Le acque sono azzurre e gli arbusti sono rosa
La sera è dolce da vedere
È l’ora del passeggio. Le grandi signore vanno a spasso; dietro di loro vanno le piccole signore.
NGUYEN TRONG HIEP, Parigi capitale della Francia (1897)
Quindi venite a chiedere proprio a me di parlare di Cagliari. Non della mia isola, per la quale nutro un affetto incondizionato, ma della città che ne è il capoluogo, della città che non ho viceversa mai troppo amato, che di rimando non mi ha mai accolto, come una madre adolescente e castrante. Casa è il luogo da cui partire, è vero. E le castrazioni potrebbero essere utili a questo scopo. Ma è anche quello in cui si può tornare e sentire che ancora ci parla una voce intima e familiare.
Per me, negli anni berlinesi, era Luogosanto, la Gallura, il luogo in cui tornare a sentire quella voce e sentirsi felici, circondati da piacevoli ricordi. Cagliari invece è sempre stata un posto lontano dai miei bisogni, in cui forse in fondo mi sono sempre sentita una turista.
Perché si, è proprio così, Cagliari è una città perfetta per i turisti, anche se, come sempre accade, i turisti non potranno mai capirla fino in fondo.
È perfetta per un soggiorno breve, per uno lungo, ma anche come buen retiro, perché anche i più pigri possono trovare scorci davvero meravigliosi, tutto l’anno, perpetuamente. La natura è quella di una terra di mezzo, metà Africa e metà Europa, quella delle palme (meno di un tempo, per quell’insetto comunista), degli stagni e dell’acqua che scarseggia, della luce abbagliante, dei tramonti infuocati. In luoghi come lo stagno di Molentargius, un luogo spettacolare dove non solo nidificano i fenicotteri rosa, la genti arrubia, ma anche la garzetta, il cavaliere d’Italia, o la vicina spiaggia del Poetto, 10 km di sabbia e occhi di Santa Lucia, o ancora il colle di Tuvixeddu, puoi ancora provare quel sentimento di intima comunione con la natura, che è di fatto indispensabile per ricollocarsi nel mondo. Un sentire sottile e preciso, ritmato dagli odori dei fichi e dei gelsomini, dai colori sempre caldi, e dall’azzurro di un cielo spesso infinito. Quasi un sublime esotico, di quell’esotismo fine ottocentesco, riflesso del colonialismo, nel quale Cagliari sembra rimasta imprigionata, a giudicare da buona parte del suo centro storico, dominato dall’imponente massiccio bianco del Bastione di Saint Remy.
Un esotismo nord africano, che se non arrivasse ogni tanto il maestrale si potrebbe declinare come malarico, inospitale.
Ma il maestrale arriva, chiamato a gran voce nelle interminabili estati, e dal Golfo del leone porta con sé gelidi cristalli blu e acqua tersa, batuffoli di sale tra le canne dello stagno, raffiche di sabbia, blatte alate e fiori di jacaranda. Spazza via, spariglia, ricorda che siamo in Europa, che esiste un Nord che dice di tornare, e non solo un Sud in cui vien voglia di rimanere.
Perché da turista, certe cose di Cagliari non si vedono, non si colgono immediatamente: compare solo l’aspetto giocoso, spensierato, compaiono solo la bellezza e la luce. Le case di Villanova, ad esempio, che sembrano essere tutte bellissime dall’esterno, tutte vivibili, tutte incantate, dalla mattina alla sera. Che poi invece si trasformano, in tanti casi, in abitazioni troppo piccole e troppo buie, trappole umide e opprimenti.
Perché passeggiare per quelle vie strette, incorniciate dalle piante di geranio, costellate di piccole botteghe con piccoli bottegai cordiali, può allietare davvero gli animi, pensare che sia un ottimo posto dove vivere i propri giorni.
Cagliari ammalia, Cagliari si dice che sia come Los Angeles: e quando soffia lo scirocco dall’Africa, portando onde e mareggiate, e in acqua ci sono molte tavole e molti occhi felici che spuntano da mute e lycre, pare proprio sia così.
Abbronzatissime e abbronzatissimi di tutto il mondo unitevi al Poetto, la spiaggia dei centomila, la spiaggia dominata dai due giganti di cemento e di roccia, l’ex ospedale marino e la Sella del Diavolo, il grande promontorio calcareo, ancora in gran parte zona militare (una cattiva abitudine sarda, quella delle corvée militari, di cui per fortuna si parla sempre più). Unitevi contro il mondo magari, e magari ricordatevi del più talentuoso scrittore sardo, Sergio Atzeni, inghiottito proprio dal mare non lontano da Cagliari, persosi troppo presto nelle acque dell’isola di San Pietro. Atzeni che non ha conosciuto le compagnie low cost e le navi da crociera, che viveva in periferia come Houellebecq, che forse come me non amava troppo la città che lo aveva voluto adottare.
Dovevo nascere pesce
Mi piace guizzare sotto il pelo dell’acqua e uscire ogni tanto a respirare e guardare il sole che scintilla sulle ondine di maestrale o abbaglia sulle onde di levante che ti succhiano in basso
Mi piace giocare con le onde allungarmi perché mi portino in alto e mi buttino in un gorgo
Così scriveva nel suo ultimo racconto. Così forse ha pensato nei suoi ultimi attimi. Meglio pesce che casteddaio (Casteddu in dialetto è Cagliari, e casteddai i suoi abitanti).
Ma ancora una volta, sia chiaro: per un turista Cagliari è un posto davvero splendido. Non si vede subito il rovescio della medaglia, non si vedono subito certe bruttezze da provincia: come i cognomi che si ripetono nei posti che contano più e contano meno, il lavoro che manca e se c’è finisce agli amici, l’omologazione piccolo borghese e quella alternativa, e rimangono solo i ristorantini di pesce, il mare e i fenicotteri rosa al tramonto.
Come ogni città collegata dalle (semi)nuove/(già)vecchie compagnie aeree, che ha un centro storico che dice qualcosa e una rete commerciale estesa e trasporti efficienti, Cagliari ha conosciuto negli ultimi tempi un processo di gentrificazione, determinata proprio dagli afflussi turistici. Da un lato gli spazi urbani centrali risultano oggi più confortevoli e gradevoli, in linea con una certa vivibilità standardizzata. Dall’altro i nuovi giardini, le nuove infrastrutture la rendono simile alle altre città europee, levandole un po’ di fascino. Sopravvive, come detto, una stimmung, un’atmosfera tardo ottocentesca, vittoriana negli aspetti sociali (che in politica di traduce nella recente elezione di un sindaco sentinella), che sembra inestirpabile e che di sicuro convive, costituendone le fondamenta, con questa nuova cornice global.
Può darsi che gentrificare non sia dunque necessariamente un male, se riescono a sopravvivere luoghi in grado di lasciare il segno, di determinare senza equivoci l’identità della città, e prima di tutto, se non si scacciano in massa i suoi abitanti dal centro.
Tra questi luoghi ne scelgo due, abbastanza ampi da non poter stare in una cartolina, da non poter diventare monumenti, da poter vivere e godere.
Il primo è via Roma, la via che corre parallela al porto, dove il manto stradale è un vecchio pavé, dove i marciapiedi contano poco perché si cammina sotto i portici pieni di bar, negozi, edicole, ma soprattutto specie umana e piccioni. Tutto sommato un insieme di elementi piuttosto comuni, per la via delle vie italiane (via Roma risulta essere, tranne poche città ribelli come Napoli e Milano, il nome più diffuso tra le strade italiane, voluto dal boss del ventennio). Ma ciò che conta in questo come in altri casi non è il cosa ma il come. Nella via Roma tutto trasuda cagliaritanità. In ogni tavolino puoi trovare una pizzetta sfoglia e una Ichnusa, un gruppo di alcolizzati in là con gli anni con mocassini e camicie improbabili (camicie da cantanti si usa dire), una copia dell’Unione sarda e signore troppo eleganti o provocanti, con gioielli veri o bigiotteria di quart’ordine. Miseria e nobiltà. E accanto a tutto questo i matti, come sempre splendidi, i mendicanti come in India, i turisti in cerca del nulla, avvolti dall’odore del mare e dei muggini arrosto, dello smog delle auto e del caffè appena servito.
Sotto i portici di via Roma tutto sembra insomma poter accadere, e tutto rimane uguale, come un set cinematografico.
Il secondo luogo è l’orto botanico, perché Cagliari ha davvero un meraviglioso orto botanico, inaugurato nel 1866. Un giardino magico, sospeso nel tempo, che poteva essere deturpato da chioschi con pessima musica o divenire inaccessibile per costi d’ingresso impopolari. Qui le radici crescono e a tratti rendono impervio il cammino, certe piante muoiono, le aiuole si consumano, eppure sopravvive questo gioiello, nel cuore antico della città, vicino all’anfiteatro romano e alla villa di Tigellio, e all’ospedale di San Giovanni, progettato in stile neoclassico dall’architetto Gaetano Cima con autentico spirito umanistico.
Lo stesso spirito con il quale un gruppo di botanici italiani (tra cui Eva Mameli, madre di Italo Calvino) tra otto e novecento ha allestito gli spazi verdi nei quali perdersi e meravigliarsi, e conoscere i nomi di battesimo dati dagli studiosi alle numerose specie di piante presenti.
Oggi l’orto, che si estende su una superficie di cinque ettari, ospita specie arboree e arbustive tipiche del Mediterraneo ma non solo, come i magnifici esemplari di Ficus, un ricco palmeto, una collezione di circa mille piante succulente che popolano le parti rocciose, vasche di ninfee e papiri. E un percorso dedicato alle piante della Bibbia, ben ottantasei specie diverse delle centoventi citate nel libro dei libri: quasi archeologia botanica.
Difficile descrivere l’atmosfera di decadenza, di tenerezza e potenza, che si respira nel vecchio giardino che ha resistito ai terribili bombardamenti del ’43, e che tutt’ora resiste, infischiandosene delle rughe, infischiandosene delle amministrazioni che se ne occupano poco, lasciando che siano le piante a parlare, e il suo capace e donchisciottesco direttore a farle sopravvivere in questi tempi incerti.
Negli ultimi tempi amo molto vagare per i quartieri popolari di questa città. Sono diventata una flâneuse di periferia, una flâneuse à la Baudelaire, perché come scriveva Benjamin:
il flâneur è ancora alle soglie, sia della grande città che della borghesia. L’una e l’altra non lo hanno ancora travolto.
Egli non si sente a suo agio in nessuna delle due; e cerca un asilo nella folla.
Sant’Elia in particolare, ma anche San Michele, Is Mirrionis.
Piazza Medaglia è un luogo di metafisico squallore e amara bellezza, dove le strenne natalizie rimangono appese per anni, dove non ci sono gelsomini e gerani, dove non passano i fenicotteri, dove il maestrale non rinfresca ma arrostisce, servito caldissimo dalla pianura del Campidano. Un luogo dove si è tutti potenziali flâneur, rimuginatori o meglio e più probabilmente, come si dice da queste parti, oreri, cioè a dire perdigiorno, inoccupati e disoccupati per scelta o per destino, che passano il tempo a vedere che succede.
Sant’Elia, che nasce come borgo di pescatori, che rimane esclusivamente tale fino agli anni ’70 e ai palazzoni con vista mozzafiato, ai pilotis e allo spaccio pesante, è invece una periferia atipica nella quale perdersi, perché vicina al mare ma anche al centro.
Qui è dove i venti arrivano tutti, ma a volte non arrivano i bus, perché gli autisti capita che si rifiutino di arrivare; è il luogo da dove può iniziare il cammino verso la Sella del diavolo, verde e bianca come il Pan di zucchero di Rio, dove da quasi ogni casa si vede il golfo e non le colline di spazzatura all’ingresso dei palazzi.
E dove c’è il mio bar preferito, un container a picco sul mare, dove hanno solo birre ghiacciate, dove non hai bisogno di spiegare perché sei triste. Forse l’unico posto dove posso svestire i panni della turista, e sentirmi un po’ felice di essere nata qui.
Mi sono chiesta molte volte cosa mi renda così paradossalmente estranea questa città. Non sono ancora riuscita a capirlo, non credo si tratti di ragioni oggettive, ma piuttosto di un je ne sais quoi che segue logiche tutto sommato inesprimibili a parole. Però trovai una risposta parziale a tali domande tempo fa, ragionando con due amici traduttori su tre piccoli testi di Georg Simmel (Roma, Firenze, Venezia, Meltemi 2017), nei quali finalmente trovai conforto, un appiglio, un riparo: ciò che piace o meno di un luogo è anzitutto la sua estetica complessiva, un’estetica assolutamente unica, inoggettivabile, morfologicamente indefinibile ma nettissima, nella quale se manca anche solo un tassello, non c’è più senso.
Il fascino più profondo della bellezza risiede forse nel fatto che essa costituisce sempre la forma di elementi che in sé sono indifferenti e a essa estranei, e che acquistano un valore estetico solo in virtù del loro stare l’uno accanto all’altro. Tale valore manca alla singola parola come al singolo frammento di colore, al mattone come al suono musicale, e arriva come un dono- ch’essi di per sé non meritano- nel momento in cui l’unità informante pervade i singoli elementi conferendo loro la bellezza. Il fatto che avvertiamo la bellezza come un favore pieno di mistero, come qualcosa che la realtà non può propriamente pretendere, ma solo accettare con umiltà come una grazia, può fondarsi sull’indifferenza estetica degli atomi del mondo, ognuno dei quali genera la bellezza solo in rapporto all’altro.
Così leggiamo a proposito dell’Urbe per eccellenza; e ancora oggi suonano confortanti, per chi come me guarda la città con straniamento, le parole di Simmel, il quale fu da György Lukács definito “il Monet della filosofia”, per l’ampiezza dello sguardo, e la capacità di catturare la luce che si staglia sulle cose. Da allora Cagliari è divenuta ai miei occhi una città impressionista, da ombrellino fin du siècle, ma senza mai aver avuto Monet, Van Gogh o Renoir che la abitassero e le dessero la voce. Un buon motivo per sentire che qualcosa, in effetti, manca.
Tutte le foto dell’articolo sono di Roberto Salgo
Roberto Salgo, cagliaritano, è un fotografo specializzato in reportage paesaggistici e di viaggio, comparsi tra gli altri su National Geographic, LFI magazine, Left, In viaggio.
Con le sue foto ha partecipato a mostre nazionali e internazionali (Messico, Cina).
Negli ultimi tempi ha perso la testa per Agata, la sua cagna in bianco e nero.
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