C’è magia sospesa tra vastità e silenzio, come se qualcosa di prodigioso potesse accadere da un momento all’altro. Dove la mancanza dell’essere umano lascia libera una realtà finita e mutevole che non ha bisogno di essere governata, perché tutto procede impeccabilmente secondo natura. Immagino che parte di questa terra non sia mai stata sfiorata, vista, mai una scarpa l’abbia calpestata. Ogni pietra starà bene al suo posto, finché un’azione non provocherà una reazione. E io mi sento un ospite in punta di piedi.
Prima di tornare a Santiago voglio incontrarli, penso percorrendo la Ruta 23, strada principale che dalla città di Calama porta a San Pedro de Atacama, e dentro rami minori ne esplora i dintorni. Guido il fuoristrada rosso tagliando l’aria insolente e polverosa della via che cresce, in direzione delle lagune di sale di Miscanti e Miñiques, fino a quota 4200 metri. Ci circondano paesaggi vicini e lontani che gradualmente sfumano dentro nuovi scenari senza che tu te ne accorga. Distanti due o trecento metri vedo il primo gruppo, due adulti e un piccolo, e accosto. Il più grande muove qualche passo distaccandosi dagli altri, si abbandona su un lato e sguazza per qualche secondo dentro una pozzanghera, poi con una spinta si rimette in piedi spargendo nell’aria scintille di acqua e sole. Mi meraviglio di riuscire ad osservare quella scena da tanto lontano, vedo tutto così lisergicamente chiaro che mi ci fisso. Salendo l’aria è sempre più rara, il sole più fuoco, il vento più divino.
In cima la natura sta sola e ti zittisce. Due grandi specchi d’acqua separati da poche centinaia di metri, si accompagnano tra montagne dalle forme cremose, tinte come da polveri colorate cadute dal cielo, e sfiorate dalle grosse ombre scure di nuvole in cammino. Avverto la superbia di chi sa di meravigliare per tanta bellezza. Mi affanno di più ad ogni passo e limito all’essenziale movimenti e parole. Compaiono di nuovo gli animali dorati dal collo lungo, ancora in gruppo. Osservo l’armonica corsa giù per il colle, che costeggia le sponde bagnate fino a risalire e terminare davanti a me. Sagome brillanti sovrapposte a strati di colori e di materie. Uno di loro si siede in terra e lo faccio anch’io, ci guardiamo negli occhi, io e la creatura fantastica con messaggi dall’universo. I vicuña producono la lana più pregiata e cara al mondo, l’antica civiltà Inca ne riconosceva la sua unicità e la paragonava all’oro, la indossavano solo i reali e meritava grande rispetto. Mi convinco che il vicuña sia qui per me ed è difficile lasciare andare questo momento.
San Pedro de Atacama è una cittadina quasi interamente costruita in adobe, un composto di terra e materiali organici, utilizzato tra i primi nelle costruzioni di tutto il mondo. Negozi di pietre e gioielli, artigianato in rame, lana, erbe medicinali. Le case rossicce hanno tutte un piano unico, non c’è altezza. Ai lati delle strade si aprono ristoranti e botteghe, alimentari dai profumi unici. Di sera la musica dal vivo risuona tra le strade sterrate che separano las quadras e la piazza centrale.
Un luogo aperto al turista, ma che nella sua essenza resta deserto. Qui la gente è terra e la terra è viva. Un equilibrio agile e necessario. Non che manchi il difetto, ma non avverto malessere, come se lo spazio sminuisse ogni cosa e tutto fosse semplice e consapevole esistenza.
Appena fuori dal centro c’è il cimitero, un recinto in adobe forse alto quanto me per croci di legno colorate, incoronate da ghirlande di fiori di plastica bruciate dal sole, riconosci così le più vecchie. Piccole cappelle familiari e uno spazio all’aperto dedicato alle cerimonie religiose con panche e un altare. Mi soffermo a tratti richiamata dalle croci, specchi di differenze sociali e affettive. Alcune parlano di nomi, di vita, di passioni. Altre solo di morte. Nata da un’oasi nel deserto di Atacama, San Pedro è la base perfetta per spostarsi e visitare altro. Paesaggi extraterrestri, dune di sabbia e alture rocciose da scalare a fatica, mentre il sole ti brucia la pelle che non fai in tempo a proteggere. Geiser, lagune di sale, ritrovamenti pre-colombiani, cittadine che quando ci sei dentro ancora non le vedi. Baracche fragili accatastate l’una all’altra, fino al centro, dove resistono le costruzioni più antiche e una minuscola piazza. Minatori, artigiani, bambini, uomini che fanno lavori da uomini, donne che fanno lavori da donne.
Oggi a Toconao c’è una festa popolare, alcune bancarelle vendono cose da mangiare fatte a mano, la piccola piazza centrale è arredata di mobili e oggetti antichi che raccontano usanze locali. Mi infilo in mezzo per fare qualche foto, una signora da dietro a un banchetto mi chiama e mi offre del cibo, stanno aspettando una qualche sorta di funzione, dice. Allora mi faccio da parte e da lì a poco lo spazio si riempie di corpi minuti, per lo più donne, di ogni età, dai lunghi capelli scuri. Si recita insieme una filastrocca cantata e alla fine si esulta, i volti rossastri e simmetrici si aprono in occhi allungati e denti bianchi. Qui la storia sono loro.
A San Pedro compro delle pietre, una sciarpa da regalare, un bracciale di rame con proprietà guaritrici, erbe medicinali e le foglie di coca da un signore anziano con una faccia enorme. Quel volto genuino mi sorride e curioso mi chiede da dove vengo, quante lingue parlo. Mi faccio consigliare su come usare le foglie di coca, mi pare felice di avere uno scambio con me. Di tanto in tanto degli acquazzoni irrompono a San Pedro, nel tempo diventiamo una sola cosa col fango e dopo quattro giorni andiamo via portando con noi quella terra.
Sono arrivata in Cile ieri, 10 febbraio. Realizzo realmente in che posto sono quando vedo la città dall’alto, mentre dondolo dentro la cabina sospesa del teleferico e guardo giù. Sorvoliamo il colle San Cristobal, che spacca Santiago a nord-est come un raggio, arrivando fino al centro nel Barrio Bellavista. Il panorama non ha un principio né una fine, dentro questa distesa di case, strade, palazzi storici, edifici dai piani in eccesso per abitazioni e uffici, si condensa un terzo della popolazione dell’intero paese. La faccia della metropoli vibra sotto l’aria densa di calore e smog, los santiaguinos si lamentano tutti del traffico eccessivo e dell’inquinamento. In cima c’è una statua gigante della madonna con le braccia aperte, la voce di una preghiera cantata si perde nell’aria senza tregua: ho la sensazione di stare su una terrazza aperta su tre lati, con davanti il mondo e alle spalle Dio.
Scendiamo a monte con la funicolare antica, ci riversiamo nelle ampie strade di Bellavista avvicinandoci al quartiere Providencia. Sul ponte Pio Nono superiamo il fiume Mapocho guardandolo scorrere timido, alimentato dalle piogge e dalla neve sciolta che scende giù dalle Ande: è sempre troppo scarso, ormai da diversi anni.
A partire dall’ottobre del 2019 Santiago ha preso un’altra forma. Nei pressi di Plaza Baquedano, conosciuta come Plaza Italia e ribattezzata dalla protesta Plaza De La Dignidad, tutto è serrato, distrutto, protetto da lamiere di ferro o spessi pannelli di compensato, devastato da spranghe, pietre, pezzi delle mattonelle di marciapiedi ormai inesistenti. Le mura piangono inchiostro, soffocate da manifesti, sticker, foto con i volti di scomparsi e caduti. Ogni cosa è imbrattata da spray, pennarelli, pitture. Tutti i locali sono chiusi. Facciate, vetrate e insegne frantumate, tracce di fuoco e fiamme ovunque.
Sono in giro con un amico, quando arriviamo la piazza è schiacciata dal sole, desolata, seppur battuta da un traffico svelto. Qui si intersecano alcune delle strade principali della città. Agli incroci qualcuno si improvvisa addetto al traffico per pochi spicci, chi può lascia un’offerta libera. Molti dei semafori in città sono distrutti, qui in zona non ne esiste più uno.
Ci dirigiamo verso la statua centrale, monumento in onore del generale Manuel Baquedano, oggi ricoperta di rabbia. Mentre camminiamo ci ferma un ragazzo e ci dice di stare attenti, che i tipi a presidio della statua chiedono soldi dopo essersi fatti fotografare. Un piccolo gruppo in stile riot è rimasto a sorreggere la rivoluzione, in questa surreale pausa estiva di febbraio che attende il ritorno delle masse. Salire su quella statua è potente.
Poco distante dal cavallo, sventola la bandiera Mapuche.
I Mapuche sono i veri padroni di queste terre, l’etnia indigena di amerindi che abita il Cile centrale, meridionale e il sud dell’Argentina. Espropriati dei territori ancestrali, schiavizzati, assassinati, perseguitati dai governi e da sempre in lotta, sono adesso una delle facce più potenti della protesta. Un emblema di ribellione e resistenza per tutti i cileni che oggi combattono il sistema neoliberale, condannano un modello economico che genera disuguaglianza e differenze sociali, gli accordi di libero mercato che hanno incoraggiato un’ampia privatizzazione, una costituzione basata sulle leggi promulgate durante il sanguinario regime di Augusto Pinochet.
Giro il volto attratta da un blindato militare che sembra uscito da una pioggia di meteoriti, le strade intorno sono punteggiate di povertà. Tende piantate per strada, mendicanti e ambulanti occasionali, vite in abbandono. Prendiamo la Avenida Libertador Bernardo O’Higgins: distesa sul marciapiedi, ad un angolo della strada, ci sono una bandiera cilena e una mapuche. Sopra, allineati in ordine, i pezzi di ciò che resta della lotta armata: bombolette lacrimogene, le cartucce dei proiettili di gomma, bandane, maschere anti-gas. E poi piante, pupazzi, altri oggetti. Un cartello che dice Ni el Coronavirus se compara con la pandemia de pacos que tenemos en Chile (neanche il Coronavirus si può comparare alla pandemia di polizia che abbiamo in Cile). In questo punto è morto un ragazzo durante gli scontri, e questo è come la protesta lo ricorda. 34 persone hanno perso la vita, più di 3400 sono finite in ospedale, più di 8800 arrestate.
Resistencia, venceremos, Chile desperto, yuta culia, estado asesino, fuego a la cana, no mas represion, la lucha sigue, paco violador, fachos culiaos, hasta vencer o vencer, pacos asesinos, destruie, fuego al paco, renuncia Piñera, no te canses lucha, No+AFP (Administradoras de fondos de pensiones), 1312, ACAB, ACAB, ACAB ovunque.
Pacos, Yuta, carabineros, sono sempre loro, il nemico. Non esiste un solo posto dove guardandoti intorno non vedi marcate parole di odio e di lotta, dove non ti invoca l’urgenza, non solo a Santiago, ma in ogni posto che ho visto.
La natura vivace di città turistica e balneare de La Serena, sulla costa nord, è ora snaturata dagli imbratti. Gli edifici pubblici incriminati, le banche nascoste da pannelli. Le statue hanno gli occhi cavati da vernice rossa colante. Mentre la gente si affolla per le strade, pronta per il mare, mangia gelati seduta al bar, ingurgita cene al ristorante, consuma la notte dei locali e gode il respiro della tregua. Una delle mete estive prescelte dai cileni è il litorale più lungo del paese, Playa 4 Esquinas. All’estremità sud della spiaggia si incontra Coquimbo, la capitale della provincia del Elqui.
Dalla Cruz del Tercer Milenio, il faro più alto del Sudamerica, a 197 metri sopra il mare, il tragitto verso il centro mi pare abbastanza ovvio, ma per sicurezza chiedo conferma lungo la strada, per tre volte. Tutti mi dicono lo stesso: “dove vai da sola?”. E’ pericoloso, forse è meglio se prendo un taxi collettivo, dicono. Ma decido di procedere a piedi e ad occhi aperti. Coquimbo sporge rassegnata nell’oceano, in mezzo a due golfi. In origine un insediamento indigeno per la pesca, fu occupata dallo spagnolo Pedro de Valdivia nel 1550. In epoca coloniale il commercio di oro e rame attira sul luogo molti europei, in particolare gli inglesi.
Atterro in pianura a Plaza de Armas, tutte le città latine dove gli ispanici si sono insediati hanno una piazza con questo nome. Una moderata confusione intorno a me, animata a tratti dall’auto del circo che è in tour a La Serena: “circo gigante de Mexico, no recuerdas si lo viste o si lo soñaste” urla il megafono. Inizio ad essere affiancata dai frontali decorati delle vecchie case del Barrio Ingles, eredità della vita culturale ed economica più florida che il luogo ricordi. Da alcuni dei balconi si affacciano curiosi figuri, mi fermo e chiedo al signore all’esterno di una di quelle porte. E’ la Biblioteca Pubblica e lui è il gestore, simpatico e logorroico, mi spiega delle sculture che impersonificano degli inglesi, imprenditori, medici, viaggiatori, dame, che un tempo abitavano quelle case. Mi dice che è un peccato, perché molte di queste sono abbandonate, fuori esposti i cartelli di VENDO e AFFITTO, ma nessuno ha i soldi, e stanno andando in rovina. Allunga il braccio puntando il dito verso sinistra “come quella facciata crollata poco più avanti, guarda!”.
Tra poche ore ho l’aereo che mi riporta a Santiago, chiamo un Uber e viene a prendermi Roberto, un argentino che ha vissuto dieci anni in Svizzera, ma che ha preferito tornare in Cile anche se qui ha poco da fare. Non reggeva la sterile vita sociale di quelle parti, parliamo del nord Europa e condividiamo i nostri dubbi. Mi dice che se ho soldi da investire, lui conosce uno spazio in vendita a La Serena, dove per soli 17.000 euro circa posso comprare ettari di terreno di fronte al mare. Fantastichiamo sul possibile business da fare, ma poi gli dico che i soldi non ce li ho. Amo Coquimbo, mi ricorda Valparaiso.
Valpo la chiamano qui, un’ora e mezzo di macchina da Santiago. Tra la densità della metropoli e la costa, si viaggia immersi nelle terre vinicole delle valli di Aconcagua e Casablanca. Un luogo che continua a comporsi nel tempo, dal passato denso di scambi, di lotta, di ricchezza economica, di arte e cultura, di buio e di luce. Nel diciannovesimo secolo Valparaiso è il primo porto di approdo per chi si arrischia nell’oceano navigando fino al Pacifico. Imprenditori, viaggiatori e marinai di ogni dove si rovesciano su questa terra nel primo sospiro di sollievo e si mescolano con essa, prendendo e lasciando qui qualcosa. Più di quaranta colli che confluiscono nella pianura della baia, fino a incontrare il porto, in una magnifica scena. L’aspetto eccentrico spinge il bisogno di riversarti nelle strade, di imboccare ogni vicolo. Risalgono ovunque marciapiedi alti fino a mezzo metro, misti a scale, che si inerpicano stretti a mura animate da graffiti e colori, inni alla ribellione, pezzi d’arte. Le case arroccate a migliaia, dalle tinte calde e vivaci, affollano a cascata i colli cittadini. Qualcuna di loro profuma di lusso, ma prevalgono abitazioni modeste, povere, magnifiche case in rovina. L’impronta architettonica europea, evidente in certi punti, è rimasta ferma a quel tempo e ti lascia immaginare. Sparsi in città, i tipici ascensori che ti portano su per i colli, per guardare attraverso i vetri quando sei in cima.
Non si va oltre i 26 gradi, l’acqua è gelida e il vento costante, il sole tiranno non basta, andare al mare sulla costa è un atto di coraggio. Sulla spiaggia si fermano alghe che sembrano fruste giganti di latex, alcuni centimetri di diametro alla radice e lunghe anche dei metri, le immagino vivere sul fondale dell’oceano e ondularsi dentro una grandezza a me sconosciuta.
Anche Pablo Neruda aveva una casa estiva a Valparaiso, La Sebastiana. Il panorama di colli stipati, poggiati sul porto, irrompe dalle vetrate dei tre piani. All’interno una selezione sparsa di oggetti bizzarri, tipo il cavallo in legno di un carosello francese, poggiato su una delle colonne in salotto, o l’uccello rosa fluorescente, imbalsamato con una strana morte alle spalle. Parlo a lungo con il tipo che lavora nel museo e che controlla che nessuno faccia foto all’interno. Mi racconta un paio di aneddoti su quegli oggetti e sui suoi figli, mi dice che una volta lavorava per la marina militare e che quello che sto vedendo oggi è un altro Cile, che la situazione deve cambiare perché la gente è stanca.
Mi sveglio sola in casa col cane. A Santiago sono ospitata in famiglia di amici in un quartiere ad est chiamato La Reina. Prendo la metro a Fernando Castillo Velasco e scendo a Plaza de Armas, piazza che nel 1541 divora l’insediamento e i diritti della comunità Inca che abitava questa valle. Tutto intorno al piazzale si stabiliscono le prime case e le maggiori istituzioni coloniali. E’ qui che nasce Santiago.
Per primo entro nella Cattedrale. Mi piace camminare dentro le chiese enormi per l’altezza dei soffitti, il fresco e il silenzio. Poi raggiungo a piedi il Barrio Civico e il palazzo de La Moneda: anche qui ci sono già stata, ma è come se fosse rimasto qualcosa in sospeso. Immagino il presidente Allende pronunciare quell’ultimo discorso al popolo, da una di queste stanze, e tutte le radio diffondere quel dolore al paese. La piazza è chiusa da transenne di ferro e piena di bandiere cilene, volgo un saluto di riverenza alla statua di Salvador Allende e vado via.
C’è sempre qualcuno che vende cose messe a terra a Lastarria, faccio un giro nel mercatino oggi più organizzato di sempre, un ragazzetto vestito da clown suona la fisarmonica all’angolo del palazzo disegnato ad arte, il borgo è antico, ne senti quella bellezza. Prendo un caffé in un piccolo bar che passa buona musica, infastidita solo dal pensiero che stanotte ho l’aereo che mi riporterà in Europa. Decido di fare ancora un salto in Piazza Italia, perché so che mi mancherà.
Sulla strada incrocio un ragazzo in maglietta e pantaloncini, volto e capo coperti, fuori solo gli occhi densi che si incrociano con i miei per tutto il tempo concesso. Capisco che a passo svelto si allontana dalla piazza e da qualcos’altro. Più avanti un gruppo di persone schierate da un lato, altre sparse nei dintorni, qualcuno a volto coperto qualcuno no, due camionette dell’esercito a presidio. Volano un paio di pietre sulla fila di militari che si spalleggia di fronte senza reagire, i cani abbaiano. L’energia precaria che ho intorno mi allerta, per intensità e audacia. Un signore magrissimo dai capelli grigi messo lì in mezzo, mi chiede se voglio comprare una bottiglia di acqua gelata, ma l’ho appena presa da un altro. Dal lato opposto della strada vedo un tipo schizzare inseguito dagli sbirri. Questa volta sono qui da sola e più cosciente di prima. Ho raggiunto un certo equilibrio con questo posto, vissuto il momento presente e onorato quello passato. Abbastanza da delineare un profilo parziale del suo volto. La pelle è un mischio di colori, i capelli scuri sono pieni di polvere e sale, gli occhi intrisi di dolore e di una pace universale brillano pieni di orgoglio. La vecchia cultura arranca per restare in vita, mentre la nuova si ribella. Provo l’amarezza di dover andare via senza poter fare qualcosa.
Decido di fermarmi qui per tutto il tempo che mi rimane. Così, per vedere che succede.
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