Qual è la forma delle città dove viviamo? Come si è sviluppata?
Rispondere a queste domande non è solo un esercizio accademico.
Osservare un contesto urbano dal punto di vista formale, leggere la complessità delle relazioni tra edifici e tra parti della città significa capire dove siamo e, in ultima analisi, chi siamo.
Per chi conosce la botanica un bosco è molto di più che una successione di foglie e rami,
è un libro aperto e ricchissimo di storie.
Con la serie Le città visibili, curata da Flavio Villani,
vogliamo sfogliare qualche pagina del libro delle città.
Siamo molte cose. Siamo anche quello che vediamo.
Se non vediamo niente, è semplice: non siamo.
La capitale dell’Unione Europea
Erhart […] Fece un respiro profondo e disse: l’Unione europea deve costruire una capitale, deve regalarsi una nuova capitale, una capitale ideale, progettata allo scopo.
Il professor Stephanides sorrise: il dibattito sulla città europea che debba ottenere lo status di capitale dell’Unione è morto e sepolto. È acqua passata. È stata una decisione saggia quella di non dare questo titolo a nessuna città, neppure a Bruxelles, ma di distribuire le istituzioni europee su diverse città di diversi paesi.
Lei non mi ha capito, caro collega Stephanides. Non ho detto che una città dovrebbe ottenere il titolo di capitale. So bene che questo finirebbe solo per rinfocolare il nazionalismo nei paesi i cui cittadini si sentirebbero estranei a una capitale che fosse insieme la capitale di un’altra nazione. In fondo il problema di Bruxelles è anche questo. Per quanto in un primo tempo avessi considerato una scelta sensata quella di eleggere a capitale della UE proprio Bruxelles: la capitale di un paese che ha fallito come stato nazionale, la capitale di un paese con tre lingue ufficiali. Ma no, quello che intendevo dire è che l’Europa deve costruire una nuova capitale. Una città nuova che sia costruita dall’Unione, e non l’antica capitale di un regno o di una nazione nella quale l’Unione abita solo in subaffitto.
[…] Ovviamente questa città non la possiamo costruire su una terra di nessuno, disse Erhart. In Europa non esiste più una terra di nessuno, non c’è un metro quadrato di terreno che non abbia una storia. Perciò è naturale che la capitale europea debba essere costruita in un luogo la cui storia sia stata fondamentale per l’idea unitaria, una storia che la nostra Europa vuole superare ma non dimenticare. Un luogo dove la storia resti viva e percepibile anche se l’ultimo che l’ha vissuta o che vi è sopravvissuto è morto. Un luogo che sia un faro eterno per la futura politica in Europa.
[…] per questo l’Unione deve erigere la propria capitale ad Auschwitz. È ad Auschwitz che deve sorgere la nuova capitale europea, progettata ed edificata come città del futuro e insieme come la città che non potrà mai dimenticare.
Sono molto più che una provocazione le parole del professor Erhart, personaggio come il professor Stephanides del romanzo La capitale di Robert Menasse (vincitore del deutscher Buchpreis nel 2017 e pubblicato in Italia da Sellerio l’anno dopo nella traduzione di Marina Pugliano e Valentina Tortelli), sono un invito a pensare al senso dell’Unione Europea, a quello che è e a quello che vogliamo che diventi. L’accenno a Bruxelles/Brussel è funzionale al discorso e l’obiezione del professor Stephanides coglie un’ambiguità che è presente in ogni nostra chiacchiera sull’Unione Europea: Bruxelles non è la capitale dell’Unione Europea.
Non lo sarà de iure, ma de facto lo è, visto che ospita tre delle quattro istituzioni più importanti: il Consiglio Europeo, il Consiglio dell’Unione Europea e la Commissione Europea (la quarta, il Parlamento Europeo ha sede a Strasburgo, anche se sta anche un po’ in Lussemburgo e – di nuovo – a Bruxelles). Scagli la prima pietra chi di noi, quando dice Unione Europea, non pensa a Bruxelles e viceversa, quando dice Bruxelles, non pensa all’Unione Europea!
Cosa vediamo quando pensiamo a Bruxelles
Nel primo numero di questa serie ci siamo chiesti perché Roma sia stata scelta come capitale del Regno d’Italia e se ne sia per davvero la capitale naturale. Non stiamo qui a chiederci la stessa cosa di Bruxelles: come dice il professor Stephanides, il dibattito sulla città europea che debba ottenere lo status di capitale dell’Unione è morto e sepolto.
Facciamoci la domanda opposta: che città sarebbe Bruxelles se non fosse la capitale de facto dell’Unione Europea? Se togliessimo Rue de la Loi, la strada in discesa (o in salita?) su cui si affacciano le maggiori sedi istituzionali europee, che cosa rimarrebbe di Bruxelles?
Senza scomodare Roma, Berlino, Londra o Parigi, prendiamo la capitale di un piccolo stato europeo, prendiamo Amsterdam. Quando pensiamo ad Amsterdam, a quale città pensiamo? Per quanto poco possiamo conoscerla, penseremmo ai canali, al quartiere a luci rosse, a piazza Dam. Bene o male riusciremmo a immaginarcela. Quando pensiamo a Bruxelles, invece, quale città vediamo?
Non facciamo i furbi: non vale rispondere con un elenco più o meno lungo di monumenti. Per quanto riguarda Bruxelles, non ce la caviamo mica con il manneken pis, l’Atomium, la birra, la cioccolata e le patatine fritte!
Torniamo ad Amsterdam. I canali ordinano concentricamente il territorio urbano, gli danno ritmo. I loro raggi individuano grosso modo un punto che secoli fa era sul confine tra terra e mare e che ora, con la progressiva sottrazione di superficie alle acque, è finito quasi al centro della città. Su questo punto si trova la stazione centrale che è collegata alla piazza principale, il Dam, da un rettifilo, il Damrak. Eccola qui Amsterdam, ovviamente senza troppe pretese: però ce la immaginiamo, la vediamo e ritroviamo persino il coffeeshop dove ci siamo fatti una canna potentissima prima di andare a visitare il museo di Van Gogh.
Bruxelles, invece, se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno, è bravissima a nascondersi dietro l’immagine delle istituzioni europee. Il manneken pis, l’Atomium e la Grand-Place sono dettagli di un racconto che non abbiamo sentito per intero, sono punti irrelati alla città (vabbè, ma la Grand-Place starà al centro, no? Sì, sta al centro, ma al centro di che?).
In questa sede non abbiamo la presunzione di restituire il racconto per intero, però un capitoletto ce lo possiamo permettere e vorremmo parlare del quartiere delle Marolles/Marollen. Ma prima di dedicarci a questo pezzetto di città, introduciamo una parola (anzi, due).
Bruxellisation/Verbrusseling
Sorella minore di denominazioni di origine geografica di maggiore successo come balcanizzazione e californicazione, con questo termine si indica l’inserimento di grandi edifici moderni all’interno di un quartiere storico senza alcun riguardo per il contesto urbano preesistente, con il fine di ospitare sedi e uffici di istituzioni transnazionali o per mera speculazione edilizia.
Sono ben poche le città che, nel corso della loro vita, non abbiano subito almeno un restyling dettato da un progetto religioso o politico o che non abbiano assistito a episodi di speculazione e il professor Stephanides che è in noi obietterà: che senso ha prendere proprio Bruxelles come esempio, quando io posso citarne altri ben più illustri?
Come al solito lei non ha capito, caro collega Stephanides, risponderebbe il professor Erhard che è in noi, non abbiamo detto che Bruxelles sia l’unica città in cui abbiano buttato giù qualche palazzo abitato da poveracci senza santi in paradiso per costruirci un grattacielo di acciaio e vetro. Ma è a Bruxelles che questo fenomeno di interventi indiscriminati si è manifestato (anche a scala urbanisticamente rilevante) tanto più intensamente quanto in un intervallo di tempo relativamente breve!
Adesso capisce, caro collega Stephanides, perché Bruxelles si nasconde dietro l’immagine delle istituzioni europee? Si vergogna del proprio Bausünde!
Bausünde. È questa la seconda parola che volevamo introdurre e che dobbiamo al genio linguistico tedesco: il peccato edilizio.
A Bruxelles, nel ventennio tra la fine degli anni Cinquanta e la fine degli anni Settanta del secolo scorso di Bausünden ne sono stati perpetrati più che a sufficienza da far guadagnare anche a questa piccola città l’onore di una denominazione di origine geografica: bruxellisation/verbrusseling. Ed è tanto più significativo, perché a farne le spese sono stati spesso edifici che non meritavano affatto la demolizione. In queste brevi note abbiamo spazio per parlare solo di due, entrambi opera di architetti che tanto hanno dato alla città, uno più famoso, il barone Victor Horta (1861 – 1947), e uno meno, Jacques Cuisinier (1915 –2000).
Cosa intendiamo quando diciamo Bruxelles
Torniamo però alle Marolles e, prima che torni a farsi sentire il professor Stephanides, spieghiamo che abbiamo scelto le Marolles perché ci sembra rappresentare, suo malgrado, un ottimo esempio di bruxellisation, ma anche di riscatto, come vedremo alla fine.
Prima di andare avanti però cerchiamo di chiarire una volta per tutte cosa intendiamo quando diciamo Bruxelles. Non è affare tanto semplice, lo diciamo subito, perché da una parte abbiamo la Regione di Bruxelles Capitale (Région de Bruxelles-Capitale/Brussels Hoofdstedelijk Gewest), che fa circa un milione e duecentomila abitanti ed è composta da diciannove comuni, ognuno amministrativamente indipendente, e dall’altra abbiamo la Città di Bruxelles (Ville de Bruxelles/Stad Brussel), che non è altro che uno dei diciannove comuni dell’area metropolitana di Bruxelles e che non arriva a duecentomila abitanti.
È la Città di Bruxelles che è capitale del Regno del Belgio, che è sede delle Comunità francese e fiamminga e che ospita la maggior parte delle Istituzioni europee, non la Regione di Bruxelles Capitale.
È la Regione di Bruxelles Capitale, però, la città che intendiamo quando diciamo Bruxelles, non la Città di Bruxelles, che rappresenta solo uno dei suoi diciannove comuni. La Regione di Bruxelles Capitale, tanto per complicarci le cose, è anche una delle tre regioni in cui è diviso il Belgio (le altre due sono le Fiandre e la Vallonia) e non va assolutamente confusa con la Regione bilingue di Bruxelles Capitale, anche se i loro territori coincidono quasi del tutto. La Regione bilingue di Bruxelles Capitale è una delle quattro regioni linguistiche del Belgio (le altre tre sono la regione linguistica olandese, che corrisponde alle Fiandre, e quella francese e tedesca, che corrispondono alla Vallonia).
Le lingue della regione bilingue di Bruxelles Capitale sono il francese e l’olandese e per rispetto a entrambe, quando introduciamo una parola o un’espressione, lo facciamo nelle due lingue, laddove possibile, anche se poi si utilizza solo il francese, che risulta più familiare al lettore italiano.
La Città di Bruxelles si trova nel centro geografico della città di Bruxelles e un tempo aveva una forma pentagonale. Con il passare degli anni nel suo territorio sono finiti anche il parco di Laeken a nord, il bosco della Cambre a sud e il parco del Cinquantenario con Rue de la Loi a est, ma ancora ci si riferisce a lei come al Pentagono, anche per via dei marcati corridoi stradali che ne segnano il perimetro. Il quartiere les Marolles appartiene al vertice meridionale del Pentagono e ospita il Bausünde originale di Bruxelles.
Palais de Justice de Bruxelles/Justitiepaleis van Brussel
Se fosse il CEO di una corporation gli sarebbe riconosciuta una vision, ma nella seconda metà dell’Ottocento questo termine non era di moda (avrebbe fatto pensare più alla mistica che all’economia). Cionondimeno, Leopoldo II sapeva molto bene quello che voleva per il suo regno. Per la sua capitale pensò in grande, molto in grande, forse anche troppo per uno stato tanto piccolo. L’attuale forma della città di Bruxelles è dovuta alla sua vision: un cuore pentagonale con cinque grandi parchi situati ben oltre i più lontani sobborghi per tracciare le vie di sviluppo della città.
Il problema di Leopoldo II era l’implementation della vision, cioè la mission (anche questa parola non era di moda nell’Ottocento e, più che all’economia, avrebbe fatto pensare a bianchi europei che portano conforto spirituale e materiale a neri africani): per finanziare i suoi progetti Leopoldo II sfruttò le ricchezze del Congo con metodi disumani (stime conservative parlano di sei milioni di vittime, circa il 20% degli abitanti dell’allora Stato Libero del Congo). La sua gestione disgustò politici e intellettuali belgi e di altri Paesi colonialisti europei, che pure di pelo sullo stomaco ne avevano parecchio, e nel 1908 il parlamento belga gli sottrasse il giocattolo per amministrarlo secondo criteri più equi (ovviamente nei limiti della sensibilità del tempo).
La necessità di costruire un nuovo Palazzo di Giustizia si manifestò molti anni prima che Leopoldo II salisse al trono nel 1865, ma solo nel 1860 si fece sul serio e fu indetto un concorso internazionale. Le proposte avanzate non convinsero però le autorità, che l’anno dopo affidarono l’incarico all’architetto capo di Bruxelles, Joseph Poelart.
La prima pietra fu posta nel 1866 e l’opera fu inaugurata nel 1883. Non ci allontaniamo troppo dal vero se affermiamo che il Palazzo di Giustizia rappresenta l’ipostasi della vision di Leopoldo II. Basta considerare le dimensioni: in pianta misura circa 180 m x 180 m, per una superficie edificata di circa 26.000 m² (otto grandi cortili danno aria e luce a 27 aule di tribunale maggiori e a 245 sezioni minori). Per molti anni fu l’edificio più grande al mondo. Per orientarci non prendiamo il solito campo da calcio (comunque 26.000 m² sono due campi e mezzo), ma prendiamo alcune piazze italiane: Piazza del Duomo a Milano e Piazza del Plebiscito a Napoli fanno rispettivamente 28.500 m² e 24.000 m², Largo di Torre Argentina a Roma ne fa 13.000 e Piazza San Marco a Venezia 12.000.
Consideriamo anche l’aspetto estetico. Qui non si tratta di definire bello o brutto l’edificio, ma se pensiamo a chi lo trovò bello, possiamo farci un’idea chiara di cosa rappresenti il Palazzo di Giustizia: tra i suoi estimatori si annoverano il dittatore peruviano Augusto Bernardino Leguía y Salcedo, che nel 1929 incaricò l’architetto polacco Brunon Paprocki di eseguirne una copia a Lima (che fu, seppure in scala minore e senza cupola, realizzata), e Adolf Hitler, che mandò il suo architetto Albert Speer a studiarlo come modello per gli edifici nella nuova Berlino.
Prendiamo dal sito dell’UNESCO (sì, il Belgio nel 2008 l’ha inserito nella lista dei candidati a diventare patrimonio culturale dell’UNESCO) uno stralcio di descrizione (prenderla per intero sarebbe infierire): questo edificio colossale costituisce senza dubbio il culmine dell’architettura eclettica del XIX secolo [l’eclettismo è la tendenza a mescolare i vari stili storici in uno stesso edificio, ndr]. Lo stile è d’ispirazione classica, con prestiti dall’architettura assiro-babilonese ed egiziana. L’edificio è concepito come un insieme di forme e di masse, dove gli spazi interni ed esterni penetrano l’uno nell’altro in maniera sorprendente.
Il Palazzo di Giustizia è sicuramente un culmine dell’architettura eclettica, ma nella maniera più arida e accademica possibile e nell’illusione di compensare con la scala colossale la pochezza d’idee (un insieme di forme e di masse, dove gli spazi interni ed esterni penetrano l’uno nell’altro è aria fritta). Il tutto con l’aggravante di essere storicamente fuori tempo massimo, perché alle nuove tecniche e ai nuovi linguaggi che si erano affermati si preferirono i prestiti dall’architettura assiro-babilonese ed egiziana.
La forma segue la funzione
Il ferro e il vetro come materiali da costruzione cominciarono a essere utilizzati su larga scala tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta del XIX secolo. Le tipologie più adatte per l’impiego di questi materiali erano le stazioni ferroviarie e gli edifici per manifestazioni temporanee. L’esempio più famoso è il Crystal Palace di Joseph Paxton, costruito per la prima Esposizione Universale a Londra nel 1851, dieci anni prima che Poelart ricevesse l’incarico di progettare il Palazzo di Giustizia e ben quindici prima che venisse posata la prima pietra. Nessuno dice che Poelart avrebbe dovuto costruirlo come una serra o come una stazione ferroviaria, ma il suo progetto ignora completamente la direzione che l’architettura aveva preso, la cui vision è espressa negli Entretiens sur l’architecture di Eugène Viollet-le-Duc, pubblicati tra il 1863 e il 1872. Gli Entretiens ebbero un’influenza decisiva sugli architetti dell’epoca, gente del calibro di Horta, di Antoni Gaudí e di Hector Guimard, per dire i primi che vengono in mente, e furono fonte d’ispirazione persino oltreoceano: Luis Henry Sullivan, uno dei più importanti rappresentanti della scuola di Chicago e uno dei primi progettisti di grattacieli, ne citava spesso la frase la forma segue la funzione. Oltre all’influenza di Viollet-le-Duc, gli architetti sentivano molto anche quella dei nazionalismi che informavano la vita politica e culturale europea e si impegnarono nella creazione di uno stile nazionale.
Nel 1872, dalle pagine de L’Emulation, la rivista dell’Associazione centrale d’architettura del Belgio, Ernest Allard scriveva: noi dobbiamo cercare, innanzitutto, di creare artisti belgi, dobbiamo liberarci da influenze straniere e, in un altro intervento su L’Emulation di qualche anno dopo, affermò: nulla è bello in architettura, tranne il vero, che rimanda a un passo degli Entretiens: in architettura esistono due condizioni di verità necessarie: la verità rispetto al programma e quella rispetto ai metodi costruttivi […] i problemi puramente artistici legati alla simmetria e alla forma apparente sono solo condizioni secondarie di fronte ai nostri principi dominanti.
Si capisce il disprezzo della generazione di architetti cresciuta a pane e Viollet-le-Duc verso Poelart e l’eclettismo, si capisce quanto la forma segue la funzione guardasse dall’alto in basso i prestiti dall’architettura assiro-babilonese ed egiziana. Il nome che prese questo movimento che aveva come fine la creazione di uno stile nazionale non può che variare da Stato a Stato: nei paesi francofoni abbiamo l’art nouveau, nell’Impero austroungarico la Sezession, nella Prussia lo Jugendstil e in Italia lo stile liberty.
Massimo interprete in Belgio di questa temperie politica e culturale fu proprio Horta, che nella Maison du Peuple/Volkshuis maturò il frutto più dolce. E qui torniamo alle Marolles: perché abbiamo in poche centinaia di metri il Bausünde di costruzione (il Palazzo di Giustizia) e il Bausünde di demolizione.
Maison du peuple
Della Maison du Peuple è stato scritto tanto e in tutte le salse e ben poco potremmo aggiungere, quindi cediamo la parola a due grandi storici dell’architettura.
La Maison du Peuple, costruita per il Partito socialista belga tra il 1897 e il 1900, è l’opera più originale della carriera di Horta, e l’unica in cui egli sembra essersi sentito libero di sviluppare i principi di Viollet-le-Duc fino alla loro logica conclusione. Qui un linguaggio locale di pietra e mattoni era brillantemente sfruttato per creare un’architettura che esibiva la propria struttura, nella quale la muratura è costantemente modulata e modellata per accogliere la pietra, e la pietra è preparata per accogliere il ferro e il vetro. (Kenneth Frampton, Storia dell’Architettura moderna, Zanichelli, 1993)
Tra struttura e decorazione c’è qui una perfetta unità, così all’interno nel salone degli sportelli il disegno ornamentale del soffitto è fatto con i medesimi travi portanti, e nella sala spettacoli all’ultimo piano i telai trasversali a struttura reticolare servono anche a qualificare decorativamente il vano. (Leonardo Benevolo, Storia dell’Architettura moderna, Laterza, 1999)
A differenza del Palazzo di Giustizia, che è ancora lì (anche se non gode di buona salute, soffre di muffa e caduta di pezzi di soffitto e dal 1983 è fasciato da ponteggi di protezione contro crolli improvvisi), la Maison du Peuple è stata demolita nel 1965.
Ma se era tanto bella, perché è stata demolita?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo tirare in ballo un fumetto e tornare ancora una volta alle Marolles.
Lo Stile Spirou/Robbedoes
A due passi dal Palazzo di Giustizia, a Rue Notre Dame De Gráces/Onze-Lieve-Vrouw-van-Gratiestraat, si trova un dipinto murale del 2014 in cui si vede un ragazzo in uniforme rossa da fattorino d’albergo nel bel mezzo di un animato mercato delle pulci. Il mercato delle pulci è quello che si tiene ogni giorno sulla vicina Place du Jeu de Balle/Vossenplein (sullo sfondo del dipinto è rappresentata la chiesa di Nostra Signora Immacolata, che si affaccia proprio sulla Place du Jeu de Balle). Il ragazzo in uniforme rossa è Spirou/Robbedoes, che con il tempo da fattorino è diventato giornalista (anche se ha mantenuto l’uniforme rossa). Quello dedicato a Spirou è solo uno delle decine di altri murales sparsi per Bruxelles dedicati ai personaggi dei fumetti (solo alle Marolles se ne contano una dozzina).
Il carattere di Spirou è contraddistinto dall’ottimismo e dalla fiducia nel progresso, caratteristiche che rappresentano l’atmosfera del Belgio alla fine degli anni Cinquanta del XX secolo. Nell’architettura e nel design quest’atmosfera si manifestò in linee oblique e forme sinuose. Il boomerang divenne la figura totemica di questo periodo e il suo massimo interprete è quel Jacques Cuisinier che abbiamo incontrato poco sopra. Questo stile prese il nome di Stile Spirou o Stile 58, con riferimento all’esposizione universale di Bruxelles del 1958 e che, in una mostra del 2010 all’Atomium, fu chiamato modernismo ludico.
Fu nel pieno del modernismo ludico che la Maison du Peuple fu demolita.
Le reliquie di Horta
L’esposizione universale del 1958 era ritenuta della massima importanza e fu organizzata con molta cura. Uno degli uomini chiave fu Lucien Cooremans, sindaco della Città di Bruxelles tra il 1956 e il 1975. Fu lui che, all’inizio del 1964, condannò alla demolizione la Maison du Peuple, considerata ormai superata dalle linee oblique dalle forme sinuose del modernismo ludico (sebbene la Maison du Peuple non mancasse di linee oblique e forme sinuose), soprattutto se non fossero usciti fuori i 25 milioni di franchi belgi necessarie per ripianare i debiti.
A nulla valsero le dichiarazioni di architetti e intellettuali da tutto il mondo. L’anno successivo la Maison du Peuple fu smantellata e al suo posto fu eretta una banalissima torre per uffici di ventisei piani, la Torre Blaton. L’unica concessione ottenuta dagli appelli internazionali fu che alcune parti dell’edificio (il caffè, l’auditorium, la sala Matteotti e parti della facciata in pietra e ferro) furono smontate e conservate per essere ricostruite altrove.
Quindici anni dopo, il comune di Jette (uno dei diciannove comuni della Regione di Bruxelles Capitale) li volle per costruire un padiglione in un parco e si scoprì che alcune parti erano state conservate così male che non erano più utilizzabili, mentre altre erano state vendute sottobanco. Alla fine, le uniche vestigia rimaste della Maison du People si trovano in un caffè ad Anversa, dove è stata ricostruita una parte dell’auditorium, nella stazione della metropolitana Horta (poche centinaia di metri a sud delle Marolles), dove si trovano alcune vetrate ed elementi in ferro battuto (che provengono anche dall’Hôtel Aubecq di Horta, demolito nel 1950) e in un parco di Gent, dove sono conservati degli elementi in pietra della facciata.
L’architetto Paolo Portoghesi ricorda che la notizia della demolizione in corso, con la conseguente dispersione di molte delle parti metalliche della Maison du Peuple, scatenò in molti studenti e architetti il desiderio di procurarsi delle reliquie, corrompendo gli operai addetti allo smontaggio. A Roma circolavano allora maniglie e cerniere conquistate con spedizioni mirate a Bruxelles.
Chi di bruxellisation ferisce…
Finirono nel tritacarne della bruxellisation edifici molto meno blasonati della Maison du Peuple e per i quali nessuno si stracciò le vesti, come il Vélodrome d’hiver di Albert Herent, costruito nel 1912 e demolito nel 1966 per far spazio a uno dei progetti residenziali più ambiziosi del modernismo ludico, Bruisilia.
Lasciamo un momento le Marolles (ci torneremo alla fine) e spostiamoci a Schaerbeek/Schaarbeek, un comune nord–occidentale di Bruxelles, di fronte al Parco Josaphat, uno dei cinque grandi parchi ideati da Leopoldo II.
Se il Palazzo di Giustizia era l’ipostasi della vision di Leopoldo II, Bruisilia è quella dello Stile Spirou, con la sua forma a boomerang e i suoi 34 piani. A differenza del Palazzo di Giustizia, però, Bruisilia fu realizzato solo a metà: delle due ali previste se ne fece una sola (un accenno di seconda ala, di appena nove piani, fu tirato su nel 2012).
L’architetto di Bruisilia è Cuisinier che, con un’infarinatura dei principi del Movimento moderno e ben più cospicue conoscenze negli uffici amministrativi, macinò, uno dopo l’altro, tantissimi progetti dal dopoguerra fino alla fine degli anni Settanta. Era noto per il carattere effervescente e per la passione per le auto sportive e l’alta società, di cui facevano parte le dinastie di imprenditori edili più importanti del Belgio, come i Blaton (costruttori della maggior parte delle opere di Horta, oltre che dell’omonima Torre Blaton). Le sue fortune durarono quanto quelle dello Stile Spirou e Cuisinier sarebbe finito sul lastrico se i suoi vecchi amici non l’avessero salvato. Nel 1995, pochi anni prima della morte, firmò addirittura un’ultima opera (dopo ventisei anni di inattività), l’Hôtel Meridien (ora appartenente alla catena Hilton): di nuovo un boomerang, questa volta di soli cinque piani, in un discutibilissimo e per niente giocoso neobarocco che, per un cortocircuito della storia, si trova proprio di fronte alla stazione centrale di Bruxelles, l’ultima opera di Horta.
… di bruxellisation perisce
Forse perché si trovava più a suo agio tra i baroni palazzinari che tra quelli universitari, Cuisinier fu sempre snobbato dalla critica, ma con la Tour Martini/Martinitoren si sarebbe guadagnato almeno una citazione nei corsi di storia dell’architettura del XX secolo, se anche questa non fosse stata demolita.
Sorgeva sul lato settentrionale del Pentagono, dalla parte di Schaerbeek. Nel dopoguerra l’area era stata scelta per creare un polo direzionale e la Torre Martini gli dava forza e significato. In realtà si chiamava Centre International Rogier/Internationaal Centrum Rogier e non era solo una torre, ma comprendeva 25.000 m² di uffici, 155 appartamenti, 85 negozi, ristoranti, mille parcheggi, una stazione di autobus e una di servizio, due teatri, tre sale espositive, una banca e un ospedale.
Il volume era concepito in due parti: un parallelepipedo di base e una sovrastruttura con una torre di 117 metri e un edificio retrostante più basso e curvo (ancora un boomerang). Nella memoria storica della città è rimasta la torre, sulla cui sommità splendeva il gigantesco logo della Martini.
Il Centro Rogier fu inaugurato nel 1960, ma dopo vent’anni era già in decadenza e fu demolito nel 2001. Al suo posto fu eretta l’anonima Torre Dexia (ora Torre Rogier).
La Battaglia delle Marolles
Il 30 aprile 1945 Adolf Hitler si suicidò nel suo bunker a Berlino. Il corpo fu bruciato e i resti seppelliti senza un vero e proprio rito di sepoltura. È quindi assai probabile che l’unico funerale che Hitler abbia avuto sia stato quello celebrato il 10 maggio 1945 alle Marolles.
Ovviamente si trattò di un funerale satirico, in cui un volontario con baffetto fu portato in giro per il quartiere dentro una bara trainata da un cavallo bianco.
Quello non fu l’unico funerale satirico celebrato alle Marolles. Se ne fecero altri (per esempio uno nel 1954 in occasione della retrocessione di una squadra di calcio locale), ma a noi interessa quello che si tenne il 13 settembre 1969 per festeggiare una vittoria forse meno globale di quella sul nazismo, ma non meno importante per il quartiere e la città, quella sulla bruxellisation.
Il casus belli fu il piano di ampliamento del Palazzo di Giustizia (incredibile, ma qualcuno pensava che quel pachiderma di mattoni e stucco avesse bisogno di essere ingrandito). Il progetto interessava cinque isolati nelle immediate vicinanze del Palazzo, un ettaro e mezzo di case senza blasone architettonico dove vivevano 1.500 persone.
Nel 1967 erano cominciate le espropriazioni necessarie all’attuazione del Piano Manhattan che interessava 53 ettari e 12.000 persone nel quadrante settentrionale della città. La Bruxellisation inghiottiva la città senza incontrare ostacoli. Almeno fino a quando non si trovò davanti Jacques van der Biest (1929-2016).
Le autorità cittadine sapevano che l’arrivo di ruspe e picconi non avrebbe suscitato entusiasmi, ma finora non avevano trovato grande resistenza, a parte indignazione e appelli lanciati ai convegni d’architettura (se indignazione e appelli possono essere chiamati resistenza) e infatti la Maison du Peuple era stata abbattuta senza colpo ferire.
Di sicuro nessuno aveva pensato a van der Biest. E chi lo aveva fatto avrà immaginato che van der Biest al massimo poteva consolare gli sfrattati e rimettere ai pezzi grossi il Bausünde, il peccato edilizio commesso con la distruzione di cinque isolati della sua parrocchia. Sì, perché van der Biest era il parroco della chiesa dei SS. Giovanni e Stefano ai Minimi, che si trova a due passi dal Palazzo di Giustizia.
Le Marolles era un quartiere tutto sommato eterogeneo e lo è in una certa misura anche oggi, pur se minacciato dalla gentrificazione. Allora non era né un quartiere povero, né ricco, ci abitava gente comune, operai, artigiani. Prima di essere sloggiato per far posto al Palazzo di Giustizia ci aveva abitato anche Horta (che era figlio di un calzolaio e ricevette il titolo nobiliare come riconoscimento per suoi meriti architettonici da Alberto I, figlio di Leopoldo II). La chiesa dei Minimi aveva costruito con il quartiere un legame molto forte e autentico, ma c’era spazio anche per altre voci: fino al 1965 c’era stata la Maison du Peuple del Partito socialista e c’era e c’è ancora una comunità ebraica (vittima di rastrellamenti e deportazioni durante l’occupazione nazista).
Van der Biest non era né il tipico prete di sinistra impegnato nel sociale, né un don Camillo, come fu definito dal quotidiano belga Le Soir in un’intervista del 1997, cioè un uomo d’azione senza statura intellettuale. Vogliamo credere che fosse semplicemente l’uomo giusto al momento giusto. Quello che è certo è che, rispetto alla Chiesa del suo tempo, aveva una comprensione molto più profonda del tessuto dinamico di relazioni che costituisce la città moderna, a differenza della visione statica tradizionale come mero luogo di svolgimento di attività (lavoro, studio, ecc.). Van der Biest non puntava solo il dito contro l’urbanistica burocratica e la diluizione delle responsabilità nella catena decisionale, ma soprattutto denunciava l’ingannevole integrazione delle classi meno abbienti, ammesse a partecipare alla società dei consumi, ma non alla città. Per il parroco dei Minimi i poveri non sono urbani nel senso pieno del termine e la loro integrazione nel territorio è la vera posta in gioco. Difficile dargli torto.
Dall’esperienza vittoriosa della Battaglia delle Marolles nacque l’Atelier de recherche et d’action urbaine (ARAU), che proponeva e propone ancora oggi l’idea di una città democratica e partecipativa. Da allora l’ARAU assiste i comitati di cittadini nei negoziati con le autorità arrivando fino a fornire piani urbanistici alternativi a quelli contestati.
Si parla di Battaglia delle Marolles, ma in realtà non ci fu nessuno scontro sul campo, non ci fu un singolo atto di violenza. Il Comitato d’azione guidato da van der Biest operò sia attraverso forme di protesta classiche, come l’invio a valanga di telegrammi alle autorità e l’utilizzo di semplici slogan scritti sull’asfalto o su teli appesi alle finestre, sia attraverso forme di protesta più creative come l’Operazione Vacanze, che consisteva nell’abbandono temporaneo e collettivo delle case il giorno in cui sarebbe stata consegnata la notifica di sfratto. Le autorità si trovarono in grande imbarazzo e non sapevano come reagire alle proteste.
Importante fu anche il sostegno che il Comitato ricevette dai media belgi.
Van der Biest organizzò fiaccolate notturne per il quartiere, la più clamorosa delle quali fu quella del 13 settembre 1969 in cui fu celebrato il funerale del Promotore del progetto, della moglie Burocrazia e del figlio Esproprio, portati in giro in tre bare trainate da cavalli. Le bare furono bruciate da uomini incappucciati, poi la folla intonò la Marsigliese e si scatenò in balli accompagnata dalle fisarmoniche.
Le autorità gettarono la spugna.
Non pretendiamo di aver detto tutto di Bruxelles. Abbiamo scelto alcune storie meno note nella speranza che interessino al lettore italiano. Queste note sarebbero state ancora più modeste senza i preziosi consigli dell’arch. Bob De Wispelaere, che ringraziamo di cuore.
REDAZIONE
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