Arrivi al cinema di corsa per la prima proiezione stampa del giorno: sono le 9 di mattina e stai entrando dentro il gigantesco Berlinale Palast, a pochi passi da Potsdamer Platz.
Leghi la bicicletta all’unico palo che hai trovato libero, vale a dire quello da cui pende il cestino arancione per l’immondizia con la scritta in bianco “Gib’s mir“: dallo a me, il tuo rifiuto.
Percorri a grandi falcate lo stuolo di tappeti rossi che sinuosamente ti attirano dentro la sala e quando infine, dopo una lunga serie di scale (perché ai primi due piani era ormai tutto pieno) trovi un posto a sedere lontano, ameno, remoto, puoi cominciare a respirare.
È in quel momento che ti rendi conto, definitivamente, di una verità solare: intorno a te ci sono praticamente solo italiani.
Se non fossimo a Berlino, si potrebbe pensare di essere al festival del cinema di Roma.
E invece no, questa è la Berlinale, eppure la lingua più parlata della rassegna è quella italica. No, non è una sensazione: ovunque ci si giri, c’è un individuo in arrivo dall’Italia. Sento che ne parlano anche due giornalisti poco più avanti di me, in inglese; uno dei due dice all’altro: “certo devono proprio leggere molto, di cinema, gli italiani”.
Glielo vorrei spiegare, che non è come pensano loro, che purtroppo gli italiani non leggono molto di cinema, ma che abbiamo uno stuolo di giornalisti a contratto impossibile da licenziare, gente blindata, con stipendi da 3.500 euro al mese (almeno, e con le grasse spese di trasferta a rimborso) che ha una sorta di diritto arcaico ad essere qui.
Si danno di gomito, i giornalisti italiani alla Berlinale, vengono al festival da anni e si raccontano, nella maniera altamente volgare che solo i giornalisti di mestiere sanno usare, dove hanno mangiato la sera precedente, com’era la colazione, quanto è difficile trovare un buon caffè.
La rivelazione arriva naturale, acre e riboccante.
I reporter italiani al festival del cinema di Berlino sono la rappresentazione perfetta delle condizioni del giornalismo italiano oggi, un settore vampirizzato, cancerizzato, da cinquantenni e sessantenni con stipendi fuori mercato, i capelli lunghi e brizzolati, gli impermeabili da 1000 euro e nessuna idea di come sia cambiato questo lavoro nel tempo, nessun rispetto, nessuna umiltà, nessuna “passione di terra”, per una professione essenziale e difficile, che hanno contribuito, ponderosamente, a smantellare nella sua essenza più profonda.
Almeno resta il cinema, a farci un po’ distrarre.
Isle of Dogs – di Wes Anderson – Competizione
Quando, a causa di un decreto esecutivo emesso dal temibile sindaco Kobayashi, tutti i cani domestici di Megasaki City vengono esiliati in una vasta discarica chiamata Trash Island, il giovane Atari, 12 anni, si invola, attraversando il fiume, alla ricerca del suo Spots, anch’esso espulso e abbandonato. Inizia così un viaggio epico, fatto di mirabolanti avventure, ma soprattutto di onore e di riconoscenza, di codici e comportamenti, di morale e sentimento. Nel mondo di Wes Anderson siamo in grado di comprendere tutto quello che dicono i cani, mentre per gli esseri umani abbiamo quasi sempre bisogno di una traduzione, dal giapponese, in tempo reale. Forse è un film che in parte pecca di autocompiacimento, che si ammira tanto e ha un sottinteso autoreferenziale, per quel che riguarda lo stile, molto netto. Ma è pur sempre Wes Anderson puro e forte, all’ennesima potenza, con le sue strampalatezze, la malinconia distratta, la sensazione che comunque tutto, alla fine, seppur difficile e un po’ ingiusto, andrà bene.
Mauro Mondello
Viaje a los pueblos fumigados – di Fernando E. Solanas – Berlinale Special
Lo spettatore, ignaro, parte per un viaggio a tappe durante il quale vengono messe a fuoco le conseguenze dell’utilizzo del modello agricolo transgenico, con massivo uso di pesticidi, sulla sua meravigliosa terra, l’Argentina.
Ogni capitolo racconta una sfaccettatura della stessa storia: le popolazioni indigene scacciate dalla deforestazione per far posto alle immense piantagioni di soia transgenica; interi villaggi sottoposti a ricorrenti piogge di pesticidi da parte di gente senza scrupoli, che spruzza sostanze chimiche anche sulle scuole, in pieno orario di insegnamento; l’alta percentuale di malattie mortali, in determinate zone rurali; le malformazioni genetiche nei nati dell’ultimo decennio.
C’è anche un po’ di speranza, con il ritratto delle comunità che sono riuscite ad opporsi alle multinazionali, riconquistando il loro territorio, e poi le storie virtuose di fattorie e piantagioni biologiche.
Certo, nel racconto manca completamente la voce delle aziende che utilizzano i pesticidi, ma Solanas ha deciso di concentrarsi su qualcos’altro: sulla solitudine, sulla tristezza, di un popolo agricolo abbandonato al suo destino.
Elisa Barrotta
Eva – di Benoit Jacquot – Competizione
Che dispiacere grande vedere un’attrice così carismatica, dalla personalità tanto imponente, essersi lasciata coinvolgere in una porcheria di tali dimensioni: no Isabelle Huppert, no, non te lo meritavi e da te non ce lo si aspettava.
Eva è un film talmente brutto, talmente inutile, talmente mal recitato, mal scritto, mal diretto, che si capisce subito come dalla Berlinale l’abbiano preso in lista solo per il piacere di avere la Huppert a camminare un po’ svagata sul tappeto rosso durante la serata di gala.
Si racconta qui la storia di Bertrand, un giovane che ruba una sceneggiatura teatrale, diventa famoso, ma poi non sa come scrivere qualcosa di nuovo, e prova allora a costruirsi un’avventura dal vero, per trasformarla in testo.
Non c’è qualcosa che faccia pensare all’arte qui, ma nemmeno al semplice mestiere. Tutto è piatto, mediocre, ingiustificato, in Eva. Persino la Huppert viene trasformata in una caricatura di se stessa, investita di un ruolo in cui il suo ascendente magnetico viene via via annullato, mortificato.
Disastro. Vorrei conoscere qualcuno a cui è piaciuto, e parlarci per ore.
M.M.
Figlia mia – di Laura Bispuri – Competizione
In una Sardegna rurale, lontana dalle grandi spiagge e dal turismo, vive una ragazzina dai capelli rossi: si chiama Vittoria e ha dieci anni. La madre, Tina, fa l’operaia in una fabbrica di confezionamento di pesce ed ogni giorno, dopo il lavoro, attraversa una collina di sabbia per andare da Angelica, una giovane donna un po’ pazzoide che spende le sue giornate in attesa della sera, quando si prostituisce nel bar del paese in cambio di un bicchiere. Quando Angelica riceve un avviso di sfratto e decide di lasciare il villaggio, qualcosa si rompe nell’equilibrio che lega le tre protagoniste.
In Figlia Mia le figure femminili (Valeria Golino, Alba Rohrwacher e la piccola Sara Casu) vivono in una proporzione di fragilità estrema, ognuna agli antipodi dell’altra. Ben recitato, anche se forse a tratti poco originale (a volte, di colpo, sembra di essere di fronte a un film di Mazzantini e Castellitto) questo film risulta intimo e sincero. Laura Bispuri, la regista, racconta il tema del rapporto fra madre e figlia in maniera schietta, scegliendo un’ambientazione rurale intorno a cui si muovono vite semplici, personaggi crudi e spesso volgari, e dove si gioca in maniera insistita sui primi piani delle protagoniste, con movimenti densi, quasi a cercare di entrare dentro i pensieri di chi vediamo sullo schermo.
Maria Rovagna
Jibril – di Henrika Hull – Panorama
Una Berlino nascosta, accennata, mai protagonista, di cui intravediamo soltanto l’aeroporto di Tegel e l’esterno del carcere di Moabit, fa da sfondo al percorso umano ed emotivo di Maryam, una madre single che si trova a doversi confrontare con un amore difficile, quello per Jibril, in prigione a scontare una condanna a sette anni.
Come può funzionare, un amore così?
Il film, che si sviluppa attraverso primi piani invadenti, pressanti, sostenuti da una fotografia sporca, ci fa ragionare, per mezzo della rappresentazione di una storia impossibile, sul tema del tempo nei sentimenti. Ci si chiede quale sia il momento in cui si capisce di amare qualcuno. Qual è il limite fino a cui si può decidere di spingere la natura emotiva di un essere umano. Quanto è complesso seguire gli istinti d’amore, quando ogni cosa intorno a te dice che “no, non si può fare”.
M.M.
MATANGI / MAYA / M.I.A. – di Steve Loveridge – Panorama Dokumente
Matangi è una bambina srilankese emigrata in Gran Bretagna all’età di undici anni. Matangi è una ragazza che ritorna, per cercare se stessa, nella sua terra d’origine, mentre la situazione politica del suo Paese sta degenerando e la sua famiglia, di etnia Tamil, è sottoposta a continue vessazioni. Maya è una ragazza del sud-est di Londra, ascolta hip hop, passa ore al telefono con gli amici, mangia patatine con tanto ketchup, si laurea al Central St Martins College of Art and Design e disegna copertine dei dischi per artisti emergenti.
M.I.A. è un fenomeno musicale di portata globale: dal 2005 ha introdotto nel panorama musicale mondiale un innovativo mix di suoni etnici, elctro punk, dance hall, hip hop, accompagnato da testi che, senza perdere la fruibilità, parlano di confini, guerra, migrazioni e rivalsa.
Questo biopic di Steve Loveridge si concentra sulla figura vibrante e irrisolta della cantante, che proprio a partire dalle difficoltà di conciliare le sue identità multiple, spesso contrastanti, trova le risorse per una produzione artistica innovativa. Il suo attivismo politico travolge i confini dell’appropriatezza stabiliti dallo show business, dando vita ad un immaginario estetico che rispecchia l’universo culturale di moltissimi giovani migranti di seconda generazione stabilitisi nelle città occidentali.
Un documentario intimo, ma senza morbosità introspettive, dal ritmo incostante, come la vita che racconta.
Shendi Veli
Amiko – di Yoko Yamanaka – Forum
Se organizzi un festival del cinema conosciuto in tutto il mondo, apprezzato ovunque per la capacità di inserire in programma titoli in arrivo da ogni parte della Terra, pellicole in cui il concetto di “indipendenza” viene spinto oltre ogni ragionevole necessità, può capitarti di esagerare e di portare alla Berlinale anche un lavoretto come questo.
Quello di Yamanaka (che ha vent’anni ed è all’esordio) non è nemmeno un brutto film, con i suoi riferimenti alla Zazie di Louis Malle e il tentativo di mettere insieme ribellione, sentimenti e critica sociale.
Eppure la storia della sedicenne Amiko, ossessionata da un amore eccentrico per Aomi, finisce per non raccontare niente di preciso, niente di nuovo, niente di davvero occorrente.
Però dura 66 minuti, e almeno in questo la regista ha fatto centro: di più non avremmo resistito.
M.M.
La terra dell’abbastanza – di Damiano & Fabio D’Innocenzo – Panorama
Film italiano. Anzi romano. Anzi romanaccio. Ambientato nella Roma di periferia, quella con i parchi giochi completamente distrutti, con le case popolari disfatte, i campetti da calcio abbandonati. La terra dell’abbastanza racconta la storia di due adolescenti che, come tanti, frequentano la scuola alberghiera con la speranza di imparare un mestiere che li porti lontano dalla miseria. Amici da sempre, Mirko e Manolo si ritrovano a dover affrontare una situazione molto più grande di loro, qualcosa che cambierà in modo radicale la loro esistenza.
Il film d’esordio dei fratelli D’Innocenzo forse non è ancora completamente maturo, ma è ben recitato e contiene una critica pesante al mondo di oggi, soprattutto nel racconto di una realtà periferica in cui persino il futuro è sacrificabile. Il ritmo resta alto per tutti e 96 i minuti di durata, con una colonna sonora che segue bene l’umore dei protagonisti e che racconta perfettamente le distanze esistenziali che si sviluppano sullo schermo.
M.R.
REDAZIONE
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