Illustrazioni di Cristiano Baricelli
Un bambino che si recasse per la prima volta in visita a una fattoria, avrebbe una reazione di subitaneo terrore scoprendo l’aspetto arcaico di una pecora e udendone il belato. Attraverso i libri per l’infanzia, il bambino medio apprende dell’esistenza di una forma “pecora”, caratterizzata da un verso trascrivibile come beeh (o, in certe culture, mäh), ma non si può dire che conosca la pecora. Ha informazioni, ma non ha conoscenza; le informazioni sono costituite da rappresentazioni, non da esperienze. Il suo corpo percettivo, con l’intero sistema nervoso e sensoriale, non ha mai incontrato prima di questo momento un essere vivente “pecora”, discosto dallo standard della rappresentazione, e dotato di tridimensionalità, carne, spirito vitale, movimento, voce, impulsi, percezione, capacità di espressione, intenzione e intendimento. Per il bambino questo primo incontro costituisce uno shock cognitivo. La pecora “vera” non è la pecora rappresentata, candida e mite, e non è la pecora immaginata, innocua e indifferente. La pecora reale manifesta un corpo di impulsi e moti che non hanno niente di innocuo.
Lo shock cognitivo è sempre doloroso, perché richiede lo scarto di un sistema di credenze.
Quante volte siamo posti di fronte a una situazione analoga? Costantemente. Accade, ad esempio, ogni volta che visitiamo un luogo visto precedentemente solo in cartolina: finalmente siamo lì e invece di gongolare, facciamo fatica a integrare nella nostra cognizione il contorno di cose vere (palazzi, strade asfaltate, sottopassaggi, parcheggi) stridenti, e l’ingombrante spirito del luogo. Siamo pronti a riconoscere secondo un modello dato, ma non a conoscere.
Lo stesso fenomeno – dispiegato nello schema sistema di credenze, shock cognitivo e doloroso scarto – si deve riconoscere per una dimensione molto più universale e intima rispetto al caso della pecora: il corpo della donna.
Una bambina nasce con una forma che la colloca nell’emisfero “femmina” e che è riconosciuta, sin dalla prima ecografia morfologica, dalla “mancanza” di un attributo più che da una caratteristica propria. Si è identificati come femmina per deficit (sarebbe diversa la storia del mondo se “maschio” corrispondesse nel soma a piatto e “femmina” a convesso?). Nella loro storia di genere, la bambina e la donna fanno esperienza di molti shock cognitivi. Nei racconti e nelle rappresentazioni, per esempio filmiche, il primo rapporto sessuale, la gravidanza, il parto, l’allattamento appaiono, nella loro bidimensionalità di icone, come eventi carezzevoli, dolci, passeggeri, favolosi. La donna si misura con una felicità figurata e con una facilità fasulla, e dal confronto esce afflitta. Per dirla con brevità, nessuna esperienza carezzevole e volatile passa attraverso il corpo della donna. Ogni evento vi rimane inciso, ferisce un lembo di illusione. E costa sangue.
Anche l’edulcorata immagine della maternità fa parte della congiura contro la donna, volta a sminuire tutto ciò che rientra nel suo ambito esclusivo di competenza. L’essere aggravata da processi del corpo dolorosi è una scoperta che la giovane donna fa senza cognizione pregressa e senza particolare empatia per se stessa. È qualcosa che accade fatalmente, su cui sorvolare. La pecora è arcaica, petrosa e piena di impulsi, ma continua ad essere narrata come bestia candida e beata. Persino le madri fingono e nascondono la verità alle figlie, lasciando che queste, come loro al proprio tempo, ricevano la doccia gelata della cognizione. Ogni donna conserva in sé una traccia di dolore per la mancata trasmissione di informazioni veritiere e per la negata solidarietà di genere. Anche gli uomini preferiscono conservare la percezione iconografica del corpo femminile, lo schema somatico che crea una reazione biochimica. Il resto è “cosa da donna”. Il corpo di una donna rimane così irraggiungibile, miraggio che solo una reale curiosità di genere può cogliere come reale.
L’interruzione di sapere ed empatia da madri a figlie ha una ragione culturale. Ad un certo punto della storia umana tutto ciò che riguardava il corpo è diventato oggetto di vergogna, repressione e tabù. Il corpo della donna è stato rappresentato come nemico dell’ordine pubblico, minaccia per il maschio, espressione del diabolico, ed è stato fatto oggetto di repressione. È un processo ancora in atto in alcune società, ma anche laddove esso sembra aver esaurito la sua furia, il nervo resta scoperto. Screditare e controllare il corpo della donna significa disturbarne la narrazione. Senza una narrazione tramandata e co-costruita, non è possibile accogliere e accettare i processi del proprio corpo. Ne deriva terrore. Screditare e controllare il corpo della donna significa anche separarlo dal corpo dei bambini e dal corpo degli uomini, porlo in contrapposizione. Quando le donne hanno cominciato ad essere separate dagli uomini, lo sono state anche le une dalle altre.
Qualcosa sta cambiando nella narrazione sul corpo femminile? Difficile da dire, ma si osserva una nuova tendenza: la pubblicazione sui canali social di foto molto esplicite inerenti al ciclo mestruale e un proliferare di discorsi e rappresentazioni sulla sessualità femminile. Un’improvvisa estroversione che suona come auto-affermazione – autentica o manipolata? Per la prima volta nella storia contemporanea, ci arrivano (da paesi scandinavi) immagini di donne con ruoli pubblici che allattano al seno sul luogo di lavoro. Un messaggio esplicito: “tu maschio puoi lavorare e mettere in ombra il tuo corpo, nasconderlo dietro l’abito grigio e stringerlo nel nodo della cravatta, io sono più libera di mostrare il mio corpo, ma meno libera di essere sul lavoro dimenticando tutto il resto”. Intanto arrivano proposte (sempre da paesi scandinavi) di riconoscere come giorni di malattia i periodi di ciclo dolorosi. Certamente la disinvoltura nel sopportare i fastidi che derivano dai cicli del suo corpo è stato per lungo tempo il cavallo di battaglia della narrazione sull’emancipazione femminile: fare finta di non essere diverse dai maschi. Al momento presente si afferma l’iconografia della donna libera dal tailleur di rappresentanza: non solo la donna in carriera, competitiva, ai posti di comando, e non più solo la donna e madre felice, ma anche la donna che si volge al passato, a un mondo precapitalistico e a un sistema socioculturale slegato dal patriarcato, per ricucire e sanare le ferite. Una donna guaritrice delle rotture: con le altre donne, con il maschio, con la natura.
Nel suo libro Calibano e la strega, Silvia Federici spiega bene come il sistema sociale capitalistico abbia affibbiato alle donne tutte le attività non immediatamente monetizzabili. Da allora alle donne spetta di assicurare la tenuta del sistema, producendo un plusvalore indiretto collegato alla moltiplicazione del denaro, ma non monetizzato. Viene così suggellato il declassamento della donna, la quale prende su di sé le mansioni riproduttive della forza-lavoro. Questo è il passaggio che segna la separazione fra il maschile e il femminile, secondo Silvia Federici. Fermiamoci su questa istantanea e osserviamo alcuni punti: separazione di genere, disciplinamento delle masse contadine, desensibilizzazione nei confronti dell’addomesticamento del corpo, denigrazione della cultura popolare, della socialità, del mondo magico, di tutte le forme di potere e sapere autonomo. È il quadro di un intervento statale contro una cultura umana che forse si sarebbe evoluta in senso più egualitario, sicuramente non speculativo, e che è stata disciplinata attraverso la separazione fra maschile e femminile, fra razionale e magico, fra valore in forma-denaro e lavoro sociale non retribuito.
C’è una macchia sul corpo sociale della donna: la rappresentazione di un attore sociale isolato in casa, impegnato nella cura di coloro che vanno verso l’esterno a prestare la loro forza-lavoro, indifferente alle dinamiche storiche. È una rappresentazione falsa, distorta. Nella storia delle battaglie sociali, le donne sono state in prima fila, combattendo per ottenere maggiore libertà, più giustizia, o pane per i propri figli. Non hanno agito come soggetti passivi, docili e accondiscendenti dietro le quinte, ma come protagoniste sulla scena sociale ed economica. Lo studioso Giovanni Ballarini, ad esempio, sostiene che “la pecora è un’invenzione della donna”, in quanto la donna avrebbe trovato il modo di mungerla, di trasformare il latte, e, passando dalle tecniche di lavorazione della fibra vegetale allo sfruttamento della fibra animale, avrebbe avviato la selezione del vello.
Per quanto riguarda i movimenti migratori e gli impulsi al miglioramento sociale, questi sono stati non di rado avviati dalle donne, per esempio nel passaggio dal mondo rurale alla vita urbana. Nel Brandeburgo, nord della Germania, ad esempio, la storia dell’abbandono delle terre parte proprio dalle donne, che a causa delle insufficienti offerte formative e lavorative, e della disuguaglianza nel trattamento economico, negli scorsi decenni hanno preferito andare a vivere in centri urbani più sviluppati, e lì formare una famiglia, con il supporto di migliori servizi all’infanzia. Ed è per riguadagnare le donne che la regione del Brandeburgo ha messo in atto una serie di politiche di modernizzazione del sistema sociale, fra cui la Frauenquote.
“Ne parliamo poco, il discorso filosofico e le scienze della vita le hanno ignorate, non per distrazione ma per disprezzo. Sono l’ornamento cosmico, l’accidente di coloritura relegato ai margini del campo cognitivo.”
Queste considerazioni sembrano riguardare le donne. E invece no: si parla di piante. Così Emanuele Coccia apre il suo libro La vita delle piante. Interessante come i due soggetti possano essere sovrapposti. Riflettiamo: la filosofia, la biologia e la politica stanno scoprendo sia le donne che le piante in un modo nuovo.
Forse donne e piante emergono nella narrazione contemporanea in modo nuovo perché l’azione filosofica e cognitiva unica (maschile e cartesiana) ha cominciato a prendere in considerazione mondi più ampi, soggetti nuovi. La visione antropocentrica zoocentrica volge ora l’attenzione ai misteri delle piante, così come la visione centrata sul maschio adulto bianco volge ora l’attenzione alle donne giovani non-bianche emergenti.
Nuove narrazioni. Da una manciata di anni si parla delle piante in modo originale e sorprendente. Emanuele Coccia, Stefano Mancuso, Peter Wohlleben hanno messo in luce la straordinaria organizzazione del mondo vegetale. Le piante sono state trattate come abbellimento, decorazione, alimentazione, utilizzate nell’industria, nell’edilizia, nell’allevamento. Ora si avverte una sensibilità nuova, gli studiosi ne sondano i misteri, scoprono sistemi di connessione e comunicazione, riconoscono schemi di solidarietà, ammirano la maestosa capacità di adattamento, le mettono non al gradino più basso della catena alimentare, ma al punto più alto dell’autonomia dalle altre forme di vita. Dall’altra parte un nuovo discorso sulla donna si fa avanti, che rivela la decadenza dell’opposizione di genere, svela il tranello della competizione in casa e sul lavoro, rilancia lavori tradizionali femminili in veste social, si affanna a illuminare un nuovo ruolo nella decrescita, e, per fare finalmente centro, mette da parte le dirigenti in carriera e chiama a raccolta tutte le donne, davvero tutte, da sobborghi, periferie, province, ghetti, minoranze, scuole, per farsi suggerire parole nuove. Fra cui, ormai gettonata in area nordamericana, healing, guarigione, ma anche, se mi è concesso, riparazione.
Questo non significa che il mondo stia diventando più giusto, più equo, più attento, più saggio. Di fronte ai crescenti problemi e ai conflitti irrisolti e aggravati, qualcuno comincia a guardandosi attorno, alla ricerca di un attore nuovo che possa portare una qualche soluzione. Se le donne accederanno a cariche decisionali, con l’orgoglio di essere arrivate laddove prima brillavano esclusivamente uomini privilegiati, erediteranno non il potere, ma una sfida e un’aspettativa altissime e insidiose.
Cinzia Colazzo è nata in regione jonica e si è mossa in area francese, tedesca e portoghese. Il migrare è mozione di sfiducia al suo paese d’origine e azione fiduciaria verso se stessa. Si porta dietro il bagaglio minimo, tre figli, la musica e la poesia. Sta lavorando a una raccolta di racconti ispirati all’opera di Lucia Berlin. Il suo sogno è vivere in una città sul mare accessibile a single mums e giovani menti, con bella gente, sana architettura, vasta natura e mobilità green: se non c’è vorrebbe fondarla.
Cristiano Baricelli nasce a Genova nel 1977. Autodidatta, dal 1997 elabora una personale tecnica di disegno, basata sull’uso della penna a sfera. Ha partecipato a numerose mostre collettive e personali e collabora con Fanzine e Magazine di illustrazione tra cui: Grrrz Comic Art Books, Nurant, Watt, CartaCanta, Nitch, L’inquieto, Pastiche, Verde Rivista, Antropoide, Illustrati, Nèura, Freak Out, Guida 42, Carie, Rituali, Effe Rivista, Risme, Squadernauti, Racconti Crestati, Digressioni, 88Bestie , Aguaplano, Horror Moth, Fillide, Birdmen, Settepagine, Isterismo, Hypnos, Medicine, L’ombroso, Machina, Interiors, Axolotl. Attualmente sta sperimentando tecniche miste. Odia svegliarsi presto la mattina.
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