Nell’agosto del 2016, ad Arnsdorf, nell’est della Germania, un ventenne iracheno entra in un supermercato per risolvere dei problemi con una scheda telefonica difettosa. Cerca di farsi comprendere a gesti, non conosce bene il tedesco. A un certo punto prende da uno scaffale una bottiglia di vino, la tiene semplicemente in mano, ma viene giudicato pericoloso e quattro uomini lo immobilizzano e lo tengono legato ad un albero fino all’arrivo della polizia.
Qualcuno all’interno del supermercato filma la scena senza audio e la propone in rete; le azioni e i comportamenti del ragazzo scatenano l’ira della massa, che gli punta il dito contro. Non viene minimamente analizzata la portata della violenza da lui subita: se la merita. Dopo un anno il giudice opta per la sua assoluzione, invece, ma il ragazzo non ne verrà mai a conoscenza, perché solo una settimana prima della sentenza viene ritrovato il suo cadavere in una foresta, morto per congelamento secondo l’autopsia.
Questo triste caso, uno tra i tanti che coinvolgono immigrati e rifugiati in paesi europei, diventa centrale nella videoinstallazione Again / Noch Einmal (2018), di Mario Pfeifer, presentata per la prima volta presso la nuova edizione della Berlin Biennale for Contemporary Art, e che mette in luce uno dei quesiti più scottanti che l’intera esposizione intende proporre: abbiamo davvero bisogno di altri màrtiri o di altri redentori per questa lezione di storia? No, non abbiamo bisogno di nuovi eroi.
We don’t need another hero è il titolo che la curatrice Gabi Ngcobo ha voluto attribuire alla decima edizione della biennale, richiamandosi all’omonima canzone del 1985 interpretata da Tina Turner. Ngcobo puntualizza che le fondamenta dell’esposizione vanno ricercate nel messaggio che il team curatoriale si prefigge di lasciare al futuro: la storia dovrà tenere conto della realtà che viviamo oggi, una realtà che coinvolge il punto di vista delle donne, degli omosessuali, dei migranti. Sono punti di vista che, per quanto possano essere sottoposti a vessazioni, non hanno bisogno di essere salvati perché in grado di auto-preservarsi, nel corso del tempo e lontani dall’influenza di una conoscenza preconcetta.
Dislocata in più sedi e con numerosi interventi collaterali che si svolgeranno dal 9 giugno 2018 al 9 settembre 2018, la biennale risulta efficacemente coerente con il suo tema. Si coglie in modo sostanziale l’attenzione alla questione dell’immigrazione, affiancata sicuramente da altre declinazioni del tema più generale, quali la censura o la sottomissione delle donne come fenomeno ancora diffuso in alcune aree geopolitiche. In particolare va apprezzato lo sforzo degli artisti partecipanti nel ricercare una collaborazione, un coinvolgimento, una condivisione con lo spettatore, talvolta veicolato e guidato verso il riscatto dalle proprie convinzioni pregiudiziali, etiche o psicologiche.
Di questa tipologia di percorso si fa carico Pfeifer, ad esempio, nella videoinstallazione già citata, ripercorrendo con carattere fortemente inquisitorio la vicenda che ha come protagonista il giovane iracheno: com’è possibile che non venga contemplata l’ipotesi che il ragazzo violento non fosse e che, piuttosto, fosse solo spazientito dalla mancata risoluzione del suo problema? Davvero nessuno ha pensato che potesse essere innocente? In che modo le cose sarebbero potute andare diversamente? L’artista prova a riavvolgere il nastro dando una soluzione alternativa alla questione reinterpretandola in una sorta di teatro di posa: il gestore del supermercato si avvicina al ragazzo con gentilezza, gli chiede Posso aiutarti? Qual è il tuo problema?, il ragazzo si calma, spiega che la sua scheda non funziona. Non preoccuparti, ci penso io. Per favore, ora posa la bottiglia. Il ragazzo posa la bottiglia, nessuno lo immobilizza, non viene legato a un albero. La vicenda si chiude con civiltà. In fondo, perché no, sarebbe stato uno scenario plausibile se…
Se il ragazzo non fosse stato straniero? O se non fossimo influenzati dal fatto che, invece, lo era?
How can we maintain a dialogue as society drifts apart? How does the construction of certain narratives influence our perception of reality? Invita a riflettere Pfeifer: forse bisognerebbe semplicemente imparare ad essere più critici, a porsi più domande, a ribaltare il proprio punto di vista e indagare quale tipo di comportamento si attuerebbe se, semplicemente, si fosse al posto di qualcun altro.
Sulla scia di questo ragionamento vorrei proporre un esperimento che trasli dall’arte alla realtà, di cui l’arte d’altronde si nutre. Mi rivolgo a chi legge: poniamo che tu sia un ragazzo maliano di ventinove anni che vive in un paesino del sud Italia, dove lavori come bracciante. Poniamo che un giorno decida di dare una mano a un paio di amici a procurarsi delle lamiere per costruire una baracca. Supponiamo che qualcuno vi veda smantellare il tetto di una vecchia fornace che è abbandonata ma che questo qualcuno rivendica come propria. Ora, per vendetta, il tale ti spara un colpo di fucile e poco dopo muori in ospedale. Cosa penseresti se fra i commenti di una nota testata giornalistica, parlando di te, della tua morte, qualcuno scrivesse: se l’è cercata?
Ribaltare un punto di vista, talvolta, innesca quella schicchera chiamata empatia che, se agisce in maniera corretta, provoca comprensione oltre che compassione. Spesso a bloccare questo processo è la paura di ciò che non conosciamo, di chi non conosciamo. Non siamo ben disposti a dare fiducia a ciò che non è già nostro, incamerato e sedimentato nel nostro vissuto, e addirittura facciamo fatica a includere la categoria “essere umano” nel bagaglio che ci appartiene. È come se non ci venisse naturale, in un certo senso, riconoscerci esseri umani prima di includerci in sottoinsiemi che comprendano religione, orientamento sessuale, razza o genere. Per questo, con facilità, parliamo di minoranze: se ci riconoscessimo tutti sotto una più larga bandiera non ci sarebbero motivi per cui lottare e per cui rivendicare il proprio diritto ad essere iscritti all’insieme più ampio.
Di questa esigenza di resistere e combattere tratta Sitting on a Man’s Head (2018) dell’artista Okwui Okpokwasili, un happening che fa riferimento, nel suo titolo, alla protesta degli anni Venti attuata da un collettivo di donne nigeriane che irrompevano, danzando, nelle proprietà private dei coloni britannici. Atta, a livello metaforico, a travalicare i propri silenzi, le indicazioni fornite dal pannello esplicativo riportano: If you come inside “just for a look” you will see the room is “empty”. We ask you to bring something of yourself into the space. Lo spazio è composto da una grande gabbia che ha per pareti dei teli in plastica quasi trasparenti. Il pavimento è un parquet nel quale si cammina scalzi, lentamente, ripetendo delle azioni che qualcun altro ha fatto prima: queste azioni, molto probabilmente, sono l’espressione fisica della storia che uno dei partecipanti ha raccontato nel momento in cui ha aderito al progetto rispondendo alla domanda: puoi dirmi qualcosa di personale che una volta hai raccontato a qualcuno che però non ti ha creduto?
Prima di prendere parte all’esperienza vesto panni più voyeuristici e osservo quanto accade all’interno del ring dal piano superiore della struttura che ospita la performance, il KW – Institute for Contemporary Art. Una donna e un uomo sono in piedi, l’una di fronte all’altro, e si muovono incontro con una lentezza che li fa percepire quasi immobili. Lei è pallida, ha occhi chiari e attenti, e capelli biondi e lisci che le scontornano le guance dai tratti duri. Indossa un vestito blu notte con una trama di finissimi pois bianchi. Lui ha una carnagione lievemente scura, i capelli corti e la barba nera, una camicia larga con delle righe verticali. Si metterà a piangere, solo tra tutti, alla fine della giornata; ma nel mentre che è lì di fronte a lei, sorride e sorride anche lei. Prendono a girare, allungando verso l’esterno il rispettivo braccio destro, senza toccarsi ma come se avessero un unico perno di riferimento intorno al quale rotare; nel mentre l’artista, anche lei nel ring, dà loro un ritmo sonoro, cantando ripetutamente la stessa frase, una nenia sottile. L’atto comunicativo tra i due è compiuto, e ora lentamente camminano verso la pedana all’ingresso che li riporterà alla realtà in cui torneranno ad essere due sconosciuti. D’altra parte, se è vero che da un lato l’arte si nutre della realtà, fuori dal contesto artistico azioni simili non risulterebbero altrettanto spigliate o naturali, né da compiere, né da contemplare.
Resta pur sempre, però, un piccolo spiraglio che connette i due mondi e che lascia passare il vento da un lato all’altro, col buon auspicio che continui a trasmettere, più e meno metaforicamente, lo stesso messaggio che questa biennale si prefigge.
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Immagine di copertina: Mario Pfeifer, Again / Noch einmal, 2018, 4K video transferred to HD, 2-channel installation, color, 5.1 Surround, 23′, video still, courtesy Mario Pfeifer; KOW, Berlin, © 2018 VG Bild-Kunst, Bonn
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