il bar dove la nonna lo portava a prendere la cioccolata calda è diventato la boutique griffata di un noto stilista tossicodipendente. I punti di riferimento si sono polverizzati. Poi il fiorentino si ricorda della sua tana, il suo luogo sicuro, quel baluardo inespugnabile di vita paesana che sono i quartieri. E lì ritorna.
C’è la panetteria X, l’alimentari Y e il parrucchiere Z, rigorosamente maschile, dove si parla di caccia, funghi, Fiorentina (bistecca e squadra) e donne. Introdurre un argomento estraneo porta all’immediato esilio dalla bottega.
Questi negozi sono lì da decenni: hanno visto trascorrere i grandi accadimenti della città osservandoli con diffidenza dal bandone (la serranda) socchiuso. Li hanno sottolineati con un “Vaìa vaìa…” pieno di sdegno e sono tornati a farsi gli affari loro. Volete conoscere bene Firenze? Passate un pomeriggio in questi posti e capirete tanto.
Il quartiere dove sono cresciuto si chiama Gavinana, a Firenze Sud. C’è un’altra Gavinana, vicino Pistoia, dove il capitano di ventura Francesco Ferrucci combattè alla testa dei fiorentini e fu ucciso dalla truppe di Carlo V. La zona prende il nome dalla piazza dedicata a questo scontro. Abbiamo appunto Piazza Francesco Ferrucci e poi Via Giovanni dalle Bande Nere, Via Gianpaolo Orsini e Via Braccio da Montone: la maggior parte delle strade del quartiere sono dedicate a gente che era pagata per ammazzare. Le altre invece, forse per bilanciare, portano il nome di umanisti: ecco probabilmente perché gli abitanti di Gavinana sono persone ruvide, ma di buon cuore. I miei ricordi d’infanzia e adolescenza sono legati a questa specie di paesone circondato da una città già abbastanza paesana di suo. Tutti sapevano tutto di tutti, gli scandali e le piccole tragedie passavano di bocca in bocca in una specie di rassicurante racconto popolare. “Oh, ma lo sai chi è morto? Quello grasso del bar… eppure ieri l’avevo visto bene, vendeva i Toscanelli come sempre… Poer’omo…”.
C’è poi la pasticceria storica che cambia gestione, e allora dal giornalaio si parla di quanto fossero buone le bignoline (le mignon, per i non fiorentini) che faceva il vecchio pasticcere. Il caffè invece pare sia migliorato perché il nuovo proprietario ha cambiato la macchina. E, soprattutto, la barista, perché quella di prima “la un c’avea più voglia”.
Tornare a casa, perché casa sarà sempre Firenze, mi fa recuperare una dimensione umana che sto perdendo: nella grande città non conosco nessuno nel quartiere. Nessuno di quelli che muore è un “poer’omo”, a nessuno dei negozi che chiude viene dedicato un requiem postumo. La grande città, semplicemente, cambia. Gavinana invece resta.
Quando sono a Firenze chiedo sempre ai miei genitori che novità ci siano nel quartiere. Di solito non sono mai stravolgimenti enormi, ma l’ultima volta mi hanno detto che il vecchio alimentari dietro casa ha chiuso definitivamente; erano anni che né io né i miei ci mettevamo più piede, ma scoprire che si è trasformato in un piccolo Carrefour mi ha causato un certo malessere. Se il supermarket della multinazionale ha aggredito Gavinana, che ne sarà di me?
La vista dal Piazzale Michelangelo, il belvedere di Firenze, è catalizzata dal panorama del centro: il Duomo, il Battistero, Palazzo Vecchio e Palazzo Pitti. Spostando lo sguardo leggermente a destra c’è la collina di Fiesole e, sotto di essa, c’è una struttura che si staglia imponente tra le zone residenziali: è la torre di Maratona dello Stadio Artemio Franchi.
Non c’è Fiorentino “vero” che non abbia a cuore lo stadio; può capitare che nel corso della sua vita ci sia stato un cortocircuito che lo abbia portato a tifare per squadre diverse dalla Fiorentina, ma il Franchi è sempre il Franchi.
Non è imponente ne muscolare come i grandi stadi italiani, ai quali non può lontanamente paragonarsi: è pur sempre lo stadio di una città di poco più di cinquecentomila persone e di una squadra gloriosa ma poco vincente. Ma il Franchi rappresenta Firenze più di quanto si pensi: con le sue scale elicoidali, le sue curve sinuose, l’esile torre e la copertura della tribuna totalmente autoportante, lo stadio è una ballerina leggera che danza a un chilometro del centro storico, circondata da uno dei quartieri più popolosi della città; poco più in alto, Fiesole la guarda danzare con ammirazione.
Il Franchi è un monumento nazionale (siamo a Firenze dopotutto), è intoccabile e impossibile da ristrutturare. È quasi interamente scoperto, quasi volesse mettere ulteriormente alla prova l’amore del tifoso viola: chi ce lo fa fare di andare a vedere la partita di una squadra che vince poco anche quando piove a dirotto e fa freddo? È una domanda che non ci poniamo: se piove, ci si copre. Se tira vento, ci mettiamo la giacca pesante.
E poi via come se niente fosse a sedersi sui gradoni gelati (quando ero piccolo i seggiolini c’erano solo in tribuna. Ora li hanno messi anche nel resto dello stadio. Restyling, lo chiamano), a sgolarsi per la discesa del terzinaccio di turno. Quanti normali giocatori sono stati glorificati nel nostro stadio: il solo fatto di vederli correre in maglia viola ci ha accecato, li abbiamo trasformati in eroi immacolati capaci di condurci verso imprese impossibili.
Perché il Franchi sostiene tutti, dai campioni ai giocatori più scarsi, ma pretende rispetto e cuore. Chi ce li mette non avrà mai niente da temere, anche quando se ne andrà per giocare in una squadra più ambiziosa: lo stadio di Firenze sarà sempre casa sua. Per referenze chiedete a un certo Roberto Baggio.
La prima volta che ci ho messo piede andavo alle scuole elementari, credo fosse un Fiorentina-Pescara, squallidamente terminato in pareggio. Io e mio babbo avevamo superato a piedi la lunga passerella del Campo di Marte, duecento metri di ballatoio metallico che servono per scavalcare l’omonima stazione ferroviaria. Ricordo che anni dopo qualche genio aveva scritto sulla balaustra: “A chi piace la figa, tiri una riga”. E la riga tirata percorreva l’intera passerella. Avevamo poi percorso viale Manfredo Fanti, circondati da bandiere, sciarpe e gente che urlava: è in quel tragitto di qualche minuto che ho cominciato a percepire quanto sia bello abbandonarsi come singolo per ritrovarsi in una moltitudine. Credo che all’epoca la Fiorentina, e il calcio, fossero ancora concetti un po’ vaghi nella mia testa: passai la maggior parte della partita ad ascoltare i cori della Curva Fiesole, a osservare le persone sedute vicine cercando di capire perché ascoltassero la partita dalla radiolina anche se si stava giocando davanti ai loro occhi. Ma soprattutto ero rapito dalla vibrazione dell’aria ad ogni azione pericolosa. Penso sia stato quello a farmi scegliere la Fiorentina: l’unicità dello spettacolo che avevo davanti, la spinta che il Franchi dava alla squadra. Ogni volta che sono stato allo stadio negli anni successivi ho percepito una specie di responsabilità: far parte di quella marea che, da sola, era capace di spingere la squadra oltre le proprie possibilità. E se i giocatori non ci credevano abbastanza, eravamo noi a crederci anche per loro.
La Fiorentina è Firenze, una città che adora i bastian contrario, che simpatizza per le cause perse, che sceglie sempre la parte dei deboli. Generosa oltre ogni misura, anche quando sa in partenza che andrà a rimetterci.
Ma che importa dopotutto? Vale la pena anche solo provarci.
Come eravamo belli quando avevamo un cuore, quando non eravamo ancora inermi e anestetizzati ad osservare lo sbriciolamento di una passione. La Fiorentina rimarrà sempre una parte di noi; chi ha allontanato la squadra dalla città sarà invece dimenticato.
A Firenze abbiamo esiliato persone molto più degne senza fare una piega.
E sì, anche questa è una polemica.
C’è un momento, più o meno dopo le due di notte, in cui non riesco a voler male a Firenze. È quando l’ultimo dei turisti irriducibili è rientrato in hotel a dormire, quando il Fiorentino è già a letto a riposarsi per essere fresco per la polemica del giorno successivo. È incredibile quanto una città così piena di giorno possa svuotarsi interamente poche ore dopo, è un’impressione di vacuità che solo Firenze mi ha dato con questa forza. Qualche anno fa mi sono ritrovato a camminare in centro proprio nell’ora della metamorfosi: stavo cercando di raggiungere la fermata di un bus notturno che non sarebbe mai passato. Stavo attraversando il Piazzale degli Uffizi, osservato in silenzio dalle statue di alcuni miei illustri concittadini. Ho sentito calarmi addosso il loro disprezzo, la loro severità e ancora quella sensazione: la responsabilità. Loro avevano fatto tutto, io assolutamente niente. Il mio unico merito era stato quello di nascere in una città che loro avevano contributo a rendere unica al mondo. Avevo superato i trent’anni e non avevo ancora progettato nemmeno una maledetta cupola. Ero un miserabile.
Pochi metri dopo avevo attraversato Piazza della Signoria, con la campana della Martinella sulla torre di Palazzo Vecchio. Una campana silenziosa, che suona solo quando Firenze è chiamata alle armi, come l’11 Agosto 1944 quando i fiorentini e i partigiani capirono da quel suono che il momento di spazzare via i nazisti era ormai arrivato.
La prima città d’Italia a liberarsi da sola e a consegnarsi organizzata nelle mani degli Alleati. E il senso di responsabilità diventa quasi soffocante.
Mentre riflettevo, il Perseo di Benvenuto Cellini dietro di me teneva la testa mozzata di Medusa fra le sue mani: mi minacciava, ricordandomi la fine che rischiamo di fare a Firenze, accecati dalle nostre discordie. Più avanti, nel mezzo della Piazza, la lapide che segna il luogo dove Girolamo Savonarola fu bruciato vivo: aveva osato criticare il comportamento dei fiorentini, molto tempo fa. Come già detto, non ci piace chi ci dice come dobbiamo fare le cose, ma col passare dei secoli abbiamo almeno imparato ad essere un po’ più concilianti nel farglielo notare.
Stavo camminando e la mia città mi offriva un promemoria di quello che significa appartenerle. Non so se ne avevo bisogno, ma l’ho accettato. Ricordo di aver continuato a girovagare almeno per un’altra mezz’ora, passando per strade vuote e vicoli bui che solo i fiorentini percorrono perché sono gli unici a sapere dove esattamente sbucano. Ho sentito di aver riconquistato la mia città: in quel momento solo io sapevo come “prenderla” senza timore di esserne tradito o deluso. Firenze e le sue ombre erano totalmente mie, anche se per poche ore, e non dovevo spartirle con qualcuno che sicuramente non le avrebbe capite.
E allora ho ricordato quello che mi piaceva di lei prima di salutarla: i viali di circonvallazione deserti; il silenzio della città che dorme, soffocata dell’afa in una notte d’estate; le attese al buio in macchina; le strade delle colline illuminate solo dai fari della macchina. L’oscurità è stata la mia madeleine proustiana: mi stava riavvicinando alla città da cui avevo deciso di andarmene qualche anno prima.
Forse dovevo solo aspettare di essere un po’ più vecchio per capirla davvero. Firenze può essere amichevole e accogliente, ma non è la sua vera natura. È severa, chiusa, minacciosa, arrogante e seducente. Mi ha cullato, nutrito, educato e poi ha chiesto in cambio la mia fedeltà assoluta. E io l’ho tradita.
Le voglio bene perché è così insopportabilmente umana: attrae tutti con la luce, ma sono le ombre la sua parte più bella.
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L’immagine di copertina è stata realizzata utilizzando una foto di Jonathan Körner e un’immagine tratta dal film “Amici Miei”.
Le foto all’interno dell’articolo sono di Ilnur Kalimullin, Kai Pilger, Tommaso Pecchioli / CC
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