Luna indiana
di Mattia Grigolo
Ho conosciuto Franco Battiato un giorno di febbraio del 2002.
Era a casa di Paolo e cantava in soggiorno.
– Che roba è? – gli avevo chiesto e lui mi aveva risposto – L’Era del Cinghiale Bianco.
Il vinile, probabilmente dei suoi genitori, girava scoppiettando su un vecchio Technics. Mi ero fermato ad ascoltare, titubante e un poco divertito.
Tra me e Franco Battiato non è stato amore a prima vista, piuttosto una relazione complessa trasformatasi, con il tempo, in qualcosa di solido. Le mie allora recenti scoperte musicali andavano a cozzare con il tentativo di presa che, devo dire onestamente, Paolo faceva di tutto per fare attecchire.
Avevo appena scoperto, nell’ordine, Talking Heads, Aphex Twin, Autechre, Brian Eno. Io che avevo vent’anni e che arrivavo dal punk hardcore e dall’hip hop delle Posse italiane dei ’90.
Mi stavo avvicinando, quindi, a un suono diverso e, soprattutto, un concetto pressoché opposto di vivere la musica.
Paolo mi aveva detto – lo devi ascoltare bene, in cuffia. Battiato ha bisogno di tempo, non è una sveltina.
E allora avevo scaricato il disco, lo avevo masterizzato su un cd vergine e me l’ero portato in giro dentro un lettore.
C’era anche l’elettronica, avevo pensato, e l’elettronica mi andava bene, era la mia cosa nuova, lontana dagli overdrive delle chitarre dei Terror, dal picchiare ossessivo sulla batteria, dai sample funky delle Posse, dalla fattanza blu dei Sangue Misto.
Però c’era qualcosa che disturbava: forse quel cantare “stonato”, fuori asse, gracchiante.
Oppure l’isteria della forma canzone nell’Italia dei primi anni 80, che avevo sorpassato, ma che mi avrebbe ripreso un decennio dopo.
L’Era del Cinghiale Bianco era musica vecchia e io stavo iniziando ad ascoltare la musica del futuro.
Però c’era qualcos’altro e forse risiedeva anche in ciò che Paolo cercava di dirmi nel suo tentativo di farmi “comprendere” il mondo allucinato di Franco Battiato.
– Ma non lo senti cosa dice? – mi aveva detto.
No, non lo avevo fatto, mi ero colpevolmente fermato alla forma, tralasciando il contenuto. Forse perché era distante dai testi politicizzati o idioti dell’hardcore oppure dalle barre incazzate dell’hip hop. Forse perché l’avevo vista banalmente etichettata come canzone popolare italiana. Non lo era affatto.
– È un delirio. Qui dentro c’è la narrativa, la poesia, la filosofia, l’allucinazione – mi aveva detto Paolo.
Era vero, inconfutabilmente e vergognosamente vero.
Quella è stata la svolta.
Mi era bastato ascoltare veramente per capire e aprirmi un varco che era diventato una consapevolezza.
Ancora adesso, sono convinto che il problema di chi non ha capito Battiato, sia l’incapacità di saperlo ascoltare davvero. È banalizzante, lo so, ma spesso nella banalità risiedono le più stupide verità.
Non ho mai conosciuto uno scrittore come Franco Battiato, credetemi, non ce n’è. È vero, ogni scrittore è il suo mondo narrativo, ma le somiglianze ci sono quasi sempre, seppure velate.
Battiato scriveva e poi arrivava la musica, che a volte si adattava, rincorrendo le parole, ma mai afferrandole completamente. È stata questa la sua magia: scrivere per dire, cantare per farsi ascoltare, comporre per trasmettere. Tre forze perfette che, invece di collidere tra loro, si sono intersecate, amalgamate, scopate e spruzzate nel mondo come un gigantesco pensiero unico e sfrontato, a prendersi tutto ciò che poteva.
Voglio dire, Un’Estate al Mare di Giuni Russo l’ha scritta Battiato. È una delle mie canzoni preferite. Non da adesso, da allora, vent’anni fa: l’hardcore, l’hip l’hop, Draft 7.30, Remain in Light, Selected Ambient Works, Music for Airports e Un’Estate al Mare.
Con la consapevolezza era arrivato l’amore viscerale, anche un po’ altezzoso, la fiducia: io ascolto Franco Battiato. No, anzi, io so ascoltare Franco Battiato.
La vera sorpresa, però, era arrivata insieme a Luna Indiana, la quarta canzone de L’Era del Cinghiale Bianco. Una traccia strumentale in cui prevalgono il pianoforte e il violino.
Piangevo ogni volta che l’ascoltavo, piango ancora adesso, perché dentro quel brano c’è una sofferenza e una malinconia e una dolcezza e una forza che io avrei voluto sentire in un essere umano, tutto insieme, in un unico gesto, perché sarebbe stato una supernova di emozioni che insieme sono bellissime.
La cosa assurda?
In Luna Indiana Battiato non scrive, quantomeno nel senso stretto del termine. Non racconta. La usa la voce, ma in un modo incredibile: come un errore, uno strumento scordato, un mantra antico di legno grezzo e di liquido che ci scorre sopra. Perfettamente sbagliata.
Questo è stato Franco Battiato, qualcosa di superiore e incomprensibile e bellissimo e graffiante e stonato e armonico e popolare e sperimentale.
Un pianeta sconosciuto, che ha lasciato tutti con la testa verso il cielo: è solo un pianeta, dicevano. Eppure, a suo modo, se li è portati via tutti.
Prospettiva Nevski
di Piera Ghisu
Sintetizzare Battiato è impresa ardua. Non resta che partire dal privato, questa piccola dimensione che il nostro maestro cosmico trattava con estrema delicatezza, dandole il giusto spazio, il giusto tempo, la giusta importanza.
La mia conoscenza delle sue opere musicali è iniziata presto, e presto è nato l’amore. Ero l’ultimogenita di una famiglia composta da sei persone, i miei quattro fratelli e i miei genitori, e la musica scandiva le nostre giornate tumultuose. Mio padre non perdeva occasione per inondare la casa e le nostre vite di suoni, che spesso si traducevano in opere liriche e sinfoniche. Siamo tutti cresciuti ascoltando Verdi e Beethoven, e ora, con uno sguardo adulto, mi rendo conto che probabilmente l’ascolto musicale era un modo per dare un ordine al caos che regnava. La musica pitagoricamente intesa come il suono cosmico, l’armonia delle sfere.
Accanto alle composizioni più classiche, l’ascolto familiare consisteva di rari pezzi pop. Tra i pochi ad essere ammessi nel pantheon musicale, c’era Battiato. In particolare, durante i lunghissimi viaggi in auto verso la casa in Gallura, la sua musica all’interno dell’abitacolo ci consentiva di recuperare una dimensione più rilassata, di aprire i nostri cuori, e mi pareva allora soprattutto quelli dei miei genitori, di norma piuttosto irrequieti. C’era un pezzo che riusciva meglio di altri a fermare il momento: si chiamava Prospettiva Nevski. Il suono del piano e la voce di Franco riuscivano a calmare le acque, a mostrarmi un aspetto diverso della mia famiglia, riuscivano a farmi vedere, seduta nei sedili di dietro della Rover, schiacciata tra i miei fratelli, i miei genitori come due esseri umani fragili e in uno strano modo uniti. A mostrarmi le famiglie felici della San Pietroburgo di Anna Karenina, a catapultarmi in un modo o in un altro nella Russia bianca di neve.
La ascoltavamo in religioso silenzio, il sacro si faceva strada tra le vecchie coi rosari e Nijinski, tra il distributore di Abbasanta e il bivio per Palau. Il sacro era dentro la Rover e nella rivoluzione d’Ottobre, era nella voce di Battiato e in quella di Alice, era in quei quattro figli provati dal lungo viaggio nella campagna gallurese.
Più tardi, avrei portato quella canzone con me quando fischiava il vento a Berlino, a 30 gradi sotto zero, direttamente da Leningrado, e la porto ancora quando cala la sera, e cerco il giorno che verrà, come mi ha insegnato a fare Franco, al quale sarò eternamente grata per quegli attimi di felicità familiare, e per avermi suggerito attraverso i suoi densissimi testi, fin da bambina, che lo studio della filosofia, da Oriente a Occidente, è una buona strada da percorrere.
Summer on a solitary beach
di Ercole Gentile
“Impaziente mi aspettava la vita
Mentre il vento frizzante del mattino
Si portava via ogni cosa
Avevo diciassette anni”.
Si, lo so questo non è un estratto di “Summer on a solitary beach”, bensì di “Memoria di Giulia”, canzone tratta dall’album “L’imboscata” del 1996.
Tuttavia, oltre ad esserne molto legato, mi ricorda che avevo esattamente 17 anni quando scoprii veramente la musica di Franco Battiato. E sì, impaziente mi aspettava la vita, quando per la prima volta mi capitò tra le mani l’album “La voce del padrone” (che tra l’altro è del 1981, mio anno di nascita, e il cerchio dei numeri si chiude).
Ne avevo sentito parlare e conoscevo i pezzi più famosi del cantautore siciliano.
Inoltre mio zio, tastierista, da giovane aveva una incredibile somiglianza con il Franco catanese e con il suo gruppo aveva anche aperto delle date di Battiato a Foggia. Quindi in qualche modo era uno di famiglia.
“Summer on a solitary beach” è la prima canzone di quel gran disco. Era giugno, era appena finita la scuola e avevo l’estate davanti a me. L’ultima di libertà prima della fine delle scuole superiori.
Il cd uscì in edicola in allegato alla rivista Tv Sorrisi & Canzoni, che in quel periodo riproponeva i grandi capolavori dei cantautori italiani. Chiesi a mia madre di comprarmelo e da lì si aprì un mondo.
Il rumore delle onde del mare con cui inizia il brano, il ritmo allegro, intriso però di quella euforia malinconica, come la mia esistenza a 17 anni. La voglia di spaccare il mondo, di mordere la vita, ma allo stesso tempo quella esigenza di fuga e quel velo di inquietudine che non andava mai del tutto via.
Mi ricordo ad ascoltare questo pezzo nel giardino di casa, con il mio lettore cd portatile. Occhi chiusi, sdraiato sull’erba e quella speranza di farsi portare lontano dalle onde.
Aspettando l’estate
di Gianluca Gilletti
C’è stato un momento in cui ho smesso di ascoltare musica, tranne Battiato. Sarebbe stato un delitto non seguire un percorso artistico sempre più moderno e sempre più poetico.
Era l’inizio della primavera, seconda metà degli anni zero, si avvicinava il momento di dover scrivere una tesi di laurea e nel frattempo risuonava alla radio Il vuoto. Una canzone bluff, come tante altre, ma solo nelle sonorità; oltrepassata l’apparenza radiofonica, si schiudevano le porte del Paradiso. Ascoltai Aspettando l’estate centinaia di volte. Era la traccia numero tre, una sorta di risveglio estatico dopo I giorni della monotonia. Con il passare delle settimane l’odore dei fiori si mescolava a quello del mare. Ad ogni ascolto la percezione cambiava, non era mai la stessa, l’odore diventava sempre più intenso. Vedevo le giornate allungarsi e un tiepido aprile svanire, pian piano, sotto ai miei occhi.
Il Monastero dei Benedettini, sede della facoltà di Lettere e Filosofia a Catania, era il mio rifugio a quel tempo. Ci si poteva isolare facilmente e trovare riparo quotidiano dall’inferno metropolitano. Attraversando lunghi corridoi raggiungevo comodamente il chiostro di levante o il giardino dei novizi. A quei tempi scrivevo canzoni sul retro dei libri fotocopiati. La poesia fu il pretesto che fece decollare il mio progetto: quei testi di musica leggera appartenevano al registro poetico, non c’era dubbio, ed io lo scrissi nero su bianco. La tristezza/ non prevale su me/ col canto/ la tengo lontana; il canto è quello del poeta, il poeta canta, da sempre. Non crediate che questo non sia stato un lavoro noioso, ma dovevo escogitare un modo per velocizzare i tempi. Il fatto di conoscere a memoria le parole mi aiutò parecchio. Quelle canzoni erano diventate preghiere, rimedi, cure.
In quegli anni Battiato era solito partecipare a convegni e conferenze che avevano luogo presso l’Aula Magna del Monastero. Uno di questi fu organizzato per commemorare la figura di Manlio Sgalambro, a un anno dalla sua scomparsa. La collaborazione con il filosofo catanese permise a Battiato di raggiungere vette poetiche mai esplorate prima. Furono strani giorni.
Quando il Maestro fu interpellato per esprimere un ricordo in memoria del suo amato collaboratore, disse solo poche parole: “Manlio non credeva nella reincarnazione. Non c’è niente oltre la morte, mi diceva, rassegnati! Qualche giorno dopo il suo addio lo sognai, si trovava in Medio Oriente, una di quelle zone della terra che lui detestava e che non avrebbe mai voluto visitare, nemmeno come semplice turista. Non si era ancora reincarnato, il processo di rinascita è lungo, dura settimane. Ma stava bene. Era sereno.
Anche se non ci sei, tu sei sempre con me.”
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