Ho sempre pensato che la montagna sia in grado di esercitare una certa dose di fascino su chi, come me, è nato in un anonimo centro urbano di medio piccola grandezza. A maggior ragione se il centro urbano in questione sorge nella zona in assoluto più piatta e uniforme d’Italia, la Bassa Padana. Chi per questioni di nascita si trova a essere legato alla provincia, inevitabilmente se la porterà dentro tutta la vita. Ossessione che ricorre nell’opera di Luigi Ghirri e Gianni Celati, per citare solo alcuni fra i nomi più illustri. Ma non solo. Porterà con sé anche quell’inestinguibile senso di non-appartenenza nei confronti di qualsiasi luogo in cui si verrà a trovare. Continuerà ad ambire a tratti alla città, alla vita di mare, o addirittura a quanto di più morfologicamente distante dal paesaggio d’origine possa esserci: lo svettare della montagna. Ecco sì, forse che colpisce e cattura è proprio questo, il potersi elevare e guardare dall’alto tutto ciò che è sempre stato stretto o che sempre è sfuggito.
Di recente, durante la stesura della mia tesi magistrale, ho anche iniziato a chiedermi se, e in che misura, il vivere in montagna potesse rappresentare un’alternativa valida ed effettivamente praticabile alle svariate – e talvolta mascherate – forme di assoggettamento, perpetuate dagli attuali regimi politici occidentali. Studiare Foucault mi ha però messo in guardia dalle grandi opposizioni binarie; non esistono un dentro e un fuori del reticolo governamentale. Fondamentale è piuttosto imparare a stare sulla frontiera.
Queste sono le premesse che mi hanno spinto a indossare per una settimana i panni di chi in montagna trascorre stabilmente gran parte dell’anno, se non tutto. La mia scelta è ricaduta su di un piccolo borgo sperduto della Garfagnana; la casa dove alloggiavo era l’ultima in cima all’unica strada dissestata, a circa novecento metri di altezza. Una situazione un po’ estrema, devo ammetterlo. Soprattutto se, come la sottoscritta, non si è avvezzi all’alta quota, o non si può vantare un passato da scout. Quello che ho voluto fare è stato provare a guardare ciò che mi si presentava davanti con uno sguardo il più vergine possibile. Un esercizio, questo, che si è rivelato più difficile del previsto. Solo in seconda battuta ho realizzato che a distinguere la mia esperienza da tante altre era proprio il fatto di appartenere a una generazione la cui percezione del mondo e delle cose è stata incontrovertibilmente forgiata e, se si vuole, “inquinata”, sotto il segno dell’Occidente capitalista, della rivoluzione digitale e della cosiddetta “società della performance”, erede delle teorie neoliberiste di imprenditorialità del sé.
Sono nata nel 1995. L’URSS si era da poco dissolta, in Italia finiva il governo Berlusconi I, l’euro non aveva ancora fatto il suo ingresso in scena. Ho iniziato a muovere i miei primissimi passi nella società assieme a tutti quei giovani che qualche tempo dopo la (ex) ministra Fornero avrebbe etichettato come “choosy”. A posteriori, posso dire di aver respirato sin dalla tenera età un’aria di disillusione, la stessa riversatasi ben presto sulle aspettative di vita, puntualmente ridimensionate. O meglio, puntualmente riallineate, e, assieme a quelle dei miei coetanei, disposte in serie e fatte convertire tutte in un’unica direzione, finendo poi col ritrovarsi ordinati e incasellati nello spazietto riservato a ciascuno, quasi fosse lì ad aspettarci da tempo immemore, quasi ci preesistesse. Una volta giunti a questo punto, l’ultimo passo che rimane da compiere è riempire questo spazietto. È vero anche che per farlo c’è modo e modo. Mi viene in mente una bella immagine di Terzani, della società come una libreria squadrata e ben partizionata in cui lui ha scelto invece di inserirsi alla maniera di uno scaffale obliquo. Il suo non è stato forse uno dei pochi, rari casi privilegiati?
E certo, è il sistema che è sbagliato. E non credo nemmeno che sostenere ciò equivalga a voler trovare a tutti costi una giustificazione a un problema che è, innegabilmente, sociale. Il cercare, come spesso succede, “soluzioni biografiche” a questioni collettive, a quel vuoto dentro che ci accomuna e che non sappiamo interpretare, spesso si traduce in un’iperattività nevrotica, in un fare continuo, in un produrre sempre di più (ma produrre poi che cosa? Chi conferisce valore, e che tipo di valore, al nostro fare?). E se non riusciamo a soddisfarci, ci colpevolizziamo pure.
Ciò che ammiro in chi decide di trasferirsi in montagna, e che lo distingue anche da chi ci nasce, è proprio la scelta deliberata di valicare il perimetro sociale, di obbedire – perché comunque di obbedienza si tratta, pena la non-sopravvivenza – a un altro tipo di norme, quelle dettate dalla natura: attendere la giusta maturazione dei frutti prima di coglierli, piantare i semi solo della verdura di stagione, la mattina ispezionare il pollaio e versare il mangime alle galline, lasciarle gironzolare liberamente all’aperto fino a quando non inizia a fare buio, sbrigare i lavori più pesanti e faticosi mentre il sole non è ancora troppo alto, ricordarsi di accendere la stufa per tempo, sennò la doccia la si fa con l’acqua gelata, preparare il pane in casa solo dopo aver consultato il lunario. L’intera giornata è scandita dal ritmo naturale delle cose, un ritmo a cui è necessario adattarsi, non senza sforzo e non senza un che di straniamento iniziale.
La vita di montagna rappresenta a tutti gli effetti un tentativo da parte dell’individuo di inserirsi con il minor impatto possibile all’interno di un ecosistema; è un farsi spazio meno invadente e invasivo rispetto alle evoluzioni più recenti di “civilizzazione”. Qui tutto è funzionale, ogni cosa ha il suo posto. Un posto che, attenzione, non viene assegnato dall’alto in maniera arbitraria, ma è ciò che a quella specifica, determinata cosa compete quasi ontologicamente. In uno scenario più o meno utopico – che, anzi, dovrebbe fungere da ideale regolativo a cui continuamente tendere, in modo da avvicinarvisi sempre di più, fino ad arrivare, un giorno, a coincidere con esso – non esiste resto, non vengono prodotti scarti. E di fronte a una cultura dello spreco, a un’economia, come la nostra, dell’usa e getta e della sostituibilità e riproducibilità indiscriminata, questo dovrebbe far pensare. Qui alle cose viene anche riconosciuto un valore tangibile. L’esempio che più mi piace portare è quello dei tanto discussi rimedi naturali, che, dal mio punto di vista, non sono altro che manifestazioni di fiducia nei confronti delle cose, piante, microrganismi o minerali che siano: decidiamo, in altre parole, di farci curare da loro. E fidarsi in un certo significa anche essere in grado di riconoscere il valore di ciò che altro da noi. O almeno, mi piace pensarla così.
Vivendo a stretto contatto con un vero lupo di montagna – il proprietario di quell’ultima casa in cima all’unica strada dissestata – e immergendomi nella sua routine giornaliera, ho però capito che chi come lui è convinto di eludere, attraverso il vivere isolato, le implicazioni che lo stare in (questa) società comporta, in parte si sbaglia. O meglio, tale convinzione rivela un po’ di ingenuità, oltre che nascondere contraddizioni. Anzitutto perché un “fuori” dal perimetro sociale propriamente non esiste, oggi più che mai; bene lo dimostrano le tesi foucaultiane degli anni settanta sull’analitica e microfisica del potere, la “società del controllo” delineata da Deleuze o ancora le elaborazioni filosofiche più contemporanee, basti pensare alla nozione di “psicopolitica digitale” introdotta dal sud-coreano Byung-Chul Han. Insomma, a partire da Hobbes e dagli altri teorici del contratto sociale, ci hanno insegnato che lo stare assieme non solo è la condizione necessaria e sufficiente per la perpetuazione della specie, ma che prevede anche una rinuncia da parte del singolo: deponiamo l’aspirazione all’appagamento totale e incondizionato del nostro personale desiderio, in cambio di sicurezza, tranquillità, normalità.
L’altra grande incoerenza da me riscontrata ha a che vedere proprio con quest’ultimo punto. A mio parere, in situazioni come queste, il rischio dietro l’angolo è il calcificarsi di visioni talvolta sin troppo radicali, che finiscono per oscurare la vista. Esser consapevoli del fatto che si rimane sempre e comunque (iper)connessi, sempre e comunque costitutivamente dipendenti da qualcuno o da qualcosa, non è di poco conto. Nel più profondo e sincero rispetto delle scelte di ognuno, chi abbraccia soluzioni di vita a detta dei più “estreme”, mi sembra che spesso finisca col coltivare unicamente la propria piccola porzione di mondo, sperando che altri possano seguirne l’esempio. Similmente, da bambina pensavo che anche quello di rinchiudersi in un monastero e di “pregare per le sorti dell’umanità” fosse fondamentale un gesto di noncuranza e di deresponsabilizzazione nei riguardi di quel che succede là fuori, della vita vera. È così che si cambiano veramente le cose? Me lo domando ancora.
Per di più ho trovato contradditorio, e anche un po’ curioso, che il proprietario del rustico mal sopportasse le sue incursioni intermittenti nella civiltà – ossia il dover scendere in paese per le commissioni strettamente necessarie – ma che alla fine della giornata lavorativa invitasse tutti a rilassarsi nell’ampia cucina, il solo ambiente della casa in cui ci fosse connessione internet, davanti al grande monitor da parete su cui senza sosta sfilavano bizzarre ricerche su Google e video no sense di Youtube, da lui accuratamente selezionati. La scena mi ricordava un po’ quando nelle vecchie abitazioni tutta la famiglia si riuniva nell’unica stanza riscaldata durante le fredde sere invernali. Solo che in questo caso, il feticcio da venerare in silenzio era una stufa o un camino, e non un pc.
Ecco, sono arrivata a pensare che forse non basta vivere in montagna, non basta la lontananza geografica per reputarsi fuori dalla società, per considerarsi estranei alle sue dinamiche, alle sue costrizioni, e alle svariate e più o meno condivisibili forme di sublimazione – psicanaliticamente intesa – che da queste derivano. Certo, la mia osservazione risente probabilmente di una buona dose di cinismo, che credo accomuni molti di noi millennials per motivi culturali e storico-sociali, e che pian piano è andata sedimentandosi, sino a diventare uno degli elementi costitutivi del frame attraverso cui sono solita inquadrare il mondo là fuori. Non lo nego. Dice bene Paolo Cognetti, lui che durante l’anno si divide tra Milano e la Val d’Ayas: “Dipende tutto da come uno sceglie di vivere in montagna”. Se i montanari di una volta si può dire costituissero una vera civiltà, ormai tramontata, e fossero autenticamente in armonia con la natura, oggi invece il rapporto uomo-montagna mi pare essere piuttosto conflittuale, artefatto, poco genuino. Abitanti definiti montanari per modo di dire, “perché in realtà sono solo cittadini che vivono sui monti”.
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