Il 2 ottobre del 2008 esce nelle sale tedesche Berlin Calling, film indipendente dal titolo paraculo e dalle tematiche azzeccate. In Italia approderà un anno dopo, il 6 novembre del 2009.
La trama si può sintetizzare in una riga: dj techno berlinese strafatto cerca (impegnandosi davvero poco) una via di uscita dalla dipendenza da droga e alcol e la trova grazie all’amore per la musica. Fine.
Niente di nuovo, ma la sorpresa arriva all’improvviso e in modo inaspettato, altrimenti che sorpresa sarebbe. Berlin Calling è una bomba ad orologeria che quando deflagra, qualche settimana dopo l’uscita, si eleva a caso cinediscografico dell’anno. E non solo.
Viene da dare per scontato che tutti abbiano visto il film e che tutti sappiano di cosa parli, conoscano gli attori, abbiano ascoltato la colonna sonora diventata culto, siano stati, almeno in visita turistica, in tutti i luoghi in cui sono girate le scene principali del film. E mi sbaglio, primo perché non è professionale e secondo perché è emblematico di un certo discorso legato proprio al tipo di successo che avuto il film stesso.
Apriamo una grossa parentesi, giusto per non ridurre la trama di Berlin Calling a quell’unica infame frase in apertura di articolo: Paul Kalkbrenner era, prima che il successo del film lo investisse trasformandolo in un semidio, un semi-dj e producer berlinese piuttosto normale, di scuderia all’etichetta BPitch Control. Il meno bravo di due fratelli che fanno lo stesso lavoro, ma il più bello. L’altro si chiama Fritz.
Regista, sceneggiatore e produttore è Hannes Stöhr, conosciuto tutt’ora dai più solo per questo film.
Succede che Dj Ickarus (Paul Kalkbrenner che interpreta se stesso nel film) torna da un tour mondiale che lo ha reso artista di fama internazionale e, spronato dalla sua manager e fidanzata, si dedica alla realizzazione del nuovo album, che dovrebbe definitivamente consacrarlo. Ma prima di mettersi sotto anima e corpo nella produzione, rimane sotto dalle droghe. Quindi crisi artistica, crisi personale, pastiglie tagliate male, rottura con la fidanzata e conseguente rottura con la manager, problemi psichiatrici, ricovero in clinica, riabilitazione, la musica ti salva la vita, esce il disco ed è bellissimo.
Fondamentalmente Berlin Calling è un film che parla di techno e fattanza.
In pochi forse lo ammetteranno, ma Berlin Calling è stato lo specchietto per le allodole di una quantità disumana di trasferimenti nella capitale da parte di giovani europei. Italia compresa. Non esagero anche se sto esasperando.
Mettiamola così: Berlino è, di per sé, una calamita per un certo tipo di nuova mobilità generazionale generalizzata (che dieci anni dopo, nel 2018, in realtà è ormai diventata vecchia): quella dei clubber, degli startupper scoglionati, dei creativi e degli artisti che sono più artisti che creativi, dei nuovi squatter hipster, dei giovani gentrificatori. Berlin Calling, invece, è stato un film che ha messo in passerella la Berlino dei club, tra l’altro alcuni dei quali asfaltati da lì a poco proprio dalla gentrification, dei dj che sembrano rock star, di una città che si professa povera ma sexy come nessun’altra in Europa, della techno e della droga facile. Berlin Calling è stato un film che chiaramente sapeva dove voleva arrivare. E ci è arrivato. Chi firma questo articolo lo sta dicendo con cognizione di causa e, sia chiaro, non intende affermare che si è trasferito a Berlino dopo essere stato folgorato da Berlin Calling, però ammette che ne fu estremamente affascinato e, inconsapevolmente, investito da una sorta di persuasione. Quel tipo di spinta indiretta, velata, fantasma, che ti accarezza e ti sussurra Sì, è proprio così, fratello.
Immaginando un esempio mi viene in mente il concetto di pubblicità occulta, oppure avvicinandomi di più al cinema, l’induzione all’acquisto tramite mosse strategiche di marketing da sala cinematografica: qualcuno mi disse, ma credo sia scritto più o meno ovunque anche senza che mi metta a fare un check Google, che c’è stato un periodo (lo fanno tutt’ora?) che i registi venivano indirizzati dalle grandi multinazionali a inserire, all’interno dei propri film, immagini capaci di assetare il pubblico, così che durante l’intervallo (ora non esiste più il Fine Primo Tempo) tutti andassero come automi a dissetarsi al bar comprandosi la Maxi Coca Cola familiare station wagon.
Berlin Calling, forse inconsapevolmente oppure intenzionalmente, ha agito su un certo tipo di pubblico nello stesso modo: assetandolo, con l’unica differenza che non c’è mai stato un Fine Primo Tempo.
Come c’è anche chi ha trovato il film orrendo. Fa parte del gioco in fondo. C’è chi a Berlino ci è venuto attratto da altro, perché, in fondo, la Napoli di Germania, con tutti i suoi problemi e i suoi fantasmi, è sempre riuscita a trascinarsi dietro i suoi discepoli, Pifferai Magico delle capitali europee.
Ci sono quelli che sono stati attratti dalla sua triste storia, dal suo fascino decadente o decaduto, dal buio e dall’architettura marziale. Quelli che ci sono venuti per David Bowie, per Nick Cave, per gli Einsturzende Neubauten.
Berlin Calling ha fatto presa sui clubber e sui presunti tali, sui junkies altolocati europei del nuovo millennio. Ha giocato le sue carte sul nuovo ma vecchio. Le immagini parlano chiaro.
Quest’anno, questo mese, Berlin Calling compie 10 anni. Di acqua sotto i ponti e di gente a Berlino ne è passata parecchia, qualcuno è rimasto e qualcuno se n’è andato. Le cose sono cambiate. In meglio o in peggio? Dipende dai punti di vista. Certo è che se ci si guarda un po’ intorno, non è più la Berlino di Dj Ickarus. Come dicevo prima, diversi dei luoghi storici che appaiono nel film sono stati chiusi: Il Maria am Ostbahnhof e il Bar 25 su tutti.
Al di là di quelli che appaiono nella pellicola, sono stati rasi al suolo club di un’importanza rara per la città, su tutti il KaterHolzig.
Resiste il tempio della techno, il Berghain, che continua a fare il suo lavoro, nonostante il livello di critiche alla direzione artistica si sia ormai elevato a dismisura. Resiste il Tresor, forte nelle invalicabili mura del Kraftwerk, questo nonostante sia diventato un ricettacolo di millennials che vengono respinti all’entrata del Berghain. Resistono le realtà più autoctone, come il Golden Gate.
Ma qualcosa, rispetto alla città mostrata quasi con fierezza in Berlin Calling, se n’è andato per sempre e i nostalgici iniziano a sentirselo addosso. Qualcuno comincia ad arrabbiarsi sul serio, quelli che ci sono nati qui e che mai si sarebbero aspettati di vedere la propria città, povera ma sexy, entrare nella bolla come tutte le altre.
Tecnicamente è un film brutto, non ci vuole un critico cinematografico per capirlo, con poche idee e banali, sorretto da un attore che non è un attore (e che, oltretutto, non fa nemmeno così male il suo ruolo), dalle riprese a telecamera a mano impacciate che non si capisce bene dove vogliano andare a parare. Però ha una forza incredibile, anzi due: è un film furbetto, non furbo, perché sono due cose diverse con due accezioni differenti.
E ha una colonna sonora pazzesca. Queste due cose lo rendono ciò che poi è diventato: un cult.
La scena nella quale appare la canzone ‘Sky and Sand’ (che Kalkbrenner realizza con il fratello Fritz) è emblematica, dato che mette in luce il perché Berlin Calling ha avuto quel successo inaspettato.
La canzone è indubbiamente bella, è travolgente. Nella scena Kalkbrenner è all’interno del Bar 25, è giorno, è nuvoloso, lui indossa occhiali da sole, è strafatto, poca gente che gli balla intorno in quel modo che solo chi vive i club a Berlino conosce. È un modo di ballare romantico, dinoccolato, che non pretende nient’altro che essere assorbito dalla musica. Di concedersi l’uno all’altra, il ragazzo alla techno, il singolo che smette di essere la gente e diventa un’entità mentale fatta di cartilagini in movimento, sudore e cassa.
È Berlino ed è sexy.
Berlin Calling basa tutta la sua forza sul citazionismo più sfrenato, a partire dal titolo. E poi Trainspotting, ma anche Qualcuno Volò sul Nido del Cuculo e molto altro. Ma la forma di citazionismo più furbetta, come abbiamo detto, è proprio quella riferita a Berlino. Il regista scava con una paletta da spiaggia laddove Wim Wenders aveva già trovato il petrolio e lo aveva esaurito, giusto vent’anni prima, con tutte le dovute dfferenze del caso, che sono tante.
A riguardarlo ora fa sorridere notare quanto ci siamo abbuffati del suo fascino così scarno e povero. Quanti di noi hanno fatto gioco forza del suo essere estremamente banale di una banalità effervescente, ma che se agitata troppo poi si sgasa.
Riascoltando la colonna sonora, invece, ci si accorge del lavoro importante che c’è dietro: in molti dicono che quel disco non sia opera di Paul Kalkbrenner e che Berlin Calling Ost sia la gemma di un Cyrano dei producer (forse proprio il fratellino Fritz?), chi lo sa. Ciò che resta è un grande disco per un film furbetto.
Berlin Calling compie 10 anni quest’anno e, a conti fatti, vince ancora, perché ci mette tutti davanti ad un problema antico e banale, ma al quale non siamo ancora riusciti ad abituarci totalmente: il mondo cambia.
Questi suoi due lustri arrivano al momento giusto, come se la matematica del tempo avesse riso del futuro e l’eco del suo sbraitare si fosse propagato e allungato senza mai perdere d’intensità fino a qui. A noi.
Giusto per confermare che anche Berlino, forse, non ha più voglia di essere povera ma sexy.
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