illustrazioni di Federica Scalise*
Benny’s Video
Austria, Svizzera, 1992
regia di Michael Haneke
Lo sguardo, nel cinema di Haneke, svanisce. Il regista prende posizione fin dal principio. Già dal suo esordio (Il Settimo Continente), non guarda in faccia nessuno. Anzi, sorge il dubbio le guardi tutte, le nostre facce, e che si diverta a turbarci, a farci incazzare.
Glaciale, a dispetto del volto da nonno buono disneyano, Haneke, l’austriaco nato a Monaco di Baviera, ci racconta con il suo cinema, con Benny’s Video, il tramonto esplosivo, improvviso, di una borghesia intesa quale quintessenza di tutti i mali. Perfino un “talebano” come Pasolini sarebbe sì d’accordo, ma gli darebbe un tranquillante: potremmo immaginare una bellissima conversazione.
In un’intervista di qualche tempo fa Haneke ha descritto con una semplice frase, lucida e lapidaria, quanto i suoi lavori, il cuore del proprio modo di fare cinema, siano «una sorta di consapevole omissione del lato bello della vita». Alla base della poetica di Haneke vi è l’idea del “Teatro della crudeltà”, promosso da Antonin Artaud agli inizi degli anni Trenta e volto a scuotere lo spettatore con ogni mezzo, al fine di ottenerne la partecipazione incondizionata. La “crudeltà”, per Artaud, sta proprio nell’inchiodare lo spettatore davanti a una realtà oggettiva, torturandolo a non negarsi alla visione fino al termine della visione stessa, a soffrire, a tenere in apnea fino al titoli di coda e pure oltre.
La storia è semplice, sulla carta. Un ragazzino sociopatico, alienato dal mondo, se ne sta tutti i giorni nella sua camera-laboratorio, munita di centinaia di Vhs, monitor che trasmettono video in stile trash e registrazioni in diretta della vita fuori, come ad esempio i vicini, ripresi di nascosto dall’adolescente protagonista, 24 ore su 24. L’inizio del film ricorda uno snuff movie e mostra la truce uccisione di un maiale con una pistola a proiettile captivo, quasi una citazione di un corto di Georges Franju girato in un mattatoio. Quindi procede lento e distaccato, a osservare la routine del giovane protagonista, per poi concludere con un pianosequenza di oltre due minuti, pesanti come macigni, in cui Benny utilizza la pistola a proiettile captivo del maiale ucciso all’inizio. E non si tratta, questa volta, di un povero animale, ma di un’altra creatura innocente, vittima della ragnatela di Benny.
Quei due, interminabili, minuti, sono tragici e sublimi, non se ne vanno dalla nostra mente facilmente. Valgono, da soli, l’intero film: e non siamo nemmeno alla parte più sconvolgente.
Il giovane adolescente sentirà di dare una confessione ai suoi genitori, che reagiranno come da manuale del “Galateo del male borghese”, perché il male peggiore, ci dice Haneke, risiede proprio nello specifico status sociale di chi ha le risorse culturali e materiali per compiere i più atroci dei delitti, siano essi con o senza sangue. Il veleno è quello che producono i borghesi ben agiati, secondo il regista austriaco.
In molti non sopportano Haneke, perché, dicono, si prende gioco dei sentimenti di chi guarda. Io condivido solo in parte. Credo che Haneke sia molto furbo, ma anche sincero. Non vorrei andarci a cena, certo, eppure non lo definirei un disonesto programmatico, come descritto da certi critici francesi dopo i tanti premi ricevuti.
Ho la ferma convinzione che lui stesso, Haneke, voglia essere Benny, anzi, Haneke è Benny. Quello che manca è piuttosto una visione più ampia della crudeltà, dato che il male lo si può costruire anche avendo umili origini. Quello che un borghese “deviato” può fare con libri e soldi, una persona più modesta lo può sviluppare col il senso della sopravvivenza, quindi naso, pancia e orecchie. Haneke macera un desiderio forse represso, incanalato in un’arte di esplodere la rabbia che non ha momenti di mediazione e nessun senso di colpa, nessuna coscienza, nessun risentimento o riflessione. Forse a partire da ciò si può decodificare il legittimo senso di diffidenza di molti spettatori che non sopportano lui e i suoi film, ma il voler inchiodare chi guarda di fronte a scene crudeli o di una tristezza e angoscia, dentro case di famiglie borghesi e decadenti, è il suo credo, la sua crociata. Il male universale in una stanza, altro che cielo, come diceva la mitica canzone. Il male del mondo che entra nelle case di tutti è quindi ancora più infido, perché nascosto e soprattutto impunito. Benny’s video è forse la miglior creatura hanekiana, perché rappresenta la traccia più personale del suo cinema. Il male concentrato nelle mani colpevoli, ma solo parzialmente, di un giovane adolescente, che non ha strumenti, se non tecnologici, per confrontarsi con la realtà.
Merita di essere visto anche per scoprire la sensazione di paura trasmessa pur senza mostrare niente. Nessuna voce si alza per gridare la verità. Si scivola nelle tenebre, si osservano le vittime. L’orrore vero è costituito dalla pulizia del sangue per terra, dal mettere ordine, dal consentire a chi deve essere fermato, curato, di andare avanti, di far soffrire altre persone.
Benny’s video è un film senza compiacimento, senza spettacolarizzazione. Mi fa venire in mente un angolo buio (con riferimenti fondamentali ai tagli di Bresson e ai 30 minuti di The Act of Seeing With One’s Own Eyes, di Stan Brakhage, del 1971) che rimane nell’oscurità, ma continua a spaventarti per la certezza di non dare vie di uscita: Haneke si rifiuta categoricamente di commuovere. Si diverte a sezionare le sensazioni, a coinvolgerci fino in fondo nella sua operazione a cuore aperto.
Il ragazzino (Arno Frisch), comparirà anche nel cult Funny Games, girato da Haneke cinque anni dopo Benny’s video e rappresenta quindi una sorta di seme, l’origine di un futuro serial killer, raffinato e che diventerà ancora più cinico nelle sue azioni. I genitori sono interpretati, rispettivamente, da Angela Winkler, eccezionale nei panni della madre, consapevole ma inerme e passiva agli eventi che le scorrono accanto, e Ulrich Mühe, nel ruolo del padre, il più inquietante e anaffetivo fra i due.
Frisch è perfetto nel rappresentare un ragazzino completamente svuotato di affetto ed educazione emotiva; non é tanto quello che fa durante il film a sconvolgere, è il comportamento immediatamente seguente agli episodi cruciali, a farmelo odiare. In tutto il film sorride solo una volta, solo quando intasca dei soldi dopo l’ennesima vendita di farmaci ai suoi amici a scuola. Un abbozzo di sorriso, diciamo. Benny ha una faccia da schiaffi, a metà tra il cane bastonato e il bambino sognante, utile a magnetizzare attenzione e compassione, ad avvicinare chiunque sia veramente dotato di empatia e fiducia per il prossimo.
Pian piano, nella seconda fase, con un cambio repentino di registro, la gabbia di Benny si chiude, imprigionando gli innocenti. Dopo un momento di accoglienza si gioca, si fa del male, sadicamente, a volte maldestramente. Benny apparentemente manifesta una discreta sicumera, ma la sua non è altro che incapacità totale di interagire, di sentire il prossimo. Qualsiasi parola, qualsiasi carezza, gli scivolano addosso. Ma ovviamente il pattern è il solito e denuncia responsabilità di quello che in inglese più efficacemente si chiama “Bad Parenting”. Non solo, ovviamente. Ci sono anche i media e la tecnologia, che ha aumentato a dismisura l’isolamento giovanile, ma nel lavoro di Haneke si registra subito un impatto, la realtà si deve controllare, tagliare, soprattutto bisogna riempire i momenti di vuoto. Anche a costo di fare del male. Tanto la paura si incancrenisce e l’asticella di provare qualcosa si alza così tanto da spezzarsi. Rasato a zero per una inconscia e palese necessità di purificazione delle sue “gesta”, nel finale Benny prende, seppur in modo sgraziato e goffo, una decisione che farà emergere l’origine del male. Eppure, quando tutto sembra perduto, un piccolo raggio di luce e di legge, (in una scena mediata tramite lo stacco su una piccola videocamera, schermo attraverso il quale possiamo vedere le scene critiche del film) entra in questa casa, regno delle tensioni nascoste e represse.
Quanto spaseamento ci provoca la visone di questo film, quanta angoscia.
Benny’s video è un film sinistro, sconcertante, soprattutto spaesante. Questo termine, in una lingua seria come il tedesco, come dice Galimberti, diventa Unheimlich. Heidegger ritenne di doverci riflettere e di buttare nero su bianco, nel suo libro Sein und Zeit, la spiegazione di come nell’angoscia ci si senta spaesati.
“L’intimitá quotidiana si dissolve, l’esserci resta isolato, ma tuttavia come essere nel mondo. L’essere assume il modo esistenziale del non sentirsi a casa propria. A nulla altro si allude quando si parla di spaesamento”.
Un passaggio chirurgico nel definire ciò che ho provato per giorni dopo la visione di questo film, così come dei due successivi, che compongono la trilogia glaciale.
C’è una componente manipolatrice in Haneke, che si materializza nell’umorismo che ogni tanto si palesa in conturbante cocktail di apatia, cinismo ironico. Haneke non si guarda mai allo specchio, ma col camice da psicologo che forse avrebbe voluto mettersi addosso, incanala un sottile desiderio di vivisezionare l’essere umano, andando oltre il suo già ampio bagaglio intellettuale ed emotivo.
Non c’è un perché.
Perché chiedi perché?
(Caro M. ti dedico il pezzo perché ti sarebbe piaciuto. Nessun perché, non c’è niente da capire. Ah, ti devo rendere ancora 5 euro, ma non credo che lo farò.)
Haneke, nel giocare con i sentimenti, ci costringe a reagire, scuotendoci, ad osservare il mondo toccandolo con mano, a prendere posizioni nette contro l’ipocrisia dei benpensanti e il male strisciante dei media. Citando una frase di Porco Rosso del grande Hayao Miyazaki (1992): “dopo tutto…guardando te.. l’umanità non è proprio tutta da buttare”.
*Federica Scalise è un’architetto e illustratrice.
Nata in Calabria, laureata a Venezia, ora vive ad Atene.
I suoi collage digitali rappresentano ambienti utopici e surreali, spazi domestici e paesaggi mediterranei.
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