Tutte le rilevazioni relative alle elezioni federali tedesche del prossimo 26 settembre danno la SPD fra il 25 e il 27% dei consensi, seguita dalla CDU-CSU, ferma intorno al 21%, i Verdi, fra il 15 e il 17%, il Partito Liberale Democratico FDP e la destra di AfD, entrambi all’11%, e quindi la sinistra della Linke, al 6%. Storicamente i sondaggi elettorali tedeschi sono considerati molto affidabili: dal 2001 ad oggi solo due volte hanno prodotto delle previsioni errate oltre il 3%. L’ultimo grande abbaglio dei sondaggi risale alla precedente tornata elettorale, quando, nel 2017, le rilevazioni sovrastimarono la CDU-CSU, data oltre il 36% e poi fermatasi invece al 32,9%. La discrepanza, fu spiegato, dipese dalla difficoltà di calibrare con efficacia l’intenzione di voto verso Verdi e AfD, i cui sostenitori risultano essere più riluttanti, soprattutto a destra, rispetto alla diffusione della propria preferenza politica. Oggi, però, la situazione appare stabile, grazie a una conoscenza del territorio elettorale più profonda, che dovrebbe aver permesso alle società di rilevazione di ricomporre il quadro entro margini di errore contenuti: non sembrano possibili sorprese dell’ultimo momento e le previsioni dovrebbero essere rispettate.
Più in là dei sondaggi, alcune informazioni fredde possono risultare particolarmente utili per comprendere al meglio il contesto di queste elezioni federali in Germania, soprattutto se il tentativo è quello di analizzare l’elettorato tedesco e la maniera in cui esso si approccia alla scelta del governo che dovrà guidare il paese per i prossimi quattro anni. Dal 1949 ad oggi la Germania (intesa come Germania dell’Ovest e, dal 1990, Germania riunificata) ha avuto appena 8 cancellieri: Adenauer, Erhard, Kiesinger, Brandt, Schmidt, Kohl, Schroeder, Merkel. Nello stesso periodo l’Italia ha alternato 41 presidenti del consiglio, il Regno Unito 15. In totale le tedesche hanno formato 24 governi, solo due dei quali sciolti anticipatamente per difficoltà di natura politica. Infine, solo due volte in oltre 70 anni di Cancelleria la presidente uscente non si è ricandidata. Questi semplici elementi (e tanti altri si potrebbero menzionare), tracciano una tendenza molto netta: ai tedeschi non piace cambiare. La storia elettorale della Germania racconta di elezioni più volte dominate da candidati in grado di mostrarsi non semplicemente affidabili, ma soprattutto prevedibili agli occhi dell’elettorato.
È a partire da questo concetto di prevedibilità che va considerato l’incredibile crollo della CDU-CSU, passata da intenzioni di voto che per un intero anno (dal marzo 2020 al marzo 2021, sull’onda delle gestione della pandemia) hanno visto il partito di Angela Merkel navigare fra il 35 e il 40% delle preferenze, al 21% odierno. Quasi venti punti dilapidati nel corso di appena cinque mesi dal candidato prescelto per la successione alla Cancelliera, Armin Laschet. La scarsa consistenza del suo eloquio politico si è combinata, disastrosamente, a una serie di uscite pubbliche rovinose, il cui culmine si è registrato durante le visite del presidente della CDU nei luoghi delle alluvioni che hanno colpito i land di Renania-Palatinato e Nordreno-Vestfalia lo scorso luglio. Laschet, in quell’occasione, è stato infatti sorpreso a ridere, di gran gusto, mentre il Presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier si intratteneva con le giornaliste commentando accoratamente uno degli eventi naturali più catastrofici vissuti dalla Germania del Dopoguerra. L’inadeguatezza di Laschet, una sorta di colpo di grazia, si è cristallizzata in maniera definitiva nel corso dei tre dibattiti televisivi, l’ultimo dei quali andato in onda domenica 19 settembre, che lo hanno visto a confronto con Olaf Scholz, candidato SPD, e Annalena Baerbock dei Verdi. Il successore di Angela Merkel alla guida della CDU non è mai stato in grado di reggere la discussione politica con i suoi avversari e in più di una situazione ha dato un’impressione di estrema vaghezza, specie quando sollecitato a misurarsi nel merito del programma di governo, al contrario di Scholz, molto preciso, per quanto parimenti arido, e per questo uscito vincente da tutti i confronti.
Va detto, a onor di verità, che Laschet nel corso della sua campagna elettorale non è stato particolarmente supportato dal suo partito. La sensazione, come ha spiegato il professor Wolfgang Schroeder del Wissenschaftszentrum Berlin, è che la CDU “non sappia come rendere Laschet rappresentativo delle idee del partito”. Evidente, in questo senso, è stato anche lo scarsissimo apporto di Angela Merkel, che nel corso degli ultimi sei mesi non ha mai utilizzato il suo prestigio personale per aiutare la corsa del candidato CDU alla presidenza, un distacco così imponente che negli ultimi giorni la Cancelliera si è sentita in dovere di ribadire l’ovvio, e cioè a dire che lei voterà per Laschet.
Ha pagato dazio (forse più del dovuto) alla “logica della prevedibilità” su cui si fonda la corsa alla Cancelleria in Germania anche Annalena Baerbock, la candidata dei Gruene, che in un primo momento erano stati capaci di capitalizzare il crollo della CDU, andando a toccare quota 28% nei sondaggi lo scorso aprile, quando le prospettive di un esecutivo CDU-Verdi a guida Baerbock sembravano solidissime. Baerbock è finita però nel più classico dei tritacarne elettorali, con accuse incrociate (e purtroppo vere, per quanto ingigantite dagli avversari) di aver gonfiato il suo curriculum vitae, di non aver dichiarato al fisco alcuni compensi e di aver riempito il suo ultimo libro, Jetzt: Wie wir unser Land erneuern (Adesso: come rinnovare il nostro paese) di passaggi copiati qua e là da testi e articoli trovati online, senza alcuna citazione delle fonti. La luna di miele con l’elettorato tedesco è durata così lo spazio di appena cinque settimane, dalla fine di aprile all’inizio di giugno, il tempo di sognare una svolta epocale per il dopo-Merkel e riporla con cura nel cassetto dei “si vedrà”.
Sono queste le dinamiche complessive che hanno portato alle previsioni odierne, con Olaf Scholz che, al di là delle qualità effettive, è diventato una sorta di Last Man Standing, un ultimo uomo in grado di sottolineare al massimo i suoi punti di forza e di presentarsi oggi agli elettori tedeschi come estrema ancora di salvezza, come l’unico fra i candidati capace di raccogliere l’eredità di Angela Merkel. Scholz è stato in grado di compattare la SPD durante la campagna elettorale, ha atteso il suo momento e ha puntato in maniera assoluta e determinata su un’immagine che lo ponesse in continuità, e non in rottura, con la Cancelliera, proponendosi, credibilmente, come il suo successore naturale. Le sue posizioni moderate e la tendenza, tipicamente merkeliana, di evitare qualsiasi occasione di scontro diretto, lo rendono in questo momento noioso e prevedibile al punto giusto da incarnare, se non il Cancelliere perfetto, la scelta meno rischiosa in un’elezione vissuta da molti tedeschi con l’enorme dubbio di come si trasformerà la Germania senza la guida di Angela Merkel.
Non sarà, in ogni caso, un sentiero diritto quello che dovrà percorrere Scholz sulla strada verso la Cancelleria. I numeri, a meno di sorprese, obbligheranno la formazione di un governo a tre partiti, e nessuna delle opzioni a disposizione sarà di semplice combinazione. Una coalizione che veda ancora al governo CDU-CSU ed SPD è un’alternativa numericamente possibile (con il supporto di Verdi o Liberali), ma che entrambi i Volkspartei cercheranno di tenere a distanza dopo otto anni consecutivi di Große Koalition. L’opzione più verosimile sembrerebbe al momento la cosiddetta Ampelkoalition (coalizione semaforo), con SPD, Verdi e FDP. Lindner, segretario dei liberali, ha dichiarato la disponibilità ad ascoltare ogni proposta, ma la condizione di partenza per qualsiasi trattativa è che gli venga lasciato il dicastero della Finanze, un ruolo chiave, sulle cui politiche si giocherà gran parte della trattativa per comporre, eventualmente, l’esecutivo: è proprio sui temi di natura economica che SPD e Liberali sono più distanti, con Scholz che ha in programma una tassazione supplementare per i redditi più ricchi e un aumento del salario minimo, due misure osteggiate duramente dalla FDP.
Non è escluso, alla fine, che le trattative fra SPD e gli altri partiti possano arenarsi e che ad andare al governo sia una coalizione formata da CDU-CSU, Verdi e Liberali, un’ipotesi a lungo percorsa già nel 2017 e saltata all’ultimo momento proprio per il rifiuto dei liberali di accettare le istanze di Union e Verdi su rifugiati e cambiamento climatico. L’impressione è che questa volta, però, Lindner e la FDP vogliano andare al governo e giocarsi in maniera diversa le loro carte.
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