Il Bristol Hotel si trova nel quartiere Novo Sarajevo, tra due viali. Da una parte Vilsonovo Setaliste il passeggio costeggiato da quattrocentottanta tigli e noci che fiancheggia la Miljacka, il fiume marrone con poca acqua che taglia in due Sarajevo e nelle cui frequenti rapide si incastrano rifiuti di plastica. Dall’altra Zmaja od Bosne, la strada che porta dal centro all’aeroporto, anch’essa parallela al fiume: durante la guerra la chiamavano “la via dei cecchini”. Nella hall un bambino mi gira intorno, accanto a lui un uomo, una donna e un altro bambino. Tutti insieme, pur non essendo particolarmente alti o ingombranti, occupano tutto lo spazio. Da almeno trent’anni sono italiani anche loro, italiani zingari; prima erano rom di Sarajevo e prima ancora jugoslavi della Repubblica Socialista di Bosnia ed Erzegovina.
L’uomo ha trentott’anni, si chiama Senan, vende auto in una concessionaria di Genova. Ha un sorriso aperto e sette figli, tra cui le tre persone che sono con lui: due bambini e una giovane donna, che inizialmente avevo scambiato per la moglie. “Sono qui per far visita ai miei genitori, sono morti entrambi in Italia, ma poi li ho portati qui. I nostri morti sono tutti in Bosnia: noi abbiamo cura delle nostre tombe; torniamo qui soprattutto per tenerle pulite. Io ho una casa a Sarajevo, ma è in affitto, quindi dormiamo in albergo. Stasera andiamo a mangiare alla Brajlovic steakhouse ad Ilidža, alle porte del parco naturale. Forse questo ristorante lo hai visto su TikTok, preparano e condiscono la carne come fa Salt Bae, il ristoratore che fa nevicare il sale sulla carne! Sarajevo è bellissima, peccato per tutte queste costruzioni con i segni dei mortai e della guerra. Qualcuno ha proposto di eliminarli, ma la gente non vuole. Hanno fatto anche una manifestazione per questo. I cittadini non vogliono che sia dimenticato quello che è successo, pensano sia giusto lasciare i segni come monito per l’avvenire”.
La Bosnia porta ancora, dopo trent’anni, i segni della guerra sul suo corpo. Non sono solo le famose rose di Sarajevo, ossia la resina rossa con cui sono stati ricoperti i fori creati dalle granate sul pavimento e i segni dei colpi di mortaio sulle facciate dei palazzi. La guerra entra di continuo in tutti i discorsi, in ogni ragionamento, e influenza ancora oggi la vita politica e amministrativa della Bosnia, così come la routine quotidiana dei suoi abitanti.
“La guerra è durata ufficialmente quattro anni (1991-1995), ma la pace che ne è seguita è fredda” mi ha detto Tamara Cvetkovic, una cittadina bosniaca che lavora come peacebuilder per la ONG Iscos. La sono andata a trovare nel suo ufficio a Bologna pochi giorni prima di partire per Sarajevo e mi ha accolto con un abbraccio e nessuna diffidenza. Tamara, dal viso giovane e i capelli molto corti, con la stessa naturalezza mi racconta la sua storia personale e analizza gli accordi che hanno portato alla fine dell’aggressione serba nel 1995. “Gli accordi di Dayton hanno dilaniato il tessuto sociale, la guerra non è mai finita davvero. Gli accordi hanno sancito una divisione politica della Bosnia in tre entità: la Federazione (musulmana), la Republika Srepska (serba) e il distretto di Brčko; favorendo una separazione etnica della nostra popolazione, che noi bosniaci sentiamo completamente falsa. Se non ti iscrivi a un partito, legandoti quindi a un’etnia, dato che i partiti in Bosnia ormai sono su base etnica, non hai gli stessi diritti degli altri, ed è difficile anche lavorare. Io ho un padre serbo e una madre bosgnacca (bosniaca musulmana), non mi identifico in una etnia e questo è diventato problematico dopo la guerra. Ho studiato in Bosnia, nella Republika Srepska, per diventare insegnante di scuola materna. Ho lavorato solo pochi mesi, dopodiché mi hanno chiesto di iscrivermi a un partito, ossia di dichiarare la mia appartenenza etnica: non l’ho fatto e mi è stato tolto il lavoro. Quella cattedra adesso è vuota. Avevo avviato corsi di danza che erano seguiti da più di ottanta bambine, ma hanno preferito mandare all’aria tutto, pur di non far insegnare me. In Bosnia manca una memoria condivisa in questo momento. Prima della guerra le scuole erano frequentate da tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro appartenenza; dopo la guerra abbiamo classi divise e ogni gruppo studia sui propri libri di testo, che raccontano storie diverse. Del genocidio dei bosniaci i libri serbi non ne parlano. I gruppi serbi hanno un rapporto strano con la storia in questo momento: alcuni negano le aggressioni, gli stupri etnici, le fosse comuni, altri se ne vantano e ne fanno motivo di orgoglio. Un atteggiamento schizofrenico, che mi intristisce. Senza una lettura comune della storia passata non possiamo sperare di costruire la pace. Dovremmo essere già nel momento dell’elaborazione e invece, a distanza di trent’anni, è un problema per chi come me si rifiuta di identificarsi etnicamente. È un problema per me e per tutte le minoranze.”
Memore delle parole di Tamara, in piedi nella hall del Bristol Hotel, chiedo a Senan se è vero che i suoi diritti in Bosnia dopo la guerra sono limitati, se non può per esempio candidarsi alle elezioni politiche, non essendo né croato, né bosgnacco, né serbo. Mi dice che non è vero, mi mostra il suo documento bosniaco e mi dice con orgoglio che con quello lui può fare tutto. La Bosnia non lo ha mai discriminato. Senan, però, si sbaglia. Non sa che il leader della comunità rom e quello della comunità ebraica hanno presentato nel 2009 un’istanza davanti alla corte europea dei diritti dell’uomo contro la costituzione bosniaca. La costituzione nazionale, infatti, nata dagli accordi di Dayton nel 1995, ha decretato che i popoli costitutivi della Bosnia sono i serbi ortodossi, i bosgnacchi musulmani e i croati cattolici e che coloro che non appartengono a nessuno di questi tre gruppi non possono candidarsi né alla Presidenza, né alla Camera dei popoli.
“Gli accordi di Dayton ci hanno sfavorito. Siamo un’altra volta sull’orlo della guerra perché quegli accordi non hanno mai permesso alla guerra di finire davvero, ci hanno diviso in etnie e ora anche i gruppi etnici che sono rappresentati pochissimo, come i croati, la cui popolazione è meno del quindici per cento, hanno moltissimo potere. A chi serve tutto questo? Abbiamo tre presidenti, tre parlamenti, sai quanta gente spesata e pagata profumatamente? A chi serve continuare dividerci in etnie? A chi prende uno stipendio grazie a questo. Sono sempre le solite famiglie che governano da anni, e per continuare ad avere il consenso, ci dividono ”, mi dice Mirsad, un poliziotto in pensione di cinquantotto anni, che ora lavora nella guest house di proprietà della famiglia della moglie a Lukomir.
Lukomir è un villaggio a una cinquantina di chilometri al sud di Sarajevo. Per arrivarci si attraversa prima un paesaggio montuoso dove si trovano località sciistiche rinomate, come Igman e Bjelasnica, caratterizzate da chalet in stile minimalista contemporaneo; dopo una strada sterrata, deserta, lunare, talmente impervia che per poco non salta il cerchione della ruota anteriore dell’auto che ho noleggiato. Il villaggio è composto da un pugno di case di campagna lasciate, per memoria collettiva, con l’aspetto che avevano uno, due secoli fa. Hanno la forma tipica delle abitazioni rurali balcaniche, una sorta di cono rovesciato con il tetto spiovente. In paese vivono stabilmente pochissime persone, qualcuno mi dice tredici, qualcun altro trenta. Ci sono quattromila pecore, una moschea e un cimitero islamico, con le tipiche steli candide su cui ricorrono solo due cognomi: le lapidi più antiche risalgono al quattordicesimo secolo, la più nuova al 2021 ed è ancora in legno.
Mirsad è vestito in abiti sportivi che mettono in evidenza la sua muscolatura. La guerra entra nei nostri discorsi senza che io l’abbia evocata; non sono lì per intervistarlo, mi sono seduto solo per caso al tavolo di legno della sua osteria, sotto un ombrellone verde della Carlsberg. Mi serve un burek di patate con la sfoglia fatta in casa e tanto pepe, il burek più buono che io abbia mai assaggiato. Si siede poi di fronte a me e inizia a chiacchierare. Il discorso di Mirsad tocca punti ricorrenti tra i cittadini bosniaci: la corruzione, la povertà, il potere diviso tra poche famiglie e i rapporti fra politica e sentimento etnico. “È la politica che ha fomentato e fomenta la divisione etnica. La divisione dei bosniaci in gruppi etnici è stata più la conseguenza della guerra e non la causa. I nostri vicini volevano spartirsi e annettersi il nostro territorio. Non è stata né una guerra etnica, né civile. Jovan Divjak era un generale dell’esercito bosniaco, in Europa lo conoscete tutti. Era nato serbo, ma combatteva contro Milosevic. L’esercito bosniaco era multietnico, perché la Bosnia era e dovrebbe essere multietnica. Gli altri eserciti erano “puliti” etnicamente, non il nostro”. Mirsad, mentre parla con me, si interrompe spesso e si alza per far accomodare nuove avventrici e avventori che raggiungono il villaggio in moto o a bordo di suv. Sono bosniaci, polacchi, cechi, sloveni; turchi; qatarioti.
I gruppi di giovanissimi sfrecciano a bordo di rumorosissimi quad blu, ma non si fermano, fanno solo l’inversione davanti al locale. Dopo aver fatto il conto a una donna straniera che sedeva a pochi tavoli di distanza intenta a lavorare al suo portatile, Mirsad riprende posto di fronte a me “La guerra sta per tornare. La Republika Srepska vuole annettersi alla Serbia, questo porterà a un nuovo disastro, ma noi non abbiamo paura”. Il giorno dopo mi sveglio un’ora prima dell’alba, vorrei raggiungere la collina per osservare il cielo che si schiarisce, ma intorno a me c’è solo un mare di pecore bianche e ringhiosi cani da guardia a custodia delle pecore.
“I figli dei politici studiano all’estero, fanno l’università e i master negli Stati Uniti. Noi guadagniamo tra i trecento e i cinquecento euro al mese. Hai visto però quanto costa la vita? Le persone non ce la fanno. Sempre le solite famiglie che detengono il potere. Bisogna solo andarsene. Lavoro per un privato che noleggia auto, d’estate sono felice, si lavora bene e Sarajevo è una città vivace e piena di gente, tornano anche amici che sono partiti. Quando finisce agosto mi assale la tristezza, la stessa tristezza che provo quando scrollo Facebook e vedo che l’ennesimo amico si è trasferito e vive in Europa. Prima o poi andrò via anche io”, mi dice Edin, un ragazzo biondo mentre gli restituisco l’auto che ho affittato per andare a Lukomir. È talmente infervorato dal suo discorso, che decide anche di non farmi pagare per il cerchione che ho danneggiato.
Le parole di Tamara sono una sorta di stella polare durante tutto il mio viaggio e mi tornano in mente a ogni nuovo incontro, giorno dopo giorno le digerisco e le capisco, ritrovandole nei discorsi di chi vive la Bosnia quotidianamente.
“Per molti è impossibile vivere in Bosnia per diversi motivi”, mi aveva detto Tamara nel suo ufficio ”è un paese dove dilaga la corruzione e non è facile trovare lavoro; per questo molti tutt’oggi vanno via: hanno l’impressione che mai nulla cambierà. Per altri ci sono troppi brutti ricordi, molti criminali non sono stati processati, per cui molte persone che hanno subito ingiustizie insopportabili, se tornassero in Bosnia, si troverebbero a vivere accanto ai loro carnefici. È come se avessero messo i confini all’interno dei nostri corpi. Penso alla mia famiglia. Durante la guerra mio padre combatteva nell’esercito serbo, tornava a casa e trovava mia madre musulmana”. Così la guerra scivolava negli affetti e scorticava le famiglie, dilaniandole, e gli effetti di quella frattura sono presenti ora più che mai.
“Dopo la guerra mio padre è rimasto in Bosnia, mia madre è andata via in Austria a lavorare, eravamo diventati poverissimi. La maggior parte dei bosniaci si era indebitata con lo Stato e noi non eravamo diversi dagli altri; essere poveri in un paese insicuro è pericolosissimo. Mia madre vive in Austria tuttora e mio padre in Bosnia; stanno ancora insieme, ma in questo modo strano”.
La sua famiglia in diaspora e disgregata è il simbolo di quello che resta della guerra. La Bosnia è un paese dove nel 1991 vivevano oltre quattro milioni e mezzo di persone e a trent’anni dalla fine scarse tre milioni e trecento.
Sarajevo è il suo fiume e tutte le montagne intorno dove si arrampicano case basse da cui sbuffa fumo anche in estate e tanti palazzoni grigi brutalisti appena fuori dal centro storico.
“Se guardi bene però attorno a ogni palazzo non sono state edificate altre abitazioni. Quelle case hanno tutte molta luce, non come i grattacieli che costruiscono ora”, mi dice Evelyn, la mia interprete mentre andiamo insieme a Zenica a incontrare un gruppo di veterani. A Sarajevo capisco in fretta che molte persone non amano le critiche alla ex Jugoslavia, per molti ricordo di un lungo momento di benessere e pace.
Evelyn, durante il viaggio, mi parla del suo ex fidanzato serbo, lei è una kossovara albanese e a suo avviso nella Sarajevo contemporanea, per lo più musulmana, è normale non farsi domande sull’appartenenza etnica della persona di cui ci si innamora, tranne per famiglie appartenenti a gruppi ultra religiosi. “Sarajevo è cambiata molto, mi racconta mia madre. Ora in città ci sono tante persone che si sono trasferite dalla Turchia, dal Qatar. Abbiamo parecchio turismo dai paesi arabi e i turchi stanno costruendo infrastrutture e università. Io sono musulmana, mi sento libera però di innamorami di chi voglio”.
Il lavoro di Evelyn consiste soprattutto nel vendere giri turistici agli stranieri e la guerra è entrata a pieno titolo nelle attrazioni del posto. La guerra ha colonizzato la mente di chi l’ha subita, ha cambiato gli spazi e l’urbanistica. Partono tour per Srebrenica e Tuzla, le località dove sono stati compiuti due dei massacri più efferati della popolazione maschile bosgnacca; tour per il tunnel di Sarajevo e visite guidate ai musei di guerra.
Il viaggio verso Zenica sono alberi, paesaggi verdeggianti e fabbriche imponenti rossastre; sono solo sessantanove chilometri che richiedono, però, quasi un paio d’ore. Attraversiamo Visoko, una località a trentotto chilometri da Sarajevo, diventata famosa per la forma di una sua montagna che ha suggerito la presenza di una piramide. Evelyn non ha una certezza, ma non ne esclude l’idea; le piramidi a suo avviso non erano luoghi di sepoltura, ma centri energetici. Sostiene che alcuni luoghi del mondo abbiano un’energia molto forte: così come il corpo umano ha i suoi chakra, così li possiede anche il pianeta terra e Visoko probabilmente è uno di questi. “Come esci da Sarajevo c’è tutta questa povertà” mi dice Evelyn guardandosi intorno, una volta arrivate a Zenica. Accanto alla stazione scorre il fiume Bosna, dal letto largo e dall’acqua blu, sull’altra sponda si erge una costruzione brutalista che ricorda le vele di Scampia: attorno alberi e colline. Viene a prenderci Sinan, un uomo con un taglio moderno, sui cinquant’anni, dai modi gentili. É un giornalista della televisione locale nonché il vice presidente dell’ associazione di veterani Bosanska čast. A bordo della sua utilitaria grigia raggiungiamo l’associazione, un piccolo appartamento in un palazzo in periferia, dietro lo stadio. Ad attenderci è Airis, il presidente, che ci accoglie con un sorriso e una stretta di mano decisa dall’alto del suo metro e novanta. Ci portano in una stanza occupata quasi per tutta la sua lunghezza da un tavolo di legno lungo quasi due metri; mi ricorda la sezione del partito comunista della mia città negli anni ’80. Dietro il tavolo, dove prendono posto Sinan e Airis, troneggia il ritratto di Alia Izetbegović, che occupa quasi mezza parete. Nell’angolo di fronte la bandiera attuale della Bosnia e quella con i gigli utilizzata durante la guerra, sul muro alla mia sinistra una scritta “Non uccidete i vostri leoni così i cani dei nemici non vi mangeranno”.
I miei ospiti sono le persone che facevano parte di quella squadra militare della Bosnia che veniva chiamata “La meraviglia bosniaca” per la forza strenua con cui opponeva resistenza all’esercito serbo che si era impossessato di tutte le armi della ex Jugoslavia. “A noi gli europei non hanno inviato armi. Ci siamo difesi in jeans e maglietta”, mi dice un uomo di circa quarant’anni e grandi occhi blu tristissimi mentre entra nella stanza e siede dietro il tavolo, per poi guardarmi fisso, con aria di sfida: la stessa frase l’avevo già sentita da Mirsad. Mi offrono del caffè, e per le prima due ore riescono a non rispondere a nessuna delle mie domande. Vorrei sapere quanti sono i gruppi di veterani, se ci sono donne che ne fanno parte, quali sono stati i benefit di cui hanno usufruito, quali sono ora i rapporti tra lo Stato e i veterani e tra i cittadini e i veterani. Ma la storia che loro vogliono raccontare è tutta un’altra; vogliono parlarmi della storia antica della Bosnia, delle sue origini antichissime, di come i bosniaci si siano opposti alle angherie dell’impero ottomano. Superato lo spaesamento iniziale, capisco cosa vogliono comunicarmi. Per loro è importante che io sappia che la volontà della Bosnia di mantenere i confini attuali non è un capriccio, ma ha radici storiche profonde e soprattutto che la Bosnia non è sottomessa alla Turchia. Sinan ci parla della sua idea di patria, completamente svincolata dal concetto di nazione; uno spazio organizzato politicamente, dove non per forza devono abitare persone che condividono la stessa religione, la stessa lingua, la stessa cultura. A suo avviso, per esempio, sarebbe importante andare oltre le divisione facendo fronte comune con i veterani bosniaci croati e serbi.
La guerra di dissoluzione della Yugoslavia in Bosnia, in effetti, è stata anche questo; non una guerra etnica, ma una guerra contro uno stato che auspicava a non essere nazionale, che difendeva la sua intrinseca multiculturalità, impedendo i disegni nazionali degli stati confinanti che avrebbero voluto spartirsela. Il grande paradosso è, però, che in Bosnia, dopo la guerra, a lungo hanno governato i partiti nazionalisti. Paradosso e contraddizione che ha caratterizzato anche gli anni del conflitto: l’esercito bosniaco era misto e difendeva con i confini della repubblica il diritto dei bosniaci musulmani, croati e serbi a vivere assieme in uno stato non nazionale, ma nello stesso tempo quell’esercito era legato a un governo diretto da un musulmano nazionalista. Parliamo a lungo, più passano le ore, più i racconti lasciano indietro la retorica e si fanno personali e carichi di amarezza.
“Vogliamo rispetto” incalza Sinan, che fra tutti è quello che prende più spesso la parola.“La nostra associazione nasce dopo le proteste del 2017, alle quali abbiamo aderito tutti. Fra le altre cose chiedevamo allo Stato di ridurre i fondi destinati alle associazioni dei veterani; sembra un contro senso. Alla fine del conflitto il numero dei combattenti ammontava a duecentosessantamila, ora i veterani risultano essere circa seicentomila. Chi spiega questo numero e questa discrepanza? Non c’è mai stato un registro dei veterani, né un’organizzazione univoca. Esistono mille e seicento associazioni e attraverso queste i politici controllano i voti. Vengono regalati i soldi ad associazioni che non fanno nulla e a persone che non hanno fatto nulla.”
In effetti il CIN, centro per il giornalismo investigativo con sede a Sarajevo, nel 2018 ha messo a disposizione di tutti i cittadini una banca dati sui finanziamenti accordati alle associazioni e alle cooperative dei veterani (queste ultime si dovrebbero occupare di creare posti di lavoro e di incoraggiare l’assunzione degli ex veterani). Mettendo sotto gli occhi di tutti l’inspiegabile frammentazione (più di mille e cinquecento), il numero crescente di veterani registrati e l’ingente quantitativo di fondi stanziati ad associazioni spesso composte da un numero esiguo di persone. Dalle inchieste condotte dal CIN sono scaturite denunce penali per illegittimità nell’operato di alcune di queste realtà. La discrepanza fra i fondi messi a disposizione dallo stato per i veterani e la situazione economica reale degli ex combattenti ha portato a continue proteste sfociate nelle mobilitazioni massive del 2017 e del 2018. I veterani di Zenica mi raccontano anche le loro difficoltà a mettere insieme uno stipendio dignitoso a fine mese. “Hanno chiuso la fabbrica dopo la guerra, Zenica era una città industriale. Siamo rimasti in molti senza occupazione e ora molti veterani fanno attività illegali” “Guarda come sono ridotti gli eroi”, mi dice Airis mostrandomi foto di uomini curvi in una miniera illegale di carbone. La fabbrica di cui parla Sinan è l’ArcelororMittal Zenica, una fabbrica che produce acciaio legata intimamente alla storia della città. Prima della guerra era di proprietà dello stato e dava lavoro a ventiduemila persone. Chiusa durante la guerra, fu riaperta solo nel 2004 quando Lakshmi Mittal, il miliardario indiano proprietario anche dell’ILVA, acquistò lo stabilimento, dando però lavoro a poco più di duemila persone e senza ottemperare a tutti gli investimenti promessi per la tutela dell’ambiente. Prima di salutarmi i veterani ci tengono a lasciarmi con un messaggio positivo: “Noi siamo ottimisti, andiamo avanti e miglioreremo il nostro paese, portiamo i nostri figli in montagna, organizziamo i tornei di calcetto: non pensiamo solo a cose tristi. Vogliamo dare ai nostri figli uno stato come quello della Svizzera!”
Quando risaliamo sull’autobus per tornare a Sarajevo io ed Evelyn siamo silenziosi. Durante la lunghissima chiacchierata con i veterani spesso gli occhi di tutte le persone sedute al tavolo si sono riempiti di lacrime e hanno cercato rifugio in qualche punto del muro. “Anche mio padre si era arruolato” mi dice Evelyn rompendo il silenzio durante il viaggio di ritorno “Arruolato come volontario. In quel momento, mi diceva, ognuno voleva aiutare il suo stato. Quando ha visto tutta la corruzione e tutta la ruberia che c’è stata in Bosnia durante e dopo la guerra si è pentito. La guerra e tutta quella delusione gli hanno tolto molti anni di vita. Qualche anno fa si è ammalato ed è morto. Io non pago le tasse, non ho un medico di famiglia, non so nemmeno come funziona la sanità in questo stato, non pago il biglietto dell’autobus, mi rifiuto di conoscere e di far parte di questo sistema”.
Di questo sentimento di profonda delusione e amarezza me ne parla Gianluca Candiani, un italiano che ha lavorato per due anni nelle miniere illegali di Zenica per scrivere la sua tesi di dottorato (conseguita presso l’ Università degli Studi di Milano-Bicocca). “Durante la guerra arruolarsi volontario nell’esercito bosniaco significava essere ritenuto dalla collettività un cittadino che difendeva la propria patria. I mezzi di comunicazione invitavano i cittadini a difendere il proprio Stato, ma gli arruolati volontari, i cosiddetti smobilitati, sono quelli che hanno perso tutto. Si sono trovati a fine conflitto senza lavoro, senza affetti, senza fiducia nello Stato. Durante la guerra avevano dato tutto e alla fine della guerra dovevano fare i conti con uno Stato che non si occupava di loro e con una guerra che a loro aveva tolto pezzi di corpo, affetti, solidità economica e durante la quale altri si erano arricchiti. Alcuni politici per esempio, o coloro che erano riusciti a fare affari con il contrabbando, le attività illegali, il mercato nero. La classe sociale dei veterani è molto fragile e la Bosnia nata dagli accordi di Dayton, non è stata in grado di dare delle risposte adeguate. La federazione è tripartitica, un tripartitismo che ha sempre premiato i vertici e mai i combattenti. Pensa che solo dopo le proteste del 2017 e del 2018 è stata fatta una legge per riconoscere una pensione ai veterani: 5 marchi per ogni mese in cui hanno combattuto.
E così che si spiega come quelle stesse persone che si sono date anima e corpo per difendere il proprio Stato ora sono le stesse che sono diventate anti sistema. Parlo soprattutto per Zenica, dove la maggior parte dei veterani oggi lavora nelle miniere di carbone illegali. Ci lavorano anche molti invalidi per cui essere riassorbiti nel mercato formale era ed è impossibile”.
Il problema della corruzione in Bosnia-Erzegovina è tuttora molto sentito. Nel 2022 l’organizzazione non governativa Transparency International ha evidenziato come la Bosnia sia il terzo peggior paese in Europa nell’indice di percezione della corruzione e come questa percezione negli ultimi anni sia peggiorata. Il primo dicembre del 2022, in occasione della giornata internazionale contro la corruzione, Michael Murphy, ambasciatore degli Stati Uniti a Sarajevo, ha pronunciato un discorso chiaro e accorato ”La corruzione ha un impatto sulla vita quotidiana della popolazione della Bosnia-Erzegovina in innumerevoli modi. Sta peggiorando, anche perché molte delle persone incaricate a combatterla, dai leader politici alle forze dell’ordine, ai pubblici ministeri e ai funzionari giudiziari, non solo non riescono ad affrontarla, ma ne traggono beneficio o ne hanno parte attivamente. Le ultime elezioni forniscono un esempio. Rinomate organizzazioni della società civile, tra cui Transparency International, hanno identificato irregolarità, discrepanze e frodi nelle competizioni elettorali in Bosnia-Erzegovina”. Secondo l’istituto bosniaco per lo sviluppo giovanile Kult, la corruzione è una delle prime cause della fuga dei giovani dal paese. Un rapporto UNFPA (fondo delle nazioni unite per la popolazione) del 2021, ha rilevato che una media di 50.000-55.000 persone, per lo più lavoratori qualificati e professionisti, lasciano la Bosnia ogni anno e che 23.000 di questi 50.000 sono giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni.
“La Bosnia è uno dei paesi più corrotti del mondo” mi aveva detto Tamara “il nazionalismo non è altro che un modo scaltro utilizzato dalla classe politica per gestire le clientele e conservare il proprio potere. In questo modo, però, stanno ostacolando una corretta rielaborazione del trauma, che deve partire anche dalla consapevolezza della storia”. “Non fare cose brutte Goran, che poi ci dobbiamo vergognare”, diceva il nonno serbo di Tamara al padre arruolato nell’esercito. Era stato prigioniero di guerra nei campi di prigionia nazisti e sapeva che le brutture prima o poi hanno fine e che gli esseri umani, indipendentemente dalla loro etnia, le sanno riconoscere.
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin