Germania Anno Zero è una serie di contenuti attraverso i quali cercheremo di esplorare le grandi trasformazioni politiche, sociali e culturali in atto nel paese tedesco, a un anno di distanza dalle elezioni federali del 2021, che dovrebbero sancire il ritiro definitivo di Angela Merkel.
A oltre 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino, la Germania è oggi una nazione molto più complessa e articolata di quanto venga invece usualmente proposto da una narrativa giornalistica e letteraria spesso stereotipata o centrata su una serie di concetti retorici di culto.
Il nostro sarà un viaggio che terminerà nel novembre del 2021, alla scoperta, in tempo reale,
della nuova Germania contemporanea.
Con all’interno un’ intervista a Reint E. Gropp, Presidente del Leibniz Institute für Wirtschaftsforschung – Halle.
L’annuncio è stato dato, forse non a caso, cinque giorni dopo il trentennale del crollo del Muro. Il 14 novembre 2019, il Governo di coalizione composto da CDU e Socialdemocratici ha annunciato di avere completato la stesura della legislazione che, a distanza di 30 anni esatti dalla sua introduzione, porterà all’abrogazione entro il 2021 di larga parte della Solidaritätszuschlag. Si tratta della cosiddetta “Imposta di Solidarietà”, un contributo fiscale istituito nel 1991 per co-finanziare i trasferimenti fiscali straordinari da destinare ai Länder della ex- Germania dell’Est, e contribuire quindi al rilancio della porzione di economia tedesca rimasta al di là della Cortina di Ferro fino alla fine del blocco sovietico.
Come da prassi nella ormai pluriennale Große Koalition tra CDU e SPD, anche questa storica manovra fiscale è il risultato di un compromesso tra le due anime del governo. L’imposta non verrà infatti abolita del tutto. Il partito della Cancelliera Angela Merkel era intenzionato ad eliminare l’imposizione fiscale anche sui redditi più elevati, ma ha incontrato l’opposizione dei suoi partner di governo socialdemocratici, fautori del mantenimento della progressività fiscale. L’eliminazione dell’imposta sarà quindi momentaneamente valida per il 90% dei contribuenti, sarà ridotta per un altro 6,5% e mantenuta inalterata per il 3,5% più benestante. Nondimeno, il Governo di Berlino rinuncerà a quasi 11 miliardi di entrate, su un totale di circa 19 miliardi di gettito restituito dall’imposta nel 2019. Di ulteriori riduzioni o eliminazione totale, si parlerà nuovamente dopo i risultati elettorali del prossimo settembre e l’inaugurazione del primo cancellierato post- Merkel.
I calcoli elettorali hanno certamente avuto la loro importanza; con le elezioni politiche del 2021 alle porte, entrambi i partiti di governo portano a casa un risultato apprezzabile per i rispettivi elettorati: per la CDU una riduzione delle imposte di impronta liberale; per la SPD il mantenimento di una imposizione redistributiva sui redditi più elevati. Ma l’adozione della misura non è una affatto una vendita di populismo fiscale a fini elettorali.
Dal 2013 in poi infatti la Solidaritätszuschlag ha portato nelle casse dello Stato ben più liquidità di quanto il governo di Berlino ne spendesse effettivamente per sussidiare i Länder tedesco-orientali: nel 2019, a fronte di 19 miliardi di entrate, solo 4 miliardi erano ancora spesi per questo scopo. Oltre ad una parte destinata ad altri finanziamenti, come gli aiuti ai Paesi neo-comunitari dell’Est Europeo ed alla cooperazione internazionale, larga parte della “Soli” – come è popolarmente nota tra i tedeschi – ha contribuito alla ulteriore riduzione del già magro indebitamento governativo di Berlino e di quello dei singoli Länder.
La ragione di questo surplus fiscale risiedeva principalmente proprio nel calo costante dell’ammontare dei trasferimenti. Secondo i dati del Ministero delle Finanze, i finanziamenti straordinari confluiti nei Länder della ex-DDR registrati nel 2019 sono stati appena un quarto di quelli erogati nel 2005, quando ammontavano ad oltre 16 miliardi di Euro annui, e superavano le risorse raccolte con la Solidaritätszuschlag medesima.
Il declino di questi trasferimenti indica senza dubbio che le necessità di investimenti nel recupero dell’economia dell’Est siano diminuite. Una circostanza che porta a porsi una domanda di importanza capitale per il futuro della Germania post-Merkel: a trent’anni di distanza dalla riunificazione, quanto del divario è stato colmato? E cosa rimane da fare?
La questione del divario tra Germania Orientale ed Occidentale è stato per anni un terreno di aspra disputa politica. Nonostante il vistoso miglioramento delle condizioni economiche e sociali registrato dal crollo del Muro, nell’ultimo quinquennio la discussione sul ritardo dei Länder della ex DDR ha visto un ritorno al centro dell’arena politica per il suo ruolo di grimaldello sul suolo tedesco del populismo di destra, altrimenti assai più debole che in altre nazioni europee.
Proprio negli Stati federali dell’Est, infatti, Alternative Für Deutschland ha mietuto i suoi successo elettorali più vistosi nell’ultimo quinquennio. Sul banco degli imputati per gli exploit elettorali dell’estrema destra è finita infatti la scelta di allocare l’ondata dei rifugiati siriani del 2015-16 nelle regioni tedesche orientali. E che sempre secondo i critici del governo di Große Koalition, sarebbe una spia di quanto le condizioni economiche della regione fossero ancora oggi più precarie di quanto si pensasse. Anche al netto di quanto la questione immigrazione abbia contribuito a rinfocolare il dibattito, sulle cause e l’intensità dell’arretratezza dei Länder tedesco-orientali non vi è un consenso condiviso su tutti gli aspetti della lunga strada post-unificazione. Così come sono ancora discusse, col senno di poi, le politiche di privatizzazione e liberalizzazione dell’economia adottate dopo il 1989 e l’efficacia dei trasferimenti fiscali.
Si tratta di una tematica che richiede un paziente lavoro di ricerca statistica e di raccolta, scomposizione e analisi dei dati. E che puó essere svolto solo da un team di economisti focalizzati sugli studi delle evoluzioni dell’economia su base regionale. Ma anche sulla storia economica recente e passata.
Il professor Reint E. Gropp è un economista con esperienza lavorativa presso il Fondo monetario internazionale e la Banca centrale europea, e come docente presso Goethe-University di Francoforte sul Meno. Dal 2014 è professore di economia all’Università Otto von Guericke di Magdeburgo e presidente del Leibniz-Institut für Wirtschaftsforschung Halle (IWH), situato a poca distanza da Lipsia, in Sassonia. Si tratta dell’istituzione di ricerca che si è focalizzata maggiormente sul monitoraggio del divario Est-Ovest e sulle politiche economiche adottate dopo la riunificazione.
Il nostro interlocutore inizia la sua disamina con una premessa: “I dati in nostro possesso sono ancora tutti riferiti a prima della recessione innescata dalla pandemia COVID-19. Per stimarne gli effetti saranno necessari tempi più lunghi”.
Passando ai dati economici del divario, entriamo nel cuore della questione:
“Il divario economico tra regioni è misurabile con diversi parametri, dal più noto Prodotto Interno Lordo (PIL) pro-capite, al reddito personale e delle famiglie, fino alla produttività del lavoro.” Ma qualunque sia la misura che vogliamo utilizzare “il risultato della metrica è sostanzialmente lo stesso: la ex Germania Orientale è tutt’oggi del 20-25% più povera di quella Occidentale, e questa è la panoramica più vasta”.
Quando la scomposizione territoriale scende nel confronto dei Länder delle due regioni, l’analisi della disuguaglianza si fa già più complessa.
“Di contro, le differenze all’interno delle due regioni, sono assai più pronunciate all’Ovest che all’Est. Con l’eccezione della municipalità di Berlino, che ha ormai un reddito pro-capite in tutto e per tutto “Occidentale”, il Land più ricco, che è la Sassonia, ha una distanza in termini di reddito molto piccola con il più povero, che è il Meclemburgo-Pomerania. Al contrario, nella Germania Occidentale, la distanza tra i due più ricchi, la Baviera ed il Baden Württember, ed i due più poveri, cioè la Saarland e lo Schleswig Holstein, è decisamente più vasta.”
Questa prima sorpresa non inficia però la panoramica del divario Est – Ovest. “Anche questi due Länder più poveri dell’Ovest” prosegue Gropp “sono comunque più ricchi su scala pro-capite di tutti gli Stati Federali dell’Est, esclusa la capitale.”
Per l’occhio dell’economista classico, il dato risulta deludente molto più di quanto possa esserlo per i non addetti ai lavori: “Al principio della riunificazione, eravamo tutti particolarmente fiduciosi in un rapido superamento del gap, sulla scorta della teoria della convergenza”. Secondo questa tesi, in un sistema economico dove c’è perfetta mobilità di movimento di capitale e lavoro, la parte più povera recupera rapidamente il divario perché da una parte attira gli investimenti in cerca di costi del lavoro ed operativi più bassi, mentre la parte più istruita della forza lavoro è libera di muoversi dove è meglio retribuita.
“La Germania unificata con l’estensione all’Est delle stesse istituzioni, senza confini politici e barriere commerciali e con la stessa madrelingua, ad inizio anni ‘90 appariva il candidato ideale. Ci si aspettava un gap se non inesistente comunque molto basso nell’arco di 15, massimo 20 anni. Questa aspettativa ottimistica, è stata soddisfatta solo in parte.”
La valutazione del divario tra le due parti della Germania, e dei risultati degli sforzi per colmarlo, non deve essere però essere calcolata solo sulla base dei dati attuali, bensì confrontando i dati odierni con quelli di partenza. Ovvero a che distanza si trovavano PIL, redditi e produttività tra le due regioni nel 1989-90, al momento della riunificazione. Sotto questa luce, i risultati appaiono molto più positivi.
“Per diverso tempo prima del crollo del Muro i dati economici della DDR non sono stati particolarmente trasparenti. Solo dopo il 1989 sono stati effettuati studi econometrici attendibili. I dati oggi disponibili, ci dicono che al momento della riunificazione, la ricchezza pro-capite del tedesco-orientale era il 40% di quello del suo ritrovato concittadino occidentale. Escludendo Berlino Est, il dato scendeva verso il 35%.”
Dato un reddito pro-capite attuale del 20-25% inferiore a quello dell’Ovest, il divario sarebbe quindi stato già ridotto di oltre il 60% del totale. E del 70% se si prende in considerazione anche l’area municipale di Berlino. Su scala europea, è degno di nota come il divario tra regioni complessivo della Germania si sia ridotto nel decennio 2003- 2013, a fronte di un aumento registrato nel resto del continente, soprattutto nel Regno Unito.
Prima di analizzare il come ed il perché della riduzione del gap ed al tempo stesso del suo permanere, le considerazioni fatte fin qui suscitano già ulteriori quesiti ed osservazioni.
Il primo riguarda l’apparente inefficacia della teoria della convergenza, verificabile non solo nel divario interno alla Germania post-1990, ma anche in quello ancora più vistoso tra Nord e Sud Italia, peraltro ampliato nuovamente dagli anni ‘70 in poi.
Il secondo quesito è come e perché questo divario si sia generato nel corso della Storia recente.
Come il Prof. Gropp ci fa notare, le risposte a queste due domande sono intimamente correlate tra loro: “Anche se vi sono molteplici analogie tra il caso del divario tedesco e quello italiano, le differenza storiche sono assai più vistose. A differenza del Mezzogiorno, nella Germania dell’Est l’industrializzazione e l’urbanizzazione erano ben presenti anche all’inizio della sua Storia come entità statuale indipendente”.
In effetti, Lipsia era fin dal XVIII Secolo un grande centro commerciale, sede di fiere di importanza europea. Ma era soprattutto Berlino ad essere, già negli anni ‘20, una metropoli all’avanguardia, soprattutto nell’industria dell’ingegneria elettrica con aziende quali Siemens e AEG.
“Su scala locale e cittadina, il divario prima del conflitto mondiale a volte era perfino rovesciato; vaste aree della Germania meridionale, oggi al vertice delle classifiche del reddito pro-capite, erano all’epoca assai più povere delle aree urbane dell’Est, e tra queste perfino parte della stessa Baviera”.
Nel 1944, nel bel mezzo delle devastazioni belliche, il divario tra quelle che poi sarebbero state le due Germanie era sceso letteralmente a zero, anche se per ragioni molto poco nobili. La Germania orientale aveva infatti temporaneamente beneficiato degli enormi investimenti del regime nazista nell’industria degli armamenti. Ma anche negli impianti di produzione di carburante sintetico derivato dal carbone, che era il vero segreto industriale del Terzo Reich, dato che consentiva a Hitler di ovviare l’assenza di di risorse petrolifere. La regione era inoltre assai più lontana dal raggio d’azione dei bombardieri britannici e statunitensi, che colpivano molto più duramente le aree di vecchia industrializzazione dell’Ovest, come Brema, Amburgo e soprattutto il bacino industriale della Ruhr.
Nell’immaginario comune, ed in parte a ragione, a delineare le differenze tra Est ed Ovest che si presentarono all’appuntamento della riunificazione, fu naturalmente il quarantennio della separazione tra Est ed Ovest. Il grande boom economico della Germania Occidentale e la crescita assai più modesta della DDR, seguita dalla stagnazione della sua economia e dell’intero blocco sovietico tra la fine degli anni ‘70 e gli anni ‘80.
Tuttavia, secondo il professor Gropp, una parte più che significativa del solco fu scavata già nel quinquennio 1945-49, cioè durante il duro regime di occupazione militare stabilito dall’Unione Sovietica nella regione.
“Mentre in Occidente gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia abbandonarono presto le intenzioni di de-industrializzare la Germania, l’URSS perseguì deliberatamente per anni questa strategia. Oltre all’imposizione di riparazioni pecuniarie assai più pesanti di quelle comminate all’Ovest, un quantitativo enorme di industrie, macchinari e tecnologia fu letteralmente requisito dalla Germania orientale e trasferito in Unione Sovietica e nel resto della futura area del Patto di Varsavia. L’output industriale eliminato dai sovietici in questo modo fu superiore ai danni provocati nella regione dai bombardamenti aerei alleati durante il conflitto.”
A questa sottrazione coatta di infrastrutture industriali, si aggiunse il fatto che l’economia della neonata DDR fu brutalmente tagliata fuori dagli scambi con suo partner naturale, cioè l’Ovest della Germania, principale acquirente dei suoi prodotti finiti e fonte di capitali in entrata nella regione. “La DDR iniziò la sua storia quarantennale con una capacità produttiva già di oltre un terzo inferiore a quella della Germania Occidentale. La conseguenza fu una ripresa economica molto più lenta e difficoltosa di quella dell’Ovest”.
Ciononostante, durante la Guerra Fredda, la Repubblica Democratica Tedesca fu a lungo considerata – assieme alla Cecoslovacchia – l’enfant prodige economico del blocco comunista.
Stando alle serie storiche dell’economista Angus Maddison nel suo volume World Economy pubblicato nel 2006, al momento della crisi petrolifera del 1973 il PIL pro-capite tedesco orientale era superiore di un terzo rispetto a quello dell’URSS e del resto dei membri del Patto di Varsavia. Il divario con la Germania Occidentale in termini di PIL pro-capite si era però allargato da un terzo alla metà rispetto al 1950, e l’Ovest era già allora doppiamente più ricco dell’Est. Nondimeno, nel 1973 la DDR rasentava la parità con le economie all’epoca più povere dell’Europa occidentale, ovvero Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia.
I restanti quindici anni di storia economica della DDR videro però svanire rapidamente anche questi record soprattutto durante la stagnazione che investì buona parte del blocco sovietico prima della sua disgregazione. E ben più di quanto si fosse creduto, come sottolinea Gropp: “Al momento della riunificazione, fu chiaro a tutti gli osservatori che la forza dell’economia della DDR era stata largamente sovrastimata anche in Occidente. Per quanto concerne il periodo pre-unificazione, la Germania Orientale era assai meno benestante di quanto diversi studi avessero indicato”.
Non mancavano tuttavia sorprese positive in alcuni ambiti, come per esempio l’economia delle aree rurali:
“L’agricoltura della DDR, organizzata in grandi cooperative a guida statale, al momento della transizione verso il mercato ha lasciato in eredità aziende mediamente più grandi di quelle dell’Ovest. E proprio in quanto più grandi, sono anche più efficienti e produttive, a fronte di aziende agricole relativamente piccole in Occidente, sotto questo aspetto abbastanza simili a quelle italiane. Il risultato è che il divario tra le aree rurali dell’Est e quelle dell’Ovest è oggi assai più piccolo di quello generale.”
Un altro e ben più importante lascito positivo della DDR fu la relativa efficienza del suo sistema educativo, per quanto i programmi scolastici fossero tarati su standard diversi di quelli occidentali:
“La percentuale di popolazione adulta o in età di studio dotata di lauree o certificati professionali equivalenti nel 1989 era perfino superiore all’Est rispetto all’Ovest. In particolar modo per quanto riguardava l’istruzione tecnica ed ingegneristica.”
Le buona notizie al momento del crollo del Muro finivano però qui. Il divario economico e di efficienza produttiva si presentava invece estremamente vasto tra le zone urbane e suburbane delle due Germanie.
I problemi in questo senso, come afferma il Professor Gropp, erano quelli tipicamente lasciati in eredità delle economie pianificate del blocco sovietico: “La ex-DDR usciva da quattro decenni durante i quali l’allocazione di capitali, investimenti, manodopera e risorse era avvenuta per lo più senza aderire a logiche di profittabilità e di mercato, bensì per volontà politica. Inoltre, la pianificazione economica avveniva sempre all’interno della complicata macchina di divisione dei ruoli guidata dall’Unione Sovietica. Ogni economia del COMECON si specializzava in un tassello che non doveva competere con le nicchie produttive degli altri Paesi del blocco, spesso con poca aderenza alle risorse naturali e tecnologiche disponibili.”
Anche nella DDR, il risultato fu un’economia delle aree urbane sbilanciata in favore dell’industria pesante metallurgica, chimica e meccanica. Mentre le città dell’Ovest erano in prima fila nell’Occidente europeo nella transizione verso l’economia del terziario.
I primi anni ‘90 parvero però confermare momentaneamente le previsioni ottimistiche di chi vedeva una rapida convergenza a portata di mano: “Buona parte della chiusura del gap verificatosi avvenne infatti proprio durante il primo decennio post-Muro. Negli anni ‘90, il reddito pro-capite dell’Est salì molto rapidamente dal 35% di quello dell’Ovest del 1989 al 65% alla fine degli anni ‘90.”
Le iniziative politiche che spinsero questo prima riduzione del gap furono due.
La prima fu il successo della fase iniziale della privatizzazione dell’economia, portata avanti nel 1989-90 già dall’ultimo governo provvisorio della DDR guidato da Hans Modrow prima dell’unificazione. Come analizzato nei paper dell’IWH dal Professor Heinrich Blum, il predecessore di Gropp alla guida dell’Istituto, questa fase fu di largo successo in quanto relativamente agile sotto il profilo del passaggio ai diritti di proprietà e delle competenza del management imprenditoriale.
Ad essere privatizzate per prime furono infatti le piccole imprese, attive soprattutto nella vendita al dettaglio, nel commercio, nell’artigianato e nelle piccole produzioni in generale.
Come sottolinea Gropp, questa circostanza sfata anche un’idea assai diffusa in Occidente: “Contrariamente a quanto si crede, non tutte le attività economiche della DDR erano direttamente controllate dallo Stato. Negozi, commercio al dettaglio, servizi alla persona e piccole attività artigianali rimasero sostanzialmente private”. Queste attività furono inquadrate in cooperative ed organizzazioni-ombrello di Stato negli anni ‘70 durante l’ultima ondata di concentrazioni promossa dal regime di Honecker.
“Anche se molto deleteria per la salute complessiva dell’economia, questa operazione avvenne lasciando in larga parte al loro posto i titolari e lavoratori originari delle imprese, i quali nel 1990 si videro semplicemente restituire la proprietà giuridica delle attività che già gestivano”.
Questo primo stadio di liberalizzazione coinvolse circa il 40% della forza lavoro tedesco-orientale, e promosse una decisa diversificazione dell’economia in direzione dei servizi, anche se di basso contenuto tecnologico e bassa produttività del lavoro.
Il secondo ed assai più importante pilastro del veloce recupero degli anni ‘90 fu l’intervento pubblico: “La Germania riunificata riversò risorse gigantesche nella realizzazione di infrastrutture e nel rinnovamento di quelle esistenti, dalle strade alle ferrovie, dai porti agli aeroporti.”
Gli interventi di investimento pubblico furono particolarmente incisivi sulle infrastrutture più consone alle economie avanzate e dove la DDR era cronicamente indietro rispetto all’Occidente, come nel caso delle telecomunicazioni.
“Basti pensare” prosegue Gropp “che nella DDR ancora mancava una copertura totale delle linee telefoniche nelle abitazioni private. Gli investimenti pubblici nel colmare le falle dei servizi diedero una spinta notevole all’economia dell’Est”.
I dati dell’IWH confermano il pieno successo di questa prima fase: l’economia dei Länder dell’Est nella prima metà degli anni ‘90 crebbe a tassi praticamente “asiatici”, tra il 5 e l’8% annuo.
Poi, nel 1997-98, questa spinta propulsiva si esaurì bruscamente. L’economia dell’Est tornò a crescere a tassi nettamente inferiori a quelli dell’Ovest e, con l’eccezione del biennio 1999-2000, quasi sempre tra lo 0 e l’1% annuo ininterrottamente, fino al 2005. Un rallentamento al quale si aggiunse la recessione dell’intera economia tedesca ad inizio nuovo millennio, dopo il crollo della bolla della New Economy.Perché questo brusco arresto della convergenza?
“Il problema fondamentale” prosegue il Direttore dell’IWH “fu che una volta esaurito l’effetto di stimolo dei finanziamenti pubblici per la ricostruzione delle infrastrutture, il nuovo settore privato della Germania dell’Est si rivelò poco produttivo o proprio non in grado di crescere con le proprie gambe. La riduzione del gap è poi proseguita, soprattutto negli ultimi quindici anni. Ma ci sono voluti altri vent’anni per passare da un gap del 35% al 20-25%, mentre in meno di un decennio si era passati dal 60-65% al 35%”.
Le ragioni di questo vistoso rallentamento della convergenza risiedono in tre ulteriori fattori che caratterizzarono il processo di transizione dell’Est nell’economia di mercato. E che sono anche i più aspramente dibattuti, per gli effetti collaterali di cui furono portatori.
Il primo fu la politica della parificazione 1 : 1 del tasso di cambio tra il Marco dell’Est con quello dell’Ovest. La misura fu ritenuta una necessità per aumentare rapidamente il potere di acquisto monetario dei cittadini dell’Est. E per mettere fin da subito un freno all’inflazione prodotta dalle scarsità di beni di consumo nell’Est permettendo ai consumatori locali di acquistare i beni di largo consumo in arrivo da Ovest. Un rischio tutt’altro che trascurabile nelle economie ex-socialiste in fase di transizione: basti pensare alle cifre a tre zeri dell’inflazione che esplose in Russia nei primi anni ‘90 appena i prezzi vennero deregolamentati.
Assieme al cambio valutario, furono automaticamente rivalutate anche le prestazioni del sistema di welfare, come sussidi di disoccupazione e le pensioni pubbliche.
Questa politica di sostituzione monetaria è finita nel corso degli anni sotto attacco da più parti dello spettro politico. L’allora Presidente della Bundesbank rassegnò le dimissioni considerandola troppo generosa, suscitando il plauso dei conservatori fiscali. Ma l’accusa più circostanziata è quella di avere affossato la competitività dei beni e servizi prodotti nell’Est, rendendole meno convenienti e contribuendo a stroncare la già malmessa industria ereditata dalla DDR. Non da ultimo, la rivalutazione rese assai pesanti le condizioni di famiglie ed imprese alle prese con elevati tassi di indebitamento.
Come sottolinea Gropp, “la parificazione dei due Marchi all’Est fu l’equivalente di un gigantesco rialzo dei tassi di interesse monetari. Il tasso di cambio non ufficiale tra le due valute prima della parificazione era di 4 Marchi orientali per 1 Marco occidentale. Provate ad immaginare un quadruplicazione del valore di una moneta in pochi mesi su un qualunque Paese odierno. Ovviamente sarebbe uno shock pesantissimo anche per una economia solida come la Germania nel suo complesso. E lo sarebbe ancora di più sui soggetti finanziariamente più fragili e la competitività dei prodotti sui mercati esteri” .
Le alternative a questa politica, come ci illustra il nostro interlocutore, erano però pressoché inesistenti. Infatti non era materialmente possibile mantenere due sistemi monetari in una singola nazione, in quanto per i tedeschi orientali sarebbe stato come creare una “gabbia” di reddito, con le inevitabili conseguenze.
“Un cambio inferiore avrebbe spinto milioni di tedeschi orientali alla fuga verso l’Ovest in pochi mesi, a causa delle disuguaglianze di potere di acquisto che questo dualismo avrebbe generato. La parificazione dei due marchi fu chiaramente una mossa politica, con implicazioni pesanti e facilmente criticabili. Ma i suoi detrattori non sono a tutt’oggi in grado di indicare quali alternative esistessero a questa riforma”.
Ciononostante, e qui veniamo al secondo fattore, anche l’obiettivo di evitare una emigrazione di massa di lavoratori verso l’Ovest attraverso la parificazione del cambio fu raggiunto solo in parte.
“Come già sottolineato, la Germania dell’Est aveva lasciato in dote una vasta platea di manodopera ben istruita e qualificata, in particolar modo tecnici di vario grado di specializzazione ed ingegneri. Si trattava di figure professionali che, emigrando all’Ovest, potevano accedere facilmente a stipendi anche tre volte superiori a quelli che avevano ad Est, senza contare l’elevata disoccupazione che seguì la chiusura delle grandi industrie statali.” Anche in presenza della rivalutazione dei loro risparmi e stipendi dovuto al cambiamento di valuta, il richiamo delle opportunità dell’Ovest fu un incentivo ampiamente superiore in favore dell’abbandono della regione.
Come sottolineato da Gropp: “L’emigrazione netta verso l’Ovest – cioè il saldo tra migranti dell’Est verso Ovest ed il trasferimento di persone dall’Ovest all’Est – tra il 1990 ed il 2013 è stato di 1,9 milioni di persone, in prevalenza lavoratori abbastanza o molto qualificati.” Considerato che la popolazione in età lavorativa della DDR al momento del crollo del Muro era di circa 9 milioni di persone, questo spostamento ha contribuito non poco a diminuire la disoccupazione. Ma, come osserva il direttore dell’IWH, questa fuga verso il benessere mostrò anche l’altra faccia della medaglia: “Il mercato del lavoro tedesco-orientale si è letteralmente svalutato, in quanto ha perso buona parte della popolazione maggiormente istruita in età da lavoro, ed ha arricchito enormemente quello della Germania Occidentale.”
Anche vedendo la questione sotto questa luce, il cambio 1 : 1 del Marco aveva dunque più che senso: “Senza questa misura, l’esodo sarebbe stato perfino peggiore, lasciando in Germania orientale esclusivamente anziani e lavoratori a bassissima qualifica”.
Questo indubbio brain drain esercitato dalla Germania occidentale nei confronti dell’Est, spinge il Professore a respingere la critica conservatrice all’unificazione fatta in Occidente, ovvero che si sia trattato di un processo avvenuto a spese dei contribuenti occidentali a forza di sussidi e trasferimenti a senso unico. E questo, soprattutto alla luce delle condizioni che l’economia tedesca attraversava nei tardi anni ‘90 e primi ‘2000.
“La forza dell’economia tedesca negli ultimi quindici anni è nota a tutti. Molto meno il fatto che la situazione non fosse per nulla altrettanto rosea fino a vent’anni fa. All’alba del nuovo millennio la Germania aveva tassi di crescita bassissimi, una produttività stagnante e nella pubblicistica iniziava ad essere additata come “il grande malato d’Europa”.”
Anche se la ripresa dell’economia tedesca da allora è stata dovuta a molteplici fattori, come le riforme del mercato del lavoro dei primi anni duemila e la competitività dell’export, “la Germania nella sua interezza fronteggiava già allora il problema dell’invecchiamento demografico e dell’assottigliamento della forza lavoro giovane e qualificata. L’influsso della migrazione dei lavoratori, soprattutto quando istruiti e qualificati, è stato decisivo nel riavviare il motore ingrippato della sua economia. Questa linfa vitale è giunta dall’immigrazione: negli anni ‘90 e inizio ‘2000 dai lavoratori qualificati tedesco-orientali che si spostavano ad Ovest. E successivamente dal resto d’Europa, prima dall’Est e poi dal Sud Europa dopo la crisi del 2008” .
Sotto questa lente, i trasferimenti fiscali dall’Ovest all’Est sono dunque stati ampiamente compensati. La Germania occidentale ha “pagato” fiscalmente l’afflusso di cervelli e manodopera qualificata, mentre quella orientale è stata compensata tramite questi di una perdita di valore aggiunto nel suo mercato del lavoro.
Peraltro, pur avendo diminuito la disoccupazione dell’Est, il gap educativo e di qualificazione dei lavoratori aperto dall’emigrazione si sta rivelando difficile da ripianare, come Gropp sottolinea: “Giunto al 1989 con più laureati dell’Ovest, l’Est ha oggi uno standard educativo della popolazione decisamente inferiore. Il quale pare trasmettersi in parte alle generazioni successive, dato che la regione ha anche un tasso di abbandono scolastico più elevato della media nazionale”.
Il terzo elemento più dibattuto è stata la seconda e ben più vasta ondata di privatizzazioni delle imprese della ex-DDR.
“Mentre la transizione all’economia di mercato di agricoltura e piccola impresa fu sostanzialmente di successo, la privatizzazione dei grandi conglomerati statali, in particolar modo industriali, fu assai più difficoltosa e foriera di problemi sociali, specialmente sul fronte occupazionale”.
Nel luglio 1990, sempre l’esecutivo provvisorio di Hans Modrow creò la Treuhandanstalt, un grande trust governativo incaricato di prendere in gestione e poi mettere sul mercato le imprese controllate direttamente dallo Stato. L’agenzia, che operò fino al 1995 quando le sue attività furono divise tra altri dicasteri governativi, si trovò a gestire la privatizzazione di ben 8.500 imprese che impiegavano quasi 4 milioni tra lavoratori, impiegati e quadri dirigenziali.
Il primo problema che la Treuhandanstalt dovette affrontare fu la ridondanza di molte attività all’interno della stessa industria. I grandi conglomerati statali della DDR erano spesso somme di più unità produttive che generavano gli stessi prodotti e servizi, e la privatizzazione in blocco avrebbe rischiato di ricreare sul mercato le stesse condizioni monopolistiche. Fu quindi deciso di de-monopolizzare le attività prima di privatizzarle, ma questo aumentò il numero delle imprese ad oltre 12.000 unità, circa un terzo. Di queste, circa 8.400 vennero messe sul mercato; ma ben 3.700 vennero considerate obsolete o ridondanti e finirono chiuse, con conseguenze molto gravi dal punto di vista occupazionale praticamente per tutti i quindici anni successivi.
Solo nel 2005, con la ripresa dell’economia dalla recessione dei primi anni 2000, il tasso di disoccupazione dell’Est iniziò a declinare rapidamente. Un trend proseguito ininterrottamente fino alla pandemia del Covid-19, superando agevolmente anche i contraccolpi della crisi finanziaria del 2008-09.
A distanza di tre decenni, l’annosa domanda permane: era possibile portare avanti la privatizzazione in modo diverso e con meno effetti collaterali negativi?
“Anche al momento dell’unificazione” – ricorda il Prof. Gropp – “il dibattito fu molto serrato, e si crearono sostanzialmente due scuole di pensiero. Una, più “gradualista” che invocava una privatizzazione più lenta che permettesse alle istituzioni dello Stato di ristrutturare e rendere più efficienti le imprese prima di metterle sul mercato, in modo da evitare almeno parte delle perdite occupazionali e di capacità produttiva. La seconda scuola di pensiero, più liberista, che invece invocava una rapida privatizzazione, lasciando al mercato il compito di ristrutturare il tessuto produttivo, ivi incluso il liquidamento delle imprese inefficienti”.
A prevalere fu certamente la seconda opzione. Si decise di privatizzare il più velocemente possibile e lasciare che il mercato guidasse il dimagrimento del vetusto apparato industriale rimasto nell’Est.
“Come economista, e con una formazione anglosassone” – prosegue Gropp – “sono certamente più vicino in linea di principio a questa scuola di pensiero. Il problema è che, all’atto pratico, è innegabile che in molti casi questo approccio non abbia funzionato.”
In diverse occasioni anche la combinazione di scioglimento dei conglomerati e privatizzazione ebbe successo. Come per esempio nel caso della Carl Zeiss AG a Jena, scissa in una compagnia omonima ed in una seconda chiamata Jenoptik e ad oggi entrambe aziende di grande successo nella meccanica di precisione su scala nazionale. “Ma è un dato di fatto”, prosegue Gropp “che la disoccupazione e la perdita di capacità produttiva registrata nell’Est raggiunse in quegli anni picchi poco tollerabili, soprattutto dal punto di vista sociale e quindi politico. Col proverbiale senno di poi, adottare un approccio diverso avrebbe dato frutti migliori. Ma anche in questo dibattito, come in quello sul cambio 1:1, manca la verifica controfattuale, nel senso che non è possibile sapere quali sarebbero stati i risultati conseguenti ad un approccio gradualista, bensì solo speculare su questa ipotesi”.
Il dibattito, oggi meno acuto nel pubblico per via del calo della disoccupazione ad Est, è però destinato ad arricchirsi presto di nuovi elementi laddove procede, cioè sul fronte accademico.
“I documenti relativi alle operazioni della Treuhandanstalt sono stati recentemente resi pubblici dal Governo tedesco. Si tratta di una mole di informazioni e reports colossale, se fosse tradotta sulla carta stampata sarebbe lunga 5 km. Ed inclusiva delle riunioni del Board dell’agenzia, dei suoi processi decisionali e degli studi effettuati sulle aziende da privatizzare. Nei prossimi anni, potremmo forse chiarire anche su scala macroscopica se l’approccio gradualista alla deregulation economica avrebbe potuto avere effetti migliori, sul fronte occupazionale come su quello della produttività”.
Nondimeno, il gap del tasso di disoccupazione tra la Germania Occidentale e quella Orientale è una storia dal relativo lieto fine. La ristrutturazione delle infrastrutture, la già menzionata migrazione verso occidente e soprattutto il boom del settore dei servizi nell’Est, hanno alla fine compensato buona parte della perdita di posti di lavoro post-riunificazione.
Il tasso di persone senza lavoro è enormemente diminuito rispetto agli anni ‘90 e primi 2000, quando raggiungeva il 18% in tutta la regione e toccava picchi tra il 20-25% in alcuni Länder, a fronte di una Germania occidentale che aveva tassi di non impiego del 7%.
“Prima dello scoppio della crisi legata alla pandemia Covid -19” – prosegue il Prof. Gropp – “i dati a nostra disposizione indicavano una discesa al 6% all’Est. Il divario nel 2019 era ancora di 2 punti percentuali con la Germania Occidentale, la quale però, con una disoccupazione intorno al 4%, aveva praticamente raggiunto una situazione di pieno impiego. Questo divario residuo è, a nostro parere, imputabile proprio al più elevato tasso di abbandono precoce degli studi che ancora permane nell’Est, che crea difficoltà agli individui nell’accedere ad un mercato del lavoro in cerca di figure sempre più professionali”.
Ma se la disoccupazione nella Germania Orientale è stata declassata a problema secondario, il sistema economico della regione è ben lontano dall’avere colmato il divario sotto un altro aspetto, ugualmente importante per le sue prospettive future: la produttività delle imprese.
Politici e commentatori hanno attribuito ed attribuiscono la bassa produttività della Germania orientale alle piccole dimensioni delle imprese. Ma per quanto certamente vero che nell’area orientale le aziende, soprattutto nei servizi, abbiano in larga parte questa caratteristica, la spiegazione non è convincente:
“Se confrontiamo la produttività di due aziende con più o meno 20 dipendenti all’Est ed una di analoghe dimensioni e attive nello stesso settore all’Ovest, la distanza in termini di produttività permane a prescindere dalle dimensioni. Le cause sono dunque altrove”.
I perché di questo ulteriore divario sono diversi, a partire dall’oggettiva obsolescenza di parte dell’apparato produttivo ereditato della ex DDR. Ma secondo il Professor Gropp e gli studi effettuati dal suo Istituto, la spiegazione principale risiederebbe proprio nei tentativi del governo tedesco di tenere in piedi imprese industriali dell’Est, sussidiando gli stabilimenti o facendo altrettanto con le acquisizioni da parte di investitori privati.
Un esempio eloquente in questo senso, è quello della VEB Chemische Werke Buna, situato proprio in Sassonia a poca distanza da Halle, dove l’IWH risiede.
“Werke Buna era uno dei cinque più grandi complessi industriali dell’Est. Al picco dell’occupazione, l’impianto e le aziende dell’indotto davano lavoro a quasi 30.000 persone. L’impresa produceva principalmente materiali plastici e fibre elastiche. Ma la scarsità di petrolio nell’economia della DDR, obbligava l’impianto ad utilizzare come materia prima il carbone”.
Si trattava di un processo chimico costoso, inefficiente e soprattutto inquinante. Werke Buna contribuiva non poco al degrado ambientale della quale soffriva la Germania dell’Est, in particolar modo il cosiddetto “Triangolo della Chimica” in Sassonia. “Nei giorni con poco vento, l’aria in questa regione era francamente irrespirabile, per non parlare della devastazione delle foreste ad opera delle piogge acide. Nel caso specifico di Werke Buna poi, la manutenzione era talmente scarsa da rendere l’impianto responsabile anche di frequenti sversamenti di mercurio ed altri inquinanti nel terreno”.
Al momento della riunificazione, lo stato di obsolescenza di Buna Werke era tale da renderlo in larga parte inutile o irrecuperabile, ed infatti nessuna azienda privata propose alla Treuhandanstalt di rilevarla. E qui iniziò una serie di eventi che rendono questo specifico caso un vero paradigma.
“Al contrario dei macchinari, il personale di chimici, ingegneri e addetti alla ricerca e sviluppo che lavoravano a Buna Werke era di qualità eccelsa, precisamente perché per decenni non avevano fatto altro che riparare e ottimizzare l’impianto a fronte di gravi carenze tecnologiche e di manutenzione di ogni tipo. Quando la Treuhandanstalt prese l’agglomerato in gestione, diedero subito le dimissioni in blocco per lavorare all’Ovest, dove la loro esperienza era ricercatissima e soprattutto ben stipendiata”.
Privato anche del personale specializzato, il sito industriale proseguì la sua agonia per anni senza trovare alcun compratore, e con un numero crescente di impianti dismessi e demoliti. Dai quasi 30.000 occupati degli anni ‘60, si passò a 7.000 nel 1992 e poco più di 3.000 all’inizio del nuovo millennio. Fu solo allora che gli impianti sopravvissuti vennero finalmente rilevati dal colosso chimico statunitense Dow Chemical.
“Il problema, fu che per essere convinta ad effettuare l’acquisizione, la multinazionale americana incassò dallo Stato tedesco ben 3 miliardi di euro di sussidi. Divisi per i lavoratori rimasti nell’impianto, stiamo parlando di 1 milione di euro per ogni posto di lavoro salvato”.
Il sussidiamento delle attività industriali e manifatturiere nell’Est è un capitolo controverso almeno quanto quello delle privatizzazioni. Dal 1991 al 2017, si stima che 42 miliardi di Euro siano stati spesi dal governo di Berlino per foraggiare il mantenimento della base industriale dell’Est. Una politica peraltro apertamente contraddittoria rispetto alla stessa privatizzazione, visto che inizialmente la bussola dei legislatori fu di liberare lo Stato il più velocemente possibile dalla gestione dell’economia, salvo poi spendere somme consistenti per sussidiarne il mantenimento in attività.In questo caso, il Prof. Gropp non risparmia giudizi assai severi, ma riconosce la ratio: “La disparità del tasso di produttività delle imprese dell’Est con quelle dell’Ovest, è dovuta in parte consistente al sussidiamento di queste attività inefficienti da parte governativa negli anni post-unificazione. Questi sussidi hanno mantenuto artificialmente in vita aziende non efficienti o ridondanti che altrimenti sarebbero scomparse. Al tempo stesso, non è però ignorabile quanto questo tipo di interventi allora apparisse necessario per lenire le conseguenze sociali della crisi industriale.”
Ad inizio anni ‘90, con la disoccupazione che in alcuni dei Länder dell’Est toccava picchi oltre il 20%, era comprensibile come la pressione sociale, e quindi politica, per intervenire a salvaguardare l’industria da ulteriori salassi occupazionali fosse irresistibile. “Tuttavia” – aggiunge Gropp – “il calo della disoccupazione verificatosi nell’Est dal 2005 in poi, rende la permanenza di queste politiche negli ultimi 15 anni poco giustificabile, e particolarmente controproducente.”
Secondo il Direttore dell’IWH, inoltre, a parte il timore di ricadute occupazionali ancor più gravi, la decisione di sovvenzionare la sopravvivenza dell’industria dell’Est fu dovuta anche ad una mentalità strategica arretrata nella classe politica tedesca di allora:
“Erano legislatori parte di una generazione che aveva assistito per tutto il dopoguerra al successo del manifatturiero tedesco all’Ovest. Al momento della riunificazione, pensarono all’Est come ad una terra nella quale ripetere le glorie del passato recente occidentale.” Una concezione del tutto miope, se si pensa che l’economia dell’intero mondo occidentale, e non solo tedesca, negli anni ‘90 era già largamente avviata sulla strada della de-industrializzazione e della prevalenza del terziario.
“Basti pensare che nel corso degli anni ‘90, il settore manifatturiero tedesco vide assai più perdite di posti di lavoro nella Germania occidentale rispetto alla ex DDR. Non c’era alcuna necessità sul mercato domestico, europeo e globale di un piccolo clone di ciò che già esisteva nella Ruhr, tanto più che nella Ruhr stessa era in fase di dismissione”.
L’erogazione di questi sussidi è comunque su una china calante da oltre vent’anni. Secondo i dati dell’IWH, da una media di 2,5 miliardi di Euro annui nel corso degli anni ‘90, si è poi passati al miliardo e mezzo dei 2000 ed a meno di un miliardo dal 2010 in poi. Questo declino, del tutto speculare alla attuale abolizione di buona parte della Solidaritätszuschlag, è oggi salutato con ottimismo dalla quasi totalità degli osservatori, incluso il nostro interlocutore.
“Il problema della Germania Orientale oggi, in un certo senso è esattamente il contrario di quello di 30 anni fa: la scarsità di lavoratori qualificati. Non vi è più alcuna necessità sociale di salvaguardare posti di lavoro davanti ad una disoccupazione particolarmente diffusa. La fine del supporto pubblico ad attività poco redditizie porterà probabilmente ad una riduzione del divario in termini di produttività.”
Il gap delle potenzialità future dell’economia tedesca orientale rispetto all’Ovest, non è però solamente il prodotto del sostegno artificiale governativo ad industrie poco competitive. Secondo il Professor Gropp, è l’intera economia tedesca a soffrire di un un “invecchiamento” – per così dire – del suo capitalismo, che poi ha conseguenze anche sulla capacità di ridurre ulteriormente il divario regionale:
“A molti osservatori, soprattutto tra i politici, piace additare come concausa del ritardo dell’Est la mancanza di sedi di grandi aziende nella regione, in particolar modo fuori da Berlino. Questo è sicuramente parte del problema, (anche includendo Berlino, le sedi di grandi aziende sono appena 35 in tutte la regione), ma nessuno di questi commentatori è in grado di specificare da dove queste grandi compagnie dovrebbero provenire”.
Non vi è infatti alcuna ragione logica che dovrebbe spingere una BMW o una Mercedes a spostare la propria sede coi relativi dipartimenti di ricerca ad Est, visto che le sedi storiche di queste compagnie sono tutte nella parte occidentale. La chiave della risoluzione di questa parte del gap dovrebbe essere l’emersione di nuove imprese innovative direttamente nell’Est.
Ma è proprio qui che secondo il Prof. Gropp tocchiamo con mano il problema dell’intera economia tedesca: la Germania, specialmente sul fronte dell’innovazione, continua a ruotare attorno ai suoi storici punti forti dell’automotive e dell’ingegneria meccanica. Quello che negli ultimi vent’anni non è stato in grado di emergere, sono le startup innovative del settore high tech ed informatico, che hanno trasformato il panorama dell’economia mondiale nell’ultimo quarto di secolo. Ed in particolar modo quelle di grandi dimensioni, dotate di almeno un miliardo di dollari di capitalizzazione, meglio note nella pubblicistica come “Unicorns”.
“Se si guarda la storia delle prime 500 imprese tedesche per capitalizzazione, si scopre che che solamente il 2% di queste è stato fondato dopo il 1990. Nella stessa statistica per quanto riguarda gli Stati Uniti, la percentuale sale al 20%”.
Nella Germania occidentale questo non rappresenta un problema; in maniera analoga per esempio alla Corea del Sud, l’economia tedesca occidentale continua ad innovare decisamente al di sopra della media europea attraverso i bastioni storici del suo capitalismo, come Volkswagen. Anche l’IT non è del tutto assente in questa regione, come nel caso di SAP. Il problema è che la persistenza della concentrazione di capacità innovativa in questi giganti di antica fondazione non viene mai sfidata da nuovi attori emergenti, e ancor che meno nell’Est del Paese, il che contribuisce al permanere del divario.
“Le ragioni alla base di questa deficienza sono tante e complesse, a partire dalla rigidità del sistema di erogazione del credito alle imprese. Ma il dato di fondo è che per una azienda piccola, magari proprio fondata nell’Est, riuscire ad emergere nel panorama tedesco è relativamente difficile. Del resto è una problematica che risulta chiara anche scorrendo i grandi nomi dell’imprenditoria tedesca. Siemens, Benz, Bosch ed altri sono tutti passati a miglior vita. Zuckerberg, Gates e Bezos sono tutti più giovani del sottoscritto”.
Anche sotto questo aspetto c’è una piccola luce in fondo al tunnel proprio nell’Est, ed è il boom delle startups attive nei servizi e nel Fintech verificatosi a Berlino prevalentemente nell’ultima decade. Tuttavia, le dimensioni del fenomeno sono ancora sia troppo recenti che di dimensioni troppo ridotte.
“Si tratta certamente di un novità interessante ai fini della ulteriore riduzione del divario. Ma è una scena di dimensioni e complessità ancora molto inferiore a quella di metropoli come Londra e New York. E soprattutto è ben lungi dall’intaccare la problematica dell’assenza di “Unicorns” nell’economia tedesca in generale. Basti pensare che in tutta le Germania, aziende innovative di queste dimensioni sono di numero inferiore a quelle di Israele, che ha un decimo della popolazione tedesca”.
Queste le problematiche della lunga marcia della Germania Orientale verso la chiusura del divario che la separa dall’Ovest. Ma venendo al presente e futuro, quali sono le prospettive?
Il primo quesito è naturalmente quale impatto sta avendo ed avrà sul divario la crisi economica innescata dalla pandemia COVID-19. Un crollo economico non previsto fino al suo scatenamento ed ancora troppo recente per essere misurato nella sua interezza. Secondo il Prof. Gropp, ci sono buoni motivi per credere che la via della convergenza non sarà invertita da quanto accaduto.
“I dati a disposizione sono ancora molto parziali. Tuttavia, volendo azzardare valutazioni speculari, le esperienze delle due precedenti crisi post-unificazione, paradossalmente sono incoraggianti. Sia durante la recessione post-bolla dot.com dei primi anni ‘2000, sia durante la crisi del 2008, l’economia della Germania orientale è stata colpita dalla recessione, ma in modo più lieve rispetto a quella occidentale, migliorando la convergenza”.
In effetti l’economia occidentale, più basata su aziende grandi e globalizzate, è strutturalmente più vulnerabile a shock negativi sulla domanda di prodotti e servizi nei mercati di sbocco fuori dai confini tedeschi. Resta però l’incognita di come le chiusure delle piccole attività, così importanti per il settore dei servizi nell’Est, possano avere influito sulla regione.
Sulle prospettive di lungo periodo, il quadro è molto più in chiaroscuro.
La graduale scomparsa dei sussidi alle imprese industriali dell’Est è salutata dal mondo degli economisti con favore, ma resta l’incognita su dove gli investimenti pubblici verranno diretti in chiave di miglioramento della convergenza.
“La scelta di spendere somme miliardarie per sostenere aziende di settori comunque in declino e non più in grado di stare sul mercato, ha distolto per anni risorse che avrebbero potuto essere destinate a creare proprio nell’Est poli universitari di eccellenza. Questo avrebbe potuto frenare sia parte del brain drain diretto verso Ovest, sia il decadimento tutt’ora pendente degli standard educativi dell’Est. E non da ultimo, attrarre nella regione altri lavoratori qualificati. Che è precisamente quello di cui i Länder della Germania Orientale avranno urgentemente bisogno d’ora in avanti”.
Secondo il Professor Gropp e molti altri economisti, la priorità d’ora in avanti dovrà essere quindi investire sull’istruzione superiore di qualità e la creazione di infrastrutture web, atte a creare le condizioni per lo sviluppo nella regione di una economia high tech. E chiudere definitivamente il capitolo della Germania Orientale come rust belt del Paese.
Il riferimento alla carenza di lavoratori qualificati introduce un’ulteriore variabile che sarà determinante per il futuro di questa regione, che il direttore dell’IHW sottolinea:
“Le prospettive economiche della Germania orientale sono largamente dipendenti da come evolverà la demografia della regione.
L’Est sta infatti invecchiando assai più velocemente dell’Ovest, anche se vi sono differenze marcate tra città ed aree suburbane e di campagna. Berlino, Lipsia e Dresda hanno una popolazione con una crescita più rapida di molte città dell’Ovest. Lipsia nel 2018 è stata addirittura l’area urbana con la crescita più elevata dell’intera Germania. Ma le piccole città, le aree suburbane e ancor più quelle di campagna, sono ormai immerse in un invecchiamento cronico. In molte contrade è difficile incontrare fisicamente qualcuno più giovane di 50 o 60 anni”.
Eppure, anche sotto questo aspetto l’ultimo decennio ha portato novità positive: nel 2013, la regione ha smesso di produrre emigrazione netta verso le regioni occidentali della Germania. Lo stabilizzarsi è però dovuto prevalentemente a Berlino ed alla circostante regione del Brandeburgo, che è tornata ad attrarre migrazione domestica anche dalla Germania occidentale. Altri Länder fronteggiano però ancora un tasso di migrazione netta negativo.
Anche il tasso di natalità, che a metà degli anni ‘90 nella ex Germania Est era sceso ad un livello tra i più bassi al mondo, ha recuperato terreno e da un decennio è virtualmente identico a quello della Germania occidentale. Ma la fuga all’Ovest della popolazione negli anni ‘90 ha lasciato sul territorio troppe poche famiglie giovani per poter generare un ritorno alla crescita propulso da un ritorno della natalità di dimensioni modeste, che peraltro è una caratteristica comune all’intera Germania. Quello che manca all’Est, è quindi un solido flusso migratorio, anche dal resto del continente europeo.
Come evidenzia il Prof. Gropp: “La crescita esplosiva di Lipsia negli scorsi anni non era dovuta allo spostamento sul posto di lavoratori ed imprese in fuga dai costi elevati di Monaco o Colonia. Ed in larga parte nemmeno all’arrivo di migranti dal Sud Europa, così diffuso nella Germania occidentale ed a Berlino; bensì semplicemente allo svuotamento di popolazione in età adulta esercitato dalla città nei confronti di tutta la regione circostante”.
Dopo la crisi del 2008-09, il flusso di lavoratori qualificati in tutta la Germania è giunto prevalentemente dal Sud Europa: Spagna, Portogallo, Italia e Grecia. Ma anche questa seconda ondata ha continuato a dirigersi prevalentemente verso Ovest, e per motivi abbastanza ovvi.
“Gli emigranti creano più facilmente network e solidarietà reciproca laddove ci sono già comunità pre-esistenti, ed è più facile comunicare al momento dell’arrivo. La Germania orientale invece non riesce a ricreare queste condizioni: ci sono poche comunità preesistenti, la popolazione locale è più anziana e la rete di relazioni sociali e network più rarefatta.”
Ed il problema ulteriore, è che l’intolleranza contro lo straniero ed il razzismo in questa regione sono assai più diffuse che nel resto della Germania. Gli episodi di xenofobia nella Germania dell’Est, e l’emergere del populismo di destra di Alternative für Deutschland, secondo il prof. Gropp oltre a rappresentare una pesante incognita sociale, rappresenteranno presto anche un problema economico.
“Una parte dell’elettorato è convinta che l’immigrazione sia solamente un problema, quando in realtà la Germania orientale, pressata dall’invecchiamento demografico nei prossimi anni ne ha una necessità drammatica. La regione fronteggerà presto una cronica mancanza di lavoratori specializzati, e con l’attuale demografia, solo i migranti potranno salvare la situazione. Il problema è che tra i molti stranieri attratti dalle opportunità di lavoro in Germania, questa retorica politica li sta già spingendo ad evitare la regione, in quanto la percepiscono come ostile alla loro presenza.”
Non si tratta di un fenomeno generalizzato in tutta la regione. Nelle grandi città dove la popolazione va concentrandosi, queste forze populiste non raccolgono i consensi che mietono in aree suburbane e di campagna. “Ma non si può nascondere” – conclude il Direttore dell’IWH – “che sotto questo aspetto il futuro al momento non promette affatto bene”.
C’è però un’ultima dimensione del divario tra le due Germanie. Ed è il “capitale sociale” insito nella cittadinanza di queste regioni. I Länder della Germania orientale soffrono infatti ancora di un tasso di partecipazione civica inferiore. Ma anche di una maggiore avversione al rischio, sia esso di impresa che di coinvolgimento collettivo e personale.
Una circostanza che ha molto a che vedere con un’altra distanza regionale, ovvero la consistenza di una eredità familiare tra generazioni.
“La Germania dell’Ovest, a causa delle devastazioni della Guerra Mondiale e della introduzione del nuovo Marco nel 1948 in questo senso è ripartita quasi da zero, ma ha poi accumulato un capitale, sia monetario che fisico (abitazioni, imprese, know how e relazioni sociali) da tramandare. Non è il caso della Germania dell’Est, che si è presentata all’appuntamento con l’economia di mercato con un ritardo di quasi trent’anni sull’accumulazione di asset, quindi bassi tassi di proprietà immobiliare, pochi risparmi e capitali da investire.”
A soli 30 anni di distanza dalla fine di quell’era, essere tedeschi orientali significa dunque portarsi appresso un oggettivo svantaggio strutturale.
Ma c’è anche un ultimo fardello, che i freddi numeri dell’economia, del PIL, della produttività e delle imprese non possono in alcun modo misurare.
Sono le conseguenze psicologiche, comportamentali e reattive misurate su un lungo periodo, dopo essere passati attraverso il completo crollo di un sistema sociale, relazionale, valoriale e naturalmente anche economico. E che alcune volte possono instillare la volontà di reinventarsi, ma non di rado, spingono gli individui sistematicamente sulla difensiva, come conclude con una lunga riflessione il Professor Rent Gropp.
“Immaginate di avere avuto tra i 25 ed i 35 anni ed essere cittadini dell’Est al momento del crollo del Muro. E scoprire nell’arco di un tempo molto breve che quasi tutto quello che ti è stato insegnato fosse giusto si rivela sbagliato. Perdere lavoro, sicurezza economica e sociale, a volte anche status e non hai la benché minima idea di come muoverti per reinventarti all’interno di un sistema nel quale devi imparare da zero a vivere. Il risultato non può che essere lo sviluppo di una enorme avversione al rischio e di sfiducia verso l’innovazione ed il futuro in generale. Ed è un senso di sfiducia talmente forte, che si tramanda persino alla generazione successiva, che pure nella DDR non ha mai vissuto, come evidenzia il basso tasso di imprenditorialità che affligge l’Est del Paese anche tra chi è nato dopo il 1980. In questa parte di Germania, si predilige ancora la comfort zone all’esplorazione di nuove opportunità lavorative e di crescita personale.”
Forse è proprio questo il lascito più pesante di quel Muro. E che l’economia da sola probabilmente non basta a demolire.
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