Illustrazioni di Domitilla Marzuoli*
Aguirre, furore di Dio (Aguirre, der Zorn Gottes)
Germania Ovest, 1972
Regia, Soggetto e Sceneggiatura – Werner Herzog
“Alla fine del 1560, partì per la prima volta dagli altipiani del Perù una grande spedizione di avventurieri spagnoli sotto la guida di Gonzalo Pizarro.
L’unica testimonianza che possediamo di questa spedizione, scomparsa senza lasciar tracce, è il diario del monaco Gaspar de Carvajal…”
Inizio pesante.
La sequenza di apertura del film è talmente intensa che riesce, in pochi minuti, a incantare: la prima scena più bella della storia del cinema.
Con questo incipit il regista tedesco mette subito in chiaro la brutalità della natura che, con violenza, si appropria del suo ruolo di colonna portante del film. La accompagnano le musiche oniriche dei Popol Vuh; una colonna sonora che avvolge l’intera pellicola e le dona una lirica rara.
Il campo lunghissimo di questa spettacolare introduzione solo è suggestivo, ma ritrae inoltre, nel migliore dei modi, la catena umana che, rasentando le rocce, guarda con timore ad una natura che non fa e non farà altro che essere ostile.
La natura, appunto. Herzog, nemmeno trentenne, mette in questo film tutto il suo vissuto viscerale, che poco ha a che fare con ciò che è urbano. L’infanzia con la madre a Sachrang, un villaggio montano della Baviera, è un’esperienza che segnerà l’animo del futuro regista, che avrebbe presto incontrato un giovanissimo Klaus Kinski; insieme avrebbero instaurato un sodalizio indissolubile, un’amicizia a tratti morbosa, ma necessaria per entrambi.
Già, Klaus Kinski. Un personaggio autodidatta, talentuoso, che forse si credeva più intelligente o maturo di quanto fosse in realtà e che, nonostante tutto, come tutti i grandi, ha lasciato un’aura di mistero e magia, con centinaia tra spettacoli teatrali e film all’attivo dal 1948 al 1989. Non male per uno con cui sembrava fosse impossibile lavorare, uno capace di rifiutare parti anche per registi come Fellini e Pasolini.
Ma torniamo ad Aguirre. Nel film gli spagnoli e gli indios, accompagnatori, soffrono terribilmente la discesa negli inferi; tutti, tranne Aguirre, che è in perfetta sintonia con questo Everest impazzito in versione amazzonica. Uno sguardo prima dolce e poi lunatico, appunto, concentrato e folle, che gira come una trottola impazzita, ma segue una linea e un percorso ben definito, fino al tragico e inevitabile finale. Il “suicidio collettivo” era stato già annunciato da Herzog in modo fermo e deciso nei primi dieci minuti del film. Sappiamo già tutto, ma ci domandiamo, ipnotizzati, cosa diavolo stiano facendo ancora là.
Aguirre ha il cuore, la testa e la pancia connesse con la foresta e le sue insidie; insieme formano una vera e propria centrale elettrica. E lentamente, e con fare misterioso, tessono la loro tela, decisi a portare fino in fondo la loro missione: sacrificare tutto e tutti.
La spedizione narrata nel film si ispira ad un evento reale, narrato nel diario del frate Gaspar de Carvajal (che, a differenza di quello che ci mostra il film, non vi prese realmente parte) e racconta di un gruppo di conquistadores spagnoli che, capitanati inizialmente da Gonzalo Pizarro, sfidarono le terribili avversità della foresta amazzonica alla ricerca della leggendaria El Dorado, discendendo con zattere precarie il Rio delle Amazzoni.
Fin dalle prime sequenze riconosciamo lo stile di Herzog, una miscela dal sapore ancestrale ed estatico, come lui stesso la definiva, di finzione e documentario che colloca il regista tedesco tra i più grandi del ventesimo secolo. Ogni secondo in più che scorre restiamo spompati dalla violenza della natura e del cosmo intero che ci vengono mostrati nudi e crudi, nella loro abissale differenza dall’essere umano.
Benvenuti, anzi Wilkommen, nella realtà “estatica” herzoghiana.
Un lucido, visionario, Werner Herzog, che riesce ad indagare la realtà documentaria al di sotto del suo strato e a oltrepassare il limite tramite l’unico profilo ideale per coinvolgere Klaus Kinski e ricavarne la vera essenza: l’esaltato e misterioso Aguirre. Una parte fortemente voluta dall’attore istrionico, folle e nevrotico, a tal punto da portare Herzog a minacciarlo di morte se non avesse terminato le riprese. Isterie, quelle dell’attore, che sfiancavano Herzog e la troupe, già stremata dalle pessime condizioni ambientali.
Gli indigeni stessi proposero ad Herzog, in modo sereno e civile, la loro disponibilità ad eliminare fisicamente Kinski. Perfino loro, gente abituata a camminare scalza e a cacciare per sopravvivere, non riuscivano a convivere per ben due mesi con le bizze isteriche di un pazzo con gli occhi sgranati. Herzog declinò l’allettante proposta, spiegando loro che non fosse possibile, visto che Kinski gli sarebbe servito perlomeno fino a fine riprese.
“Lasciatelo a me”, fu la sua risposta dopo qualche secondo di esitazione.
«Sono il furore di Dio, la terra che io calpesto mi vede e trema.»
«Quando regnerò questa terra sposerò mia figlia. Avremo una razza pura.»
La spedizione prende inizio: potrà durare una settimana al massimo, dopo di che sarà dichiarata fallita. I quaranta spagnoli supportati dagli schiavi Indios si imbattono però subito in delle difficoltà.
Innanzitutto, non sono soli.
Alcuni dei conquistadores vengono uccisi nella notte dagli stessi Indios. Nelle ore successive le zattere vengono violentemente trascinate via dal fiume. La situazione precipita, partono le diatribe interne: in una precisa scena emerge il personaggio folle, anche se inizialmente lucido, almeno all’apparenza, di Aguirre/Kinski. Approfittando di una situazione di caos che cavalcherà abilmente, inizia una guerra personale, accecato da una sua personalissima visione e narrativa.
Una guerra che, al contrario di Re mida, lo porterà a ridurre in cenere tutto ciò che toccherà e che causerà morte e sofferenza. Compresa quella di Flores, la sua stessa figlia (interpretata da Cecilia Rivera).
In questo brutale contesto, in cui non mancano neanche i cannibali, solo Aguirre si erge come unica fonte realmente coerente al viscerale elemento naturale. Ogni brama politica sollecitata è solo un mezzo che usa e sfrutta per i suoi istinti di egemonia. Una sorta di piano diabolico, semplice e divino allo stesso tempo, malriposto nella testa in frantumi del folle protagonista.
Una follia che si delinea come specchio del mondo, in una catarsi senza eguali e priva di indugi. Fino al suo atto finale, che non oppone alcun freno alla volontà di Aguirre il quale anzi continua, sino alla fine, a celebrare la sua conquista con gli unici interlocutori rimasti.
Non avendo certezze sulla figura privata di Kinski (su cui dovremmo fare avanti e indietro facendo una fatica colossale per inseguire prima le dichiarazioni gravissime di abusi sessuali sulle figlie e poi le testimonianze varie e molto positive di colleghi e amici) soffermiamoci qui solo sulla dimensione intima e puramente artistica.
Nel 1999 Herzog, a coronamento di un percorso professionale e forse anche per passare un altro po’ di tempo in compagnia del suo attore-feticcio, dirige un bellissimo e asciutto film-documentario chiamato “Kinski, il mio nemico più caro“(Mein liebster Feind-Klaus Kinski).
Non si può parlare di uno senza citare l’altro, e nessuno dei due avrebbe raggiunto nuovi orizzonti senza la spinta (letterale, in certi casi) dell’altro.
Ascoltando le numerose interviste ci si accorge come loro, separati, non riescono a resistere senza nominarsi e fanno emergere aneddoti di situazioni che ben poco hanno a che fare con un film o un progetto in comune.
Breve antologia che certifica il celebre tatto e la moderata schiettezza di Kinski:
“Mai più, non lavorerò mai più con te! Non vali nulla come regista, niente!”
“Ti spaccherò la faccia, continua da solo a filmare la tua merda!!”
“Non posso andare da nessuna parte, non puoi allontanarti da questa giungla di merda perché sono pagato, sta nel contratto che ho firmato e quindi devo stare qui per forza”
“Il cibo fa schifo qua, non si può mangiare nulla!!!”
Kinski sbraita contro Herzog, che quasi mai risponde. È splendido vederlo sproloquiare nel suo one man show teatrale “Jesus Christus Erlöser”, visibile in un documentario del 2008 diretto dal regista Peter Geyer, e dove Kinski vomita perle per una folla divertita e incazzata.
Seduto sul divano sono rimasto serio, concentrato e rispettoso nel sentir parlare Herzog con i lucciconi agli occhi e la voce stanca, ma strabordante di gratitudine verso l’unica persona che gli avesse insegnato davvero qualcosa.
Insegnato a lottare, a soffrire, ”perché nessuno dopo mille notti insonni ti viene a chiedere come stai o come sei riuscito a portare avanti e concludere il lavoro”.
Certo, vale per tutti i mestieri, ma troppo spesso l’ottusità diffusa ritiene meritevole di buon giudizio solo ciò che è tangibile, misurabile, concreto. Poi sono tutti bravi a stringerti la mano o a chiederti favori quando incassi e il tuo nome diventa famoso. Mentre parli, pensi o componi, sono in pochi a sostenerti, a darti fiducia, tempo. Un tempo vero e prezioso. Questo intende dirci Herzog, in modo molto sobrio ma sentito, con una sincerità che buca delicatamente lo schermo. Una figura enigmatica, quella del regista tedesco, un uomo anarcoide, con un bisogno represso e infinito di dimostrare di poter sopravvivere in un mondo fittizio. Lo faceva attraverso la sua arte che, non a caso, è inclassificabile e struggente. Un’arte che lievita tra la vita e la morte, Aguirre, e in cui si spiega il necessario rapporto con Kinski.
Da sempre interessato a zone altre della persona e al confronto con una natura totale, divina e distruttiva, Herzog, com’è risaputo, è anche un grande documentarista: quale “territorio” migliore, allora, del folle interprete tedesco per esplorare, attraverso la creazione, gli orizzonti dissennati dell’umano?
Citando Andrej Tarkovskij nel un suo meraviglioso libro “Scolpire il tempo”, fare film e farlo intriso di poesia è un’osservazione della vita. Ed è proprio questo, ruotando nell’aria il dito in punti imprecisati, il segreto dei grandi registi. L’immagine cinematografica è l’osservazione di uno o più fatti nel tempo.
In Aguirre, furore di Dio tutto si fonda su un incipit essenziale, scarno e allo stesso tempo puro e sanguinant, e ci sei dentro, ci sei in modo pesante. Se Herzog voleva incanalare la sua emotività furiosa e immaginifica, facendola scazzottare con l’orrido e l’ignoto, c’è riuscito appieno. Fa sorridere e stringere il cuore sentirlo parlare in occasioni pubbliche o in incontri molto intimi, con poche persone, di quegli anni difficili ma molto produttivi e formativi.
C’è un vento selvaggio che è tenuto a bada, ora. La natura è a riposo e le zattere sono ferme. Non ci sono indigeni che sparano dardi avvelenati e l’acqua del fiume è ferma. Non ci sono telefonate o litigi per le ore e ore di trucco esasperanti o tende bucate dove poter dormire prima di ripetere per la centesima volta una scena.
Calma, ma non una calma piatta. Non ci sono grida e urla, ma solo i rumori dei tecnici che stanno rimettendo a posto cavi e attrezzature varie. Si ritorna a casa in canoa a fine riprese. Tutti tranne Kinski, che si è liberato e fatto portare via dal vento, alzando le mani come un bambino.
“Io non interpreto, io sono Aguirre, Nosferatu, Fitzcarraldo, Woyzeck”
Nel finale del documentario su Kinski, Herzog abbassa lo sguardo, come in mille altre interviste o chiacchierate, e scuote la testa con un sorriso melanconico. Immagino che voglia ancora che quel biondo con i capelli pettinati, con le cesoie in mano, gli urli qualcosa che lo scuota. E che gli dica che non capisce nulla di cinema. Vorrebbe giocare ancora un po’ con lui.
E noi, un po’ intontiti, impotenti e incantati, lo speriamo con lui, immaginando Kinski poco distante, a giocare con una farfalla che proprio non vuole lasciarlo.
*Domitilla Marzuoli è illustratrice di notte e ricercatrice umanistica di giorno. Si forma in Lettere Classiche e persegue il sogno di diventare educatrice umanistica. Cresce in un ambiente artisticamente fertile e, alla scuola della nonna scultrice, sviluppa la propensione creativa, immergendosi nella pratica materica dell’arte figurativa e pure della scrittura. Ama sognare e trasognare, illustrando ciò che le parole non sono in grado di esprimere: la caratterizzano l’uso crudo del colore, la semantica diretta e disinibita delle scene illustrate. Quando non scarabocchia cammina senza una meta o legge graphic novels accanto al camino con un buon Chianti.
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