Si chiude l’edizione 2019 della Berlinale, il Festival Internazionale del Cinema di Berlino diretto per l’ultima volta da Dieter Kosslick, che dopo diciotto edizioni consecutive lascia il timone della manifestazione all’italiano Carlo Chatrian, già direttore del Festival di Locarno.
Kosslick ha senza dubbio fatto la storia di questa rassegna, che sotto la sua guida è diventata da un lato un punto di riferimento cruciale per gli addetti ai lavori, dall’altro un evento aperto di cui tutta la popolazione berlinese si sente parte. Sezioni come Perspektive Deutsches Kino, dedicata al giovane cinema tedesco, Berlinale Talents, un forum di eventi e networking per giovani talenti del settore, e Kulinarisches Kino, un focus sulle pellicole a tema alimentare, sono state progettata da Kosslick e fanno oggi parte “pesante” del programma della Berlinale, senza contare che sotto la direzione dell’ormai ex direttore l’European Film Market, il ramo del festival dedicato ai professionisti del settore, è cresciuto sino a diventare, di gran lunga, l’appuntamento più atteso dell’anno per la commercializzazione dei titoli. L’ultima edizione a firma Kosslick si chiude con il successo di Synonimes, di Navad Lapid. La giuria, presieduta dall’attrice francese Juliette Binoche, ha premiato la storia di un israeliano che, appena arrivato a Parigi, viene derubato di tutti i suoi averi ed è costretto a vagare per la città alla ricerca di aiuto. Orso d’Argento per François Ozon e il suo Grâce à Dieu (di cui avevamo parlato qui), mentre si aggiudica il premio per la miglior sceneggiatura l’italiano La paranza dei bambini, (qui la nostra recensione), grazie al lavoro di Roberto Saviano, Claudio Giovannesi e Maurizio Bracci.
Ecco tutti i premi della Berlinale 2019:
Orso d’oro per il miglior film
Synonymes – Nadav Lapid (Francia/Israele/Germania)
Orso d’argento – Gran premio della giuria
Grâce à Dieu – François Ozon (Francia/Belgio)
Orso d’argento – Premio Alfred Bauer
System Crasher – Nora Fingscheidt (Germania)
Orso d’argento per il miglior regista
Angela Schanelec – I Was at Home, but (Germania/Serbia)
Orso d’argento per la miglior attrice
Yong Mei – So Long, My Son (Cina)
Orso d’argento per il miglior attore
Wang Jingchun – So Long, My Son
Orso d’argento per la miglior sceneggiatura
Maurizio Bracci, Claudio Giovannesi, Roberto Saviano – La paranza dei bambini (Italia)
Orso d’argento per il contributo artistico
Rasmus Videbæk, direttore della fotografia – Out Stealing Horses (Norvegia/Svezia/Danimarca)
Premio per il miglior documentario
Talking About Trees – Suhaib Gasmelbari (Francia/Sudan/Germania/Qatar/Ciad)
Premio per la miglior opera prima
Oray – Mehmet Akif Büyükatalay (Germania)
Orso d’oro per il miglior cortometraggio
Umbra – Florian Fischer, Johannes Krell (Germania)
Orso d’argento – Premio della giuria al cortometraggio
Blue Boy – Manuel Abramovich (Argentina/Germania)
Audi Short Film Award
Rise – Bárbara Wagner, Benjamin de Burca (Brasile/Stati Uniti/Canada)
Premio del pubblico sezione Panorama – Primo premio – 37 Seconds, di HIKARI; Secondo premio – Savovi, di Miroslav Terzić; Terzo premio – Buoyancy, di Rodd Rathjen
Premio del Pubblico sezione Panorama Documentari – Primo premio – Talking About Trees, di Suhaib Gasmelbari; Secondo premio – Midnight Traveler, di Hassan Fazil; Terzo premio – Shooting the mafia, di Kim Longinotto
Ung Flukt – di Edith Calmar – Berlinale Classics
La storia è quella classica del giovanotto di buona famiglia che viene portato sulla cattiva strada da una ragazza bella, ribelle e appariscente. Anders è uno studente atteso da un grande avvenire, una gioia per gli occhi dei suoi genitori, preoccupatissimi (soprattutto la madre) della corruttrice Gerd, la diciassettenne, figlia illegittima di un’eccentrica madre single, che ama fare baldoria e provocare con balli sensuali gli uomini più grandi di lei. Anders è follemente di innamorato di Gerd ed è convinto di poterla redimere, di poter utilizzare il suo senso morale, la sua rettitudine, per dare una base all’amore che prova. I due ragazzi fuggono in macchina verso la foresta, si stabiliscono in una vecchia casa di legno e pian piano creano un idillio perfetto. Corse, bagni nudi nel lago, spensieratezza sotto il caldo sole di primavera. Eppure, Gerd continua nella sua costante alternanza fra bontà e cattiveria, fra buoni propositi e vecchie abitudini sconce. Questo fu l’ultimo film diretto dalla norvegese Edith Calmar e uscì nelle sale nell’ottobre del 1959. La protagonista, una Liv Uhlmann ventenne e all’esordio, catalizzò immediatamente l’attenzione del pubblico, con la sua bellezza sfrontata (la scena del ballo, divisa fra presa diretta e flashback, è un momento cult della pellicola) e una recitazione piena di profondità psicologiche, in cui il suo personaggio si articola attraverso un talento d’attrice fenomenale. Ung Flukt è un piccolo gioiello di fotografia e sorprende per la lucidità con cui riesce a esplorare una serie di temi centrali nel dibattito sociale contemporaneo (il rapporto fra genitori e figli, il sesso, le differenze economiche fra gli individui, il concetto di libertà), soprattutto se si considerano il periodo e il luogo in cui il film è stato girato: la Norvegia di fine anni ’50.
O beautiful night – di Xaver Böhm – Panorama
Juri viene perseguitato da un corvo nero, che con le sue apparizioni fulminee mette a repentaglio le coronarie del giovane ipocondriaco. Nel tentativo di sfuggire alla presenza dell’animale, Juri si lancia in una corsa notturna che lo spinge dritto nelle grinfie di un uomo misterioso, un losco personaggio che gli si avvicina in un sala di slot machine e che con un accento che tradisce la provenienza dall’Europa dell’Est gli si presente come “la Morte in persona”. E’ l’inizio di una lunga odissea notturna in cui Juri e l’uomo passeranno da furti di biciclette a una roulette russa consumata in una pista di go-kart, sino a fumerie d’oppio e all’incontro con l’affascinante Nina, una ballerina di peep show di cui Juri s’innamora e che si aggregherà al viaggio nell’oscurità metropolitana.
Questo film è l’esordio cinematografico di Böhm e tradisce forse l’eccesso di forza con cui il regista cerca di portare sullo schermo tutte le sue qualità autoriali. O Beautiful Night è però, soprattutto, un film fotografato in maniera sublime, fra luci al neon e interni i cui colori sono sempre illuminati in modo perfetto. E’ anche un film ben recitato, con un ritmo che incalza e si ferma e riparte in maniera armoniosa, combinando furiosamente umorismo ed elucubrazioni oniriche, avventura e riflessione. Tutto succede in maniera irregolare e confusa, le azioni sono pervase da un senso di agitazione dentro cui i protagonisti, anime avvolte dalla solitudine, danno vita a quella che è una sorta di opera punk, una favola romantica in cui si prova a misurare l’infinitudine dell’anima.
Une colonie – di Geneviève Dulude-De Celles – Generation Kplus
Camille vaga per la campagna parlando con le rane e le galline: attraversa la vita come un’anima spensierata. Ma per sua sorella maggiore, l’introversa Mylia, le cose sono più complicate. Persa tra le incertezze di una vita familiare dentro cui si intravedono i sintomi di un’imminente separazione e la superficialità del nuovo ambiente scolastico della scuola superiore, Mylia deve fare i conti con le prime esperienza della sua vita da adolescente. In soccorso (involontario) della sorella più grande arriverà Camille, che porterà nella vita di Mylia il ribelle Jimmy: il ragazzo della vicina riserva indigena Abenaki farà capire a Mylia l’importanza di non sottovalutare il valore della diversità.
Il film canadese, del Quebec, della Dulude-De Celles ha il grande merito di presentare uno spaccato di vita familiare, il ritratto quotidiano di una giovane donna di 15 anni, senza giudicare, con un distacco che ci permette di osservare le piccole difficoltà che un adolescente sensibile deve superare per poter costruire delle normali relazioni sociali. La macchina da presa segue la costruzione di giovani esistenze alle prese con la ricerca del loro posto nel mondo, di un luogo dover poter pian piano essere se stessi.
Šavovi – di Miroslav Terzić – Panorama
Il figlio di Ana, secondo l’ospedale, è morto subito dopo la sua nascita: oggi avrebbe 18 anni. Ana però non è convinta che il suo bambino sia davvero deceduto. Vorrebbe vedere il luogo in cui è stato sepolto, che però non si trova. Per Ana il destino di suo figlio è un tormento da cui è impossibile liberarsi: è vivo o è veramente morto? Questo interrogativo sconvolge da sempre le dinamiche di una famiglia ostaggio dei comportamenti ossessivi della donna, che ha immolato tutta la sua esistenza per ricercare la verità sul suo bambino. L’aria è densa, pensate. La figlia ventenne non sopporta di essere sempre stata messa da parte per fare spazio a quella che considera un’assurda follia della madre. Nell’appartamento del palazzone di architettura popolare sovietica tutto scorre in maniera triste, dolorosa: a comandare è il vuoto imposto da Ana. Un vuoto indomabile, che viene scosso da un’informazione nuova, una luce che apre una nuova speranza sulla storia di quel bambino perduto 18 anni prima.
Terzić parte da una storia vera, quella delle migliaia di bambini serbi dichiarati morti alla nascita e intorno a cui negli ultimi anni sono diventati sempre più pesanti i sospetti di compravendita da parte di infermieri e criminalità organizzata, sospetti alimentati dal pronunciamento della Corte Europea per i Diritti Umani sul caso Zorica Jovanovic v Serbia. La Corte nel 2013 ha evidenziato forti dubbi su una serie di circostanze relative al contesto del decesso del neonato dato alla luce dalla signora Jovanovic: il corpo del bambino non è mai stato riconsegnato alla signora Jovanovic; la causa della morte non è mai stata determinata; la sig.ra Jovanovic non ha mai ricevuto un referto dell’autopsia né è stata informata in alcun modo su quando e dove il suo bambino sarebbe stato sepolto; la morte del bambino non è mai registrata ufficialmente. Questi elementi si ripetono per centinaia di casi di bambini dichiarati morti alla nascita, in Serbia, fra il 1978 e il 2018 e intorno a cui le autorità locali continuano a operare in maniera poco chiara. Decine di investigazioni indipendenti hanno chiarito come in gran parte dei casi il destino dei bambini scomparsi sia stato quello di adozioni a pagamento, portate avanti, per decenni, tramite furto sistematico di bambini, con l’aiuto di una rete clandestina di medici, agenti di pompe funebri e impiegati governativi. Il film di Terzić, al di là dell’interesse cinematografico pure, è importante perché lascia una traccia concreta rispetto a un caso di cui si sa ancora oggi molto poco. Ci riesce, soprattutto perché supportato dalla straordinaria interpretazione della sua protagonista, una Snezana Bogdanovic che, tramite il rigore espressivo con cui sviluppa il suo personaggio, ci fa vivere in maniera potente l’angoscia del suo dolore, la sua storia di perdita e speranza.
Woo Sang – Lee Su-jin – Panorama
Il politico Koo Myung-hui è nel pieno della corsa per l’elezione a governatore della sua provincia, in Corea del Sud, quando viene investito da uno scandalo: il figlio Johan ha investito un uomo con la sua automobile, lo ha messo nel bagagliaio e lo ha portato nel garage di casa. Koo, che si considera un uomo moralmente onesto, convince Johan a consegnarsi alla polizia, poi prende quindi il corpo della vittima, Bu-na, un giovane che si scoprirà essere stato affetto da deficit cognitivo, e lo riporta, senza vita, sul luogo dell’incidente. Il fatto che la fidanzata di Bu-nam possa aver assistito all’incidente non è l’unica difficoltà che presto dovrà affrontare Koo.
Quello di Lee Su-jin è un thriller cupo, piovoso, nel quale gli elementi del neo-noir si fondono con la riflessione sul senso del potere e sulla percezione della morale e della rettitudine che abbiamo di noi stessi e degli altri. C’è dentro anche un sottotesto che riguarda la situazione politica degli immigrati clandestini nella Corea del Sud, spinti alla disperazione dall’incertezza della condizione. Eppure, nonostante i buoni propositi, questo film difetta per tempi (è troppo lungo) e, soprattutto, per equilibrio. Il peccato di Su-jin è quello di non aver saputo bilanciare tutte le idee buttate dentro una storia che pian piano lavora su troppe dimensioni, sino a far perdere allo spettatore il punto di vista principale. E’ un peccato, perché a tratti Woo Sang è un film che riesce a centrare sia l’obiettivo stilistico che quello narrativo.
The Body Remembers When the World Broke Open – di Elle-Máijá Tailfeathers, Kathleen Hepburn – Generation 14Plus
Rosie vive nello stesso quartiere di Áila, in una città non meglio identificata del Canada. Un giorno, sotto la pioggia, Áila incontra Rosie scalza, visibilmente turbata, piena di segni rossi e viola sul collo. La prende per mano e la trascina nel suo appartamento, in cui le dà i pantaloni della tuta e una maglietta bianca con cui cambiarsi e cerca di capire cosa è successo a Rosie, a persuaderla a chiedere aiuto.
Questo è un film fatto di primi piani, ed è tutto giocato sui visi, i corpi e le espressioni delle due protagoniste. Rosie, una giovane donna indigena incinta e con le punte dei capelli blu, vive con il partner e futuro padre del bambino, che la picchia violentemente, e la madre di lui. La loro è una casa ben diversa da quella di Áila, che ha invece una bella vista, è arredata con gusto e fa presumere una vita decisamente più agiata di quella di Rosie. Il film cerca di raccontare le differenze e i punti di contatto fra le due ragazze, il tentativo di costruire un momento di complicità e di solidarietà femminile, la distanza sociale che continua a sabotare i tentativi di avvicinamento, ingenui e un pò paternalisti, di Áila.
The Body Remembers When the World Broke Open è tratto da una storia vera, vissuta da una delle due registe, che interpreta Áila nel film, Elle-Máijá Tailfeathers.
Ci sono buone intenzioni e sensibilità in questo film, che non risolve né vuole risolvere i mille nodi che si sommano sul pettine di questo incontro: la maternità, la povertà, l’abuso, le disuguaglianze strutturali che marcano la vita delle comunità indigene in Canada.
La regista-protagonista è di origine sami e blackfoot, ma in confronto a Rosie sembra completamente bianca. Il momento del Q&A dopo la prima visione è stata una continuazione del film stesso: sul palco sono salite le due registe e la protagonista Rosie, Violet Nelson, scritturata per il ruolo durante un casting nella comunità indigena di Vancouver e che non aveva mai recitato in vita sua.
Mentre Elle-Máijá parlava accoratamente delle percentuali più alte di casi di violenza domestica e di sottrazione della custodia dei minori nelle famiglie della comunità come quella di Violet, Violet non diceva niente, ed a una domanda di un giornalista ha chiesto alle registe, con tono incerto e con un sorriso imbarazzato, se quello che aveva risposto andava bene. La potenza della differenza è rimasta, nonostante i vestiti tradizionali che le due protagoniste indossavano: è stato importante accorgersene di nuovo al di là dello schermo.
Viola Diana
Marighella – di Wagner Moura – Competizione (fuori Competizione)
Il colpo di stato che nel 1964 spazzò via in Brasile un governo legittimamente eletto e portò al potere una dittatura militare. Carlos Marighella all’epoca diventò allora il riferimento della giovane e inesperta resistenza armata del paese. Nato nel 1911, Marighella fu uno scrittore e politico nel solco della tradizione rivoluzionaria latinoamericana di personaggi come Zapata e Sandino, più distante dall’ “umanismo” di Che Guevara, che per Marighella costituì comunque un riferimento fondamentale.
Il film di Moura segue la vita di Marighella tra il 1964 e la sua morte violenta, avvenuta nel novembre del 1969. Dentro troviamo le enormi difficoltà incontrate dalla resistenza nella penetrazione del sistema di censura della dittatura, una censura che rese impossibile avvicinare la popolazione alla battaglia per la libertà, decretando l’annientamento del gruppo rivoluzionario. Marighella racconta anche le torture e la violenza di un periodo sociopolitico nel quale nel Brasile imperversava la legge della strada. Eppure, nonostante sia un film importante per la traccia storica che lascia, non riesce a superare il limite del didascalismo, ad aprirsi in maniera davvero completa all’analisi, allo stile. Non c’è traccia, ad esempio, della società brasiliana dell’epoca, così come non c’è la capacità di entrare in profondità dentro i personaggi, che si muovono meccanicamente nel gioco doloroso della rivoluzione armata, ma dei quali non intravediamo nient’altro che l’azione politica.
In copertina, un fermo immagine da Synonymes, il film vincitore della Berlinale 2019
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