Dalla banchina della stazione di Adlershof in direzione Mitte una schiera di caseggiati gialli e alberi percorre un lungo tratto, perdendosi verso Johannisthal (ex Betriebsbahnohof Schöneweide), dove la zona abitativa si dirada e le macchine sfrecciano lungo la Adlergestell.
Sopra la strada asfaltata e i tetti a spioventi si affaccia un cielo grigio scuro, pesante, gonfio di pioggia.
Dall’altro lato, in direzione dell’aeroporto Berlin Brandenburg, tramonta il sole di una giornata leggermente nuvolosa. Una luce rossastra rimbalza sui palazzi specchiati e sulle impalcature degli edifici in costruzione e insaporisce la terra smossa dalle scavatrici.
Adlershof è l’insieme di due mondi separati dalle rotaie della S-Bahn, uno a nord-est e uno a sud-ovest della stazione. Per quanto indipendenti, sembrano complementari nella loro presenza, consistenza ed essenza. A sud la città del futuro, a nord quella del passato. Da un lato le aziende e gli studenti e gli edifici all’avanguardia. Dall’altra le villette familiari, i pensionati, i fiorai, le chiese.
Tra le due aree quella che maggiormente contribuisce alla fama del quartiere è la più moderna. È sede di un parco tecnologico che conta circa 1.200 imprese e istituzioni scientifiche, di cui fa parte anche la Humboldt-Universität, con le facoltà di psicologia, geografia, informatica, matematica, fisica e chimica.
È una città della scienza a cielo aperto, un percorso tematico tra edifici particolarmente bizzarri, un incontro con un recente passato che per tutto il Novecento ha scavato nel futuro tramite la sperimentazione e la ricerca.
Per via della pandemia sembra ora lo sfondo di un quadro metafisico; mancano gli studenti, i clienti nei bar, i turisti del parco tecnologico. La sera è silenziosa, anche quando alcuni ragazzi si ritrovano al campo da basket e la gente fa la fila al Kaufland aspettando di recuperare un carrello.
Il forum universitario rimane calmo nonostante il traffico sulla Rudower Chaussee. La zona circostante è invece accesa dei soli rumori che vengono dalle impalcature dei palazzi in costruzione.
C’è un’ampia piazza con una piccola struttura al centro, un bar, che ora però sembra chiuso da un po’. Davanti ci sono due alte colonne squadrate i cui capitelli sono due teste calve e androgine, tagliate in dischi orizzontali. Si muovono, ma solo a volte, e il meccanismo non è particolarmente intuitivo. È un’opera d’arte cinetica, Kopfbewegung – Heads, shifting (2008), di Josefine Günschel e Margund Smolka. C’è un processo di meccanizzazione, programmazione, computerizzazione nell’arte che accompagna elegantemente il processo avanguardistico della tecnologia robotica e dell’intelligenza artificiale. I margini della creatività, ampliati dallo sposalizio di arte e tecnica, sembrano irriducibili nel quadro d’insieme di questo centro di ricerca.
Sul fianco destro della piazza c’è un edificio dalla facciata curva, laccata d’oro. Converge lo sguardo verso il campo da pallavolo e lo indirizza poi verso uno scenario surreale, dove da un capo all’altro del prato si confrontano componenti architettoniche uniche, il cui scopo a prima vista risulta misterioso. A destra, due alti cilindri con la base smaltata d’argento sono collegati da una struttura in cemento color crema. Gli infissi rossi fanno pendant con i tavolini in metallo e correlate sedie collocati di fronte all’ingresso.
A sinistra una facciata decorata da un motivo geometrico in colori alternati, cammello e bordeaux, fa da sfondo a un tronco di fungo senza cappello in beton brut. Una scala dalla ringhiera sottile gli circonda un fianco e termina sotto un’unica finestrella rotonda, che, a guardarla da lontano, sembra l’occhio di una strana creatura.
Nel mezzo, sparsi per il prato, ci sono quindici ellissoidi un tempo rossi, ora sbiaditi dal sole. Sono speaker, al momento inattivi, ma che, secondo progetto, dovrebbero riprodurre suoni catturati nell’istituto di ricerca aerospaziale (DVL) che qui ebbe sede a partire dai primi anni del Novecento.
Il primo velivolo a motore della Germania partì nel 1909 dall’adiacente aerodromo di Johannisthal (trasformato nel 2003 in riserva naturale).
Durante la prima guerra mondiale il centro di aviazione costituì un punto di riferimento importante per l’aeronautica militare tedesca. Cadde in declino poco dopo, riuscendo però a convertirsi, tra gli anni ‘20 e ‘30, in un set di produzione cinematografica, dando vita a circa quattrocento film muti.
Tale industria mantenne la sua importanza durante la Repubblica Democratica Tedesca, divenendo sede di parte degli studi di trasmissione della Germania dell’Est e centro di doppiaggio di documentari e film sovietici.
Ancora oggi, seppur non negli stessi edifici della prima produzione artistica di Adlershof – la maggior parte dei quali demoliti negli anni ’90 – vengono qui realizzati alcuni programmi televisivi diffusi a livello nazionale.
Il centro di ricerca aerospaziale venne rimesso in funzione ed ampliato durante il nazismo. È in questo periodo che vennero realizzati gli edifici che rendono architettonicamente unico il parco tecnologico: i tunnel di ventilazione (Großer Windkanal e Trudelwindkanal), una base insonorizzata per testare i motori degli aerei (Schallgedämpfter Motorenprüfstand) e un banco prova per l’altitudine (Höhenprüfstand für Motoren).
Nel 1945 il DVL divenne il punto centrale di raccolta sovietico per le tecnologie aerospaziali e missilistiche tedesche, mentre le strutture tecniche vennero smontate e trasferite in URSS. Durante gli anni della Guerra Fredda venne istituito un centro cosmologico, il quale fu poi riassorbito nel precedente centro di ricerca aerospaziale dopo la caduta del muro.
Lo sviluppo economico a livello industriale avvenne nel corso degli anni ’90 quando furono installate le prime sedi aziendali e universitarie, e fino ad oggi ha continuato il suo percorso con la costruzione della zona residenziale e l’insediamento di nuove start-up.
L’evoluzione della parte a nord-est della stazione è stata, seppur consistente, meno fascinosa o forse semplicemente meno pubblicizzata della parte a sud-ovest: si presenta oggi come una classica, ben curata, rispettabile zona residenziale, con molte aree verdi, parco giochi, reticoli di Kleingärten e un cimitero immerso nella natura.
È il nucleo originario di Adlershof – da Adler, aquila e Hof, cortile – che fu fondata ufficialmente nel 1754 sotto il regno di Federico il Grande. Era sede di una piantagione di gelso per la produzione della seta e prese il nome dalla strada principale, Adlergestell, che oggi costeggia la stazione. Venne annessa alla “Grande Berlino” nel 1920.
Verso ovest, al confine con Johannisthal, c’è un bosco enorme; è un labirinto di alberi altissimi, sentieri non tracciati e panchine nascoste fra i cespugli, capanne fatte di tronchi. Nella parte centrale c’è un Biergarten, preceduto da una pista da salto in lungo in disuso.
Si affaccia sul bosco una strada a ferro di cavallo, dove si può spiare dalle finestre la vita degli altri. C’è un tetto blu cobalto che spicca fra tutti, è lucido e si impossessa del sole anche quando è assente. Le villette sono quasi tutte a due piani, hanno il giardino, qualcuna la piscina, e sono piene di fiori. Escono dal cul de sac e si perdono tra le viuzze articolate dalla pavimentazione disconnessa. Si arrampicano l’una sull’altra, diventano palazzine basse, supermercati, negozi di fiori, chiese, Kindergarten.
La presenza dei bambini è intuibile da tutti i tappeti elastici, le altalene e le varie attrezzature delle aree di gioco per loro organizzate. Ma il brusio del loro rincorrersi è attutito dalle fronde degli alberi che traduce ogni suono nel cinguettio degli uccelli.
Rispetto alla parte tecnologica di Adlershof, la parte vecchia conserva ricordi più intimi a livello storico-culturale, che si mescolano con il nuovo volto tranquillo delle villette familiari.
Lungo Anna-Seghers-Straße si spalmano condomini color ocra di tre piani al massimo; si interrompono prima del civico 81, dove la scrittrice tedesca che dà il nome alla via trascorse gli ultimi anni della sua vita, fino al 1983 come riporta la targa accanto alla porta. La sua casa è ora un museo (al momento visitabile solo virtualmente) fatto di libri, macchine da scrivere e mobili tipici della DDR.
Dell’antica planimetria di Adlerhof sono rimasti alcuni edifici ottocenteschi, tra i quali la Alte Schule sulla Dörpfeldstraße, la via principale che porta a Köpenick, resa sede della Galleria municipale e della biblioteca statale Stefan Heym (chiusa per restauro). Ha in tutto e per tutto l’aspetto di un vecchio collegio austero e rispettabile, costruito con i mattoni rossi tipici di tanti edifici storici di Berlino.
Così anche doveva apparire un tempo la struttura grande e compatta che si incontra tornando verso la Adlergestell. Due torri spiccano sulla facciata sud-ovest; il corpo ricorda quello di una cattedrale, ricoperto sulle fiancate di lesene e archetti a muro. È la ex fabbrica di liquori VEB Bärensiegel, conosciuta come Schnapskirche von Adlershof, la chiesa degli alcolici. Durante la DDR fu uno dei maggiori centri di produzione di alcol, ma cadde in disuso appena dopo la fine della Guerra Fredda.
Oggi è un negozio di mobili, affiancato dalla sede di una catena di prodotti di giardinaggio, un Mc Donald’s e una pompa di benzina. L’area commerciale si è mangiata il suo contesto di edificio storico, che adesso quasi sembra svanito, in qualche modo ridicolizzato.
È ad ogni modo parte del nuovo assetto del lato est di Adlershof, che si estende fino alla stazione.
La stazione di Adlershof è forse la parte più affollata del quartiere, nella sua funzione di spartiacque tra i due mondi che qui convergono. La banchina sopraelevata li individua bene, li osserva dall’alto e ne promuove un paragone, un confronto, nell’attesa che arrivi il prossimo treno.
E quando i treni arrivano, ripartono sfrecciando, da un lato e dall’altro, fendendo l’immagine di altre colonie, altri giardini, altre ville con il tetto a spioventi, e altre aree verdi che piano piano vengono divorate dalla smania costruttiva.
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