Non so se tra chi leggerà questo articolo ci siano dei fan di uno show che andava in onda diversi anni fa alla televisione, Dharma e Greg. Io, che sono tra quelli, voglio iniziare questo pezzo parlando dell’episodio in cui Dharma compra un negozio ma – lei che ha uno spirito completamente anticapitalista, essendo stata educata e tirata su da due genitori hippy convinti – non vende nulla. È una cosa strana: un negozio che non fa vendite di niente. Il padre, contentissimo che Dharma abbia un negozio che non venda niente, afferma che sia un’idea geniale: “Non è più l’epoca del totalitarismo, ecco i miei prodotti, comprali!”. Come dire, questo è un business basato su una mentalità altra. Il negozio, di fatto autogestito da chi lo comincia a frequentare, (“Hai guadagnato qualcosa oggi?” le domanda Greg – “Neanche un penny. Mi sto divertendo così tanto!” risponde Dharma) si trasforma in maniera naturale in un posto in cui la gente s’incontra, passa del tempo insieme, si riposa, legge e si scambia liberamente servizi e cose. Alla fine Dharma vende il negozio a una catena di caffè, però quel luogo è forse una delle cose più vicine che ho visto esistere, nella mia vita, ad una città ecofemminista.
L’ecofemminismo, nel contesto dell’etica ambientale, viene definito come l’insieme di filosofie e di movimenti che riconoscono un’interconnessione tra i problemi ambientali e lo sfruttamento e l’oppressione delle donne e delle altre minoranze. Il termine è stato coniato dalla femminista francese Francois D’Eaubonne nel 1974, periodo in cui l’ideologia e l’attivismo ecofemminista hanno iniziato a crescere soprattutto tra le donne che erano già parte dei movimenti antinucleari, ambientalisti, lesbici e femministi. Secondo la filosofia ecofemminista, lo sfruttamento e il dominio della natura è causato dallo stesso paradigma che ha provocato e ancora oggi provoca l’oppressione delle donne e contemporaneamente, e per le stesse ragioni, pone tutte le altre specie e tutti gli altri esseri viventi che sono diversi dall’uomo in una posizione di subalternità rispetto a loro.
La visione ecofemminista è oggi fondamentale in una prospettiva globale dove è stata riconosciuta l’importanza di determinare obiettivi di sviluppo ecologicamente sostenibili; tuttavia, il termine “sostenibile” è stato rielaborato, rideterminato e abusato dalle politiche capitaliste, le stesse che causano inquinamento, disuguaglianze sociali e razziali, ed è stato utilizzato impropriamente anche a riguardo di progetti inerenti ad agglomerati urbani.
Se l’ecofemminismo ricerca le cause del disastro ecologico di oggi proprio nella forma di società in cui viviamo – il patriarcato, e associa le violenze sulle donne e sulle minoranze di qualsiasi tipo allo sfruttamento profondo che ha subito la natura in tutti questi anni, allora come fa una città – una forma di agglomerato che ha completamente conquistato la natura su cui si fonda, che viene plasmata sui suoi totali bisogni di costruzione, consumo, sviluppo – a essere ecofemminista? Può una città, quindi un luogo dove molte persone vivono insieme e fanno cose insieme, l’entità che di norma viene proprio contrapposta all’entità “natura”, essere fatta in una maniera da potersi considerare ecofemminista?
Purtroppo la letteratura e gli studi che parlano di ecofemminismo urbano sono ancora pochissimi, frammentati, e mancano di una visione unitaria e completa, mentre l’ecofemminsimo potrebbe (per me dovrebbe) essere un modo politico e quotidiano per vivere e costruire il presente e il futuro.
Ci sono invece vari studi, esaustivi, su cosa voglia dire essere e costruire una città femminista. Ma se la città femminista ha alla base delle teorie di decostruzione e ricostruzione da “spazio solo per alcuni” a “spazio per tutti”, pensare alla città ecofemminista è un’azione che dà le vertigini, dato che non si tratta solo di decostruire e ricostruire, ma di un processo di re-immaginazione totalmente di un luogo che sia diverso da quello esistente, e non solo: serve infatti un posto in cui si viva anche in maniera differente.
Come scrivono Bayaz Fernàndez e Bregolat i Campos nel loro studio “Ecofeminist Proposal for Reimagining the City”, la politica economica ecofemminista è volta a plasmare la vita e le priorità tenendo sempre presente la sostenibilità della vita stessa, sia quella degli umani che quella degli ecosistemi. La politica economica ecofemminista, inoltre, parla sia di bisogni materiali che di quelli immateriali, di bene comune, di risorse naturali e di servizi, della pratica di cura, di progettazione per corpi conformi e non, e si basa sulla dignità, sulla solidarietà e sulla co-responsabilità. I beni comuni sono composti da tutte le risorse collettive che sono di vitale importanza e che hanno un forte peso anche sulla nostra soddisfazione personale, e che per questo devono essere protetti.
Inoltre, è bene tenere presente che secondo l’economia del femminismo radicale e la politica economica ecofemminista, gli obiettivi di pari opportunità e di costruzione e ricostruzione di uno stato sociale non sono abbastanza, ma che si debba anche parlare del valore della vita che si vive, che deve essere per noi soddisfacente: una vita che valga la penna di essere vissuta. Questo ci fa porre delle domande sulla vita che vorremmo vivere, come aspiriamo a sostenerla anche dal punto di vista economico, quali sono i lavori essenziali, come ci organizziamo, come immaginiamo di abitare i nostri corpi e gli ambienti, come ci relazioniamo e anche come ridistribuire i compiti e il potere. Per questo con una visione ecofemminista si parla di riorganizzazione di un intero sistema politico e sociale, e di conseguenza anche della riorganizzazione e modifica delle aree urbane, che sebbene occupino il 2% del territorio mondiale producono oggi l’80% dell’anidride carbonica e sono destinate a diventare sempre più grandi e popolose.
Le risposte alla domande che mi sono fatta prima ovviamente non le conosco, però ci posso ragionare su. Intanto senza farsi prendere dallo sconforto prematuro si può riflettere sul fatto che le città siano luoghi d’intensa interazione, e quindi portati per primi a creare e a fare parte del cambiamento: se oggi le città sono luoghi di profondo consumismo, questo non vuol dire che non possano essere anche altro. Una città è, secondo la geografia marxista, la forma tangibile della società che la vive, e della stessa società che la costruisce. Per questo, sebbene oggi siano dei luoghi definiti da profondo consumismo può essere che vi siano anche piccoli semi, sparsi in tante città di tutto il mondo, che portino o possano instradare verso ad una nuova rinascita, sia questa parziale o completa.
Ho ricercato un’email che mi aveva mandato Vandana Shiva, scrittrice e attivista ecologista di fama mondiale, in risposta a quella che le avevo scritto a proposito del mio desiderio di fare una ricerca di dottorato incentrata sulla città ecofemminista. La sua risposta era semplice e la semplicità in questo processo è ciò che serve. Perché pensare il futuro non è cosa facile, e ancora più difficile è immaginare qualcosa di diverso da quello che esiste, qualcosa che sia legato a noi, al nostro modo di sentire e volere un certo tipo di cambiamento. Fare quest’operazione immaginativa è un’attività che da le vertigini come dicevo, perché si perdono i punti di riferimento e si deve camminare e viaggiare nel vuoto. La semplicità in questi casi è fondamentale, perché da una direzione da percorrere, che altrimenti non ci sarebbe.
Shiva mi scrisse quindi:
“Dear Virginia
The best for your PhD
An eco feminist city is organised around life – food, water, clean air, space – and it does not separate rich and poor, work, life, play and rest
You can contact me in the future when you start your thesis
Dr Vandana Shiva”
(Cara Virginia, i miei migliori auguri per il tuo dottorato. Una città ecofemminista è organizzata intorno alla vita – cibo, acqua, aria pulita, spazio – e non separa i ricchi dai poveri, il lavoro, la vita quotidiana, il riposo, il divertimento. Scrivimi ancora quando inizi la tua tesi. Dr. Vandana Shiva).
Provare a pensare a un luogo così… È difficile, da immaginare, perché un luogo di questo tipo io non credo di averlo mai visto, credo. Userò quindi le parole della studiosa come scaletta per orientarmi nel tentativo di definire i tratti principali di una città ecofemminista.
Una città ecofemminista deve essere per tuttə.
In realtà per definire una città ecofemminista partirei dall’idea che le città debbano essere dei posti abbordabili, dei luoghi in cui tutti possano vivere se lo vogliono, quindi il più possibile inclusivi. Anche Shiva menziona questo aspetto, quando dice che in una città ecofemminista i luoghi per i ricchi e per i poveri non sono divisi. Ma questo discorso, che è ricorrente nel mondo della pianificazione, è assai complesso perché dipende direttamente dalla società e da come questa funzioni, quindi le disparità che sono intrinseche nello spazio urbano costruito, derivano dalle diversità che esistono a livello sociale. Inoltre queste politiche inclusive potrebbero poi avere dei risultati opposti, poiché quando più persone sono attratte da un luogo, più la richiesta di questo posto si alza, e quindi il valore di mercato degli spazi abitativi incrementa. Questo fenomeno si osserva molto bene con la gentrificazione, quando alcuni luoghi delle città, che sono prima dimenticati e lasciati ad una fetta della popolazione meno benestante, vengono appunto gentrificati, perché vengono prima popolati per via del basso prezzo anche da artisti e creativi la cui presenza fa aumentare il valore del luogo, per diventare quindi aree urbane per persone ad alto reddito. È un discorso complesso anche perché ovviamente non riguarda solamente la questione del costo delle case e degli affitti, ma anche di tutti i servizi che sono offerti nella zona: per dire, se l’affitto di una casa è abbordabile, ma tutti i supermercati, i bar, le scuole, e la maggior parte degli altri servizi sono per persone ad alto reddito, chi ha un potere d’acquisto basso con quello che guadagna non potrà comunque viverci. Sono logiche difficili da addomesticare, per cui mi sento di dire – purtroppo, passiamo oltre.
Aggiungo qui però una piccola postilla che riguarda sempre l’argomento “città per tuttə”, per cui si intende che le città debbano essere anche per chi vive in estrema povertà, come ad esempio i senza tetto. Una città ecofemminista, poiché non divide le aree abitate e vissute dai ricchi dalle aree più a buon prezzo, dovrebbe avere delle infrastrutture che accolgono le persone senza tetto, i poveri, e chi non ha mezzi di sostentamento autonomo. Troppo spesso, invece vediamo come le città lottino usando unghie e denti di ferro contro le persone che non si vogliono vedere, quelle che devo sparire e diventare invisibili. Pensiamo ad esempio tutte le tipologie di punte metalliche che sono messe su ripiani, nelle piazzette private, o altri luoghi del suolo urbano e che vengono installate proprio per evitare che qualcuno si sieda, o lì si sdrai. Le panchine stesse, come avviene anche negli aeroporti, sono spesso pensate per far sì che non ci si possa allungare, per evitare che le persone senza fissa dimora non usino il suolo pubblico, luogo che per definizione dovrebbe essere di tutti, anche loro. Una città ecofemminista, al contrario accoglie tutti e anzi ha delle infrastrutture pensate ad hoc per chi una casa non la ha.
Il cibo in una città ecofemminista
A seguire, uno degli aspetti fondamentali di una città diventa il cibo. Una città consuma una tale quantità di cibo che quasi non è concepibile: pensate a tutti i bar, ristoranti, supermercati, alimentari, macellai, pasta fresca, pasticcerie e panetterie, alberghi e cittadini privati: tutti mangiano, tutti si devono sfamare per tre volte al giorno, siano essi residenti o turisti, e tenendo sempre a mente che anche sotto questo aspetto una città sia un luogo di solo consumo, e non di produzione. Tutto il cibo che viene processato e mangiato arriva quindi irrevocabilmente da fuori. Per questo credo, sempre attenendomi alle linee guida datami da Shiva, che una città ecofemmisnista debba fare di tutto per favorire la produzione di cibo all’interno della città stessa o il più vicino possibile, facilitare la fioritura di luoghi come orti e apicoltura urbani, e dare inoltre tutto lo spazio necessario a produttori locali per mercati e vendite all’aperto, favorendo il più possibile proprio la vicinanza tra la produzione e il consumo.
Prendiamo l’esempio di produzione apistica urbana: moltissime ricerche scientifiche provano che le arnie urbane risultino, in modo per me sorprendente, in api più sane e più produttive. Ciò avviene perché le api urbane hanno a disposizione una maggiore quantità di biodiversità in termini di piante e pollini da cui attingere, e questa dieta più variegata rende il loro sistema immunitario forte e sano. Questo è molto importante se si pensa che negli ultimi dieci anni la popolazione mondiale di api si sia ridotta drasticamente per via di una malattia chiamata Colony Collapse Disorder (CCD), dove colonie intere di api sono morte senza che si sia trovata una causa precisa che sia alla base di questa moria, e che ha portato la popolazione globale di api a ridursi del 30% a partire dal 2006.
Le api e altri animali da impollinazione contribuiscono al 30% nella produzione di cibo in tutto il mondo, la loro esistenza e sussistenza diventa quindi essenziale alla vita delle piante, e di conseguenza alla vita degli esseri umani. Per questo avviare delle pratiche di apiari urbani potrebbe essere un progetto che potrebbe portare dei grandi vantaggi a lungo termine come anche favorire la produzione di cibo all’interno o nelle vicinanze proprio del tessuto urbano.
Pe quanto riguarda il mangiare poi, il cibo è una delle più grandi fonti di consumo nelle città, anche (ma non solo) in termino di emissioni. Per questo mantenere una dieta il più possibile sostenibile ed evitando gli sprechi potrebbe ridurre i gas serra associati all’alimentazione di molto, fino al 60%. A questo proposito alcune città a livello globale (tra cui Barcellona, Lima, Copenaghen, Londra, Los Angeles, Milano, Oslo, Parigi, Seul, Stoccolma, Tokyo, Toronto) hanno sottoscritto un programma chiamato Planetary Health Diet (PHD), per cui si sono impegnati a proporre e favorire ai cittadini una dieta salutare e sostenibile, a partire dal 2030.
La PHD è una dieta a cui hanno lavorato 37 scienziati provenienti da 16 paesi diversi, che da un lato si propone di offrire cibo sano e nutriente a una popolazione globale in costante aumento e allo stesso tempo vuole suggerire il consumo di cibi che siano sostenibili a livello ambientale: secondo gli ideatori della PHD e dei sindaci che la sottoscriveranno la salute degli esseri umani passa anche attraverso la salute del sistema naturale, per questo la dieta PHD si propone di essere ottimale sia per gli umani che per l’ambiente: è la dieta cosiddetta Flexetariana, da flessibile, una dieta prettamente vegetariana ma che includa anche modeste quantità di carne, pesce e latticini, consumati in maniera saltuaria. La dieta verrà proposta inizialmente dalle città che hanno aderito al programma in ambiti istituzionali, quindi a scuole, asili, mense pubbliche, e così via, per dare anche l’esempio al resto della cittadinanza.
L’accesso ai bisogni di base in una città ecofemminista
Ci sono molti altri aspetti che una città ecofemminista credo dovrebbe considerare, naturalmente. Prima di tutto l’accesso all’acqua pulita e potabile da poter fruire quando si gira per la città. Questo significa una cosa: fontane pubbliche funzionanti che eroghino acqua potabile. Avere accesso ad acqua potabile mentre si passeggia per una città è un diritto di tutti gli esseri umani e anche degli animali selvatici e non che bazzicano le aree urbane. Purtroppo, per via del costo della manutenzione, ma anche per far sì che le persone debbano dissetarsi pagando nei bar, le fontanelle nelle città, soprattutto nei centri più turistici, tendono a scomparire. Ho trovato però un progetto molto carino, si chiama fontanelle.org Liberi di bere! ed è un sito che fornisce la mappa nelle principali città italiane di tutte le fontanelle funzionanti presenti appunto sul territorio urbano. Trovo che questa sia una bella iniziativa per la costruzione della città ecofemminista.
Un altro aspetto che si dovrebbe prendere in considerazione sono secondo me i bagni pubblici: i suddetti bagni alle volte sono presenti a pagamento, probabilmente e sempre per il solito discorso di favorire esercizi pubblici, quindi bar, se si deve utilizzare il bagno, pagando appunto. Purtroppo però in questo modo, seppure queste sono costretti a pagare per usare una toilette, inclusi i senza tetto che si destreggiano a vivere nelle aree urbane, e hanno a disposizioni pochissimi soldi, se non zero, quindi per loro pagare è un problema ancora più grande.
Sempre a proposito di bagni pubblici, esistono dei bagni gratuiti che sono disponibili solo per uomini, i vespasiani: se da un lato credo abbiano dei lati positivi, penso anche che non sia più accettabile che esistano dei servizi esclusivamente per un genere. A questo proposito c’è una soluzione, low-tech low-cost, che potrebbe risolvere la questione: sono dei coni usa e getta in carta che possono essere usati da donne per usare i suddetti vespasiani: si potrebbero installare dei dispositivi che gratuitamente offrano questi coni alle donne che devono usare il bagno “verticale” quando si trovano in città.
Il gioco e il riposo in una città ecofemminista
Infine, secondo me una città ecofemminista dovrebbe proporre aree gratuite di riposo e gioco, per adulti come per bambini. Le aree di gioco sono normalmente pensate solo per i bimbi, mentre un adulto per divertirsi ha tante sì opzioni, la maggior parte delle quali sono a pagamento, e il più delle volte sono intrattenimenti culturali. Si potrebbero pensare ad esempio delle zone di gioco per adulti e bambini, dove si possa giocare usando il fisico e divertirsi a qualsiasi età.
Un’altra questione di cui mi preme parlare sono le panchine, sedute e aree di riposo, che vengono spesso tolte dalle piazze principali delle città perché sedersi senza pagare nulla non va bene in, una città in cui tutto è in vendita: anche per questo si deve andare al bar. Inoltre molti comuni associano le panchine al degrado: tolte quelle, tolta la malavita, almeno secondo loro. In realtà si tratta di pratiche e politiche che non risolvono nulla, spostano i problemi sempre e continuamente nelle aree già più degradate dell’area urbana. Secondo me, una citta ecofemminista ha di sicuro tante panchine.
Per concludere, una città ecofemminista è una città che alla base della sua gestione sceglie un approccio femminista e ambientalista. Una città ecofemminista non può precludere dalle scelte giornaliere e da quelle straordinarie la dimensione sociale, né quella ambientale. Una città ecofemminista diventa il corpo stesso del cambiamento, attraverso le sue strutture costruite o distrutte per la creazione del futuro, che passa dalle sue strade, per sua scelta. Insomma, una città ecofemminista dovrebbe essere molto più simile al negozio di Dharma che non vendeva niente, piuttosto che alle città di oggi.
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