Illustrazioni di Domitilla Marzuoli*
Victoria
Germania, 2015
Regia di Sebastian Schipper
E pensare che non doveva nemmeno esserci, Victoria.
Berlino. L’anno non importa.
È notte fonda, interno di un club.
Una serata apparentemente come tante. Ci appare una ragazza, con cui empatizziamo subito, la vorremo già stringere, tenere per mano. Proteggerla. Perché (e qui il primo pregiudizio, il primo di vari, destinato a sciogliersi) temiamo che qualcuno possa farle del male, date le condizioni.
Ci sono almeno tre film diversi in uno, in Victoria. Un lavoro pieno di strappi, ma che bisogna correre a vedere. Si resta smarriti e un po’ stanchi, chiamati a uno sforzo fisico ed emotivo. Girato in un unico piano sequenza di 140 minuti, a Victoria si resta incollati con lo sguardo, la testa, la pancia, e anche il cuore, per una storia che non subisce mai interruzioni di montaggio.
Victoria, una ragazza di Madrid, si presenta alla più classica delle serate in un club in uno stato di mezza solitudine, come quando non si è troppo convinti di qualcosa, ma si resta ostinati nel non pensare, finendo poi a pensare troppo. Con quello sguardo attraente, dolce e malinconico la nostra protagonista esce dal locale e si imbatte in un gruppetto di ragazzi tedeschi.
Il più insistente, ma anche il più gentile, è Sonne, che convince la ragazza a unirsi al gruppo. Victoria accetta e incomincia a vagare con i nuovi amici. Oltre a Sonne, c’è Boxer, la testa calda, con un passato in carcere, sempre pronto a cercare rogna, Blinker, lo “scoppiato” dei fantastici e disperati quattro, e Fuss, che si presenta fatto e brillo al pronti via.
Sembra solo una notte imprevista e divertente, tra alcool e fumo, e tra Sonne e Victoria nasce una piccola intimità. I due, si conoscono e (ri)-conoscono, scambiandosi con una genuinità meravigliosa, nella scena forse più bella di tutto il film, quella del pianoforte, confessioni, sogni, il racconto ubriaco ma autentico di una vita. Come faremmo tutti, come abbiamo fatto tutti nella vita reale.
Ma è solo una candela, che a breve si spegne. Ben presto il gruppo di ricongiunge e il film cambia registro; si corre, si ha paura per questi ragazzi e tramite gli occhi di Victoria assistiamo a poco più di due ore di timori, poi attimi di gioia e quindi ancora dolore. Victoria diventa donna perché il destino le ha preparato una notte che sarà la sua rinascita, la notte che le farà cambiare pelle.
Quello del regista, della troupe di questo film, è uno sforzo al limite dell’umano, una prova muscolare la cui gran parte del fascino è merito dell’operatore Sturla Brandt-Grøvlen e degli interpreti, tutti straordinariamente calati nella parte e disponibili allo sforzo (in particolare la protagonista, sensuale ma mai compiaciuta, Laia Costa, e Frederick Lau nei panni di un sensibile e simpatico Sonne). Due giovani guerrieri, seppur diversi nei modi, nelle reazioni ai fatti che si susseguono.
Una fatica bestiale, che scorre sullo schermo con una leggerezza che nasconde magistralmente la concentrazione e il senso di responsabilità, la pressione che questi ragazzi hanno gestito, sapendo di avere tre possibilità, oltre le quali si sarebbe girato secondo il piano b, che prevedeva una serie di riprese classiche. Grazie alla dedizione, al carisma e alla leadership evidente del regista, tutti i ragazzi hanno partorito quello che rimane un capolavoro dei tempi moderni. Per la scrittura, per la sua coerenza, per la forza emotiva e la solidità del comparto tecnico, che vanno a braccetto con le performance attoriali, così sincere, così nervose. I sorrisi, i ricordi, le lacrime, le speranze, le chiacchiere in un miscuglio di lingue diverse, i baci, gli spari sopra, gli spari sotto, le urla, tante urla. Poi lo scoprirsi, l’aiutarsi, il dolore. L’aiutarsi ancora.
Nel vortice prolungato del piano sequenza, prima notturno, precisamente dalle 4 del mattino, e che cresce poi fino al crepuscolo delle 6, Schipper individua il modo per destabilizzare e rendere più viva una trama che, sulla carta, guarda al noir. L’impressione è che quest’evidenza delle scelte linguistiche depotenzi il film dalla sua oscurità metropolitana, dalla disperazione della sua “wasteland” giovanile, virando e sorprendendo ancora per la terza volta, nella parte finale, verso l’estetismo più puro, per nulla ruffiano, esausto e quasi onirico. L’ultima tappa di una corsa di oltre due ore iniziata al trotto più sereno del mondo. Tutto appare ben congegnato e lineare, ma ci sono delle sorprese che producono le condizioni ideali per far intelligentemente scattare le frizioni che segneranno la storia. A quel punto è come se tutto, improvvisamente, cambiasse di segno: l’apparente vocazione realistica delle scelte estetiche, quello stare addosso ai corpi, dentro le storie e la loro struttura nervosa, si trasforma nella stilizzazione più assoluta, dando vita a una sorta di astrazione di dinamica futurista. C’è una delicatezza che non abbandona mai la storia, seppur con tutti gli ostacoli che si pongono dopo la prima dolcissima parte, strappi che spazzano i giovani nell’abisso, nella perdita della felicità appena assaporata.
Victoria non esisteva neanche nel primo abbozzo di sceneggiatura, 12 pagine scarse che Sebastian Schipper aveva preparato mentre immaginava il film. Doveva essere un lungometraccio su una rapina, e intitolarsi “Uberfall”. Il personaggio di Victoria è nato durante le prove, si è plasmato con l’improvvisazione dei dialoghi, dei gesti, degli sguardi, nutrito dal feeling tra lei e i gli altri quattro protagonisti, sullo sfondo una città da cui la ragazza, sola e sconsolata, non si sente del tutto accolta. Quella di Victoria è una realtà che ha delle sembianze che seducono e cullano, quasi si materializzassero le angosce e le sofferenze del vissuto che tutti noi conosciamo di Berlino, un composto di malinconia e voglia di continuare a vivere. In questo senso, finalmente, Victoria è un film dove è presente un po’ di empatia, un’empatia contagiosa.
Il film rilancia il piacere e l’importanza dello scherzare, del ridere in modo fresco e innocente, dell’ascoltare. Si ha timore che questa ragazza venga maltrattata da quattro ubriachi molesti, mentre è meraviglioso scoprire il dirimersi di questo incontro, conoscere Victoria a poco a poco, guardandola in ogni suo movimento, mentre, senza paura, accetta di seguire quattro sconosciuti per le strade deserte di Berlino, nelle ore che precedono l’alba.
In modo minimale questo lavoro è costantemente accompagnato da momenti musicali perfettamente incastonati nel flusso narrativo delle sue infinite bolle in sospensione, tutte attaccate tra di loro. Agli strumenti classici si aggiunge il synth, magnifico, inserito in sequenze che vorresti non finissero mai. Archi, piano e silenzi adagiati tranquillamente in scene apparentemente dissonanti, come un giro in bici o passeggiate dove i ragazzi passano da un posto all’altro.
Ma mentre il cielo si rischiara, di colpo tutto viene interrotto: ecco spalancarsi l’inferno. Una rapina che i compari di Sonne devono compiere all’alba e in cui coinvolgono Victoria, a sua insaputa. La ragazza reagisce con timore nei primi momenti, poi come complice mai troppo spaventata o scomposta, persino moderatamente benevola, infine come leader carismatica.
Tutto troppo bello per essere vero. Si cambia bruscamente di ritmo, con la telecamera fissa sui ragazzi in caduta libera nell’oscurità, come dentro un barile che rotola sempre più veloce. La seconda parte è un susseguirsi di scene che spaziano tra il thriller e l’azione, con una creatività e un ritmo spettacolari, eppure così reali. Dobbiamo ricordare che non esiste nemmeno una frazione di secondo di stacco. La camera non smette mai di inquadrare i ragazzi e tutto quello che a loro succede e che loro stessi fanno accadere.
Scene di interni, salite verticali, riprese statiche o in movimento, dentro e fuori le auto, dentro e fuori la follia dell’insospettata piega degli eventi, una storia superba, che mozza il fiato, che spaventa e infine provocare dei dubbi, a volte può sembrare di percepire un inciampo, un’ingenuità nella sceneggiatura. E invece no, assolutamente no: tutti i dubbi vengono spazzati via dalla forza emotiva e dalla convinzione con cui i giovani attori si muovono dentro le vicissitudini, per il modo in cui credono, fino all’ultimo secondo.
Victoria è una storia al servizio della quale è la tecnica, oltre alla partecipazione corale degli interpreti. a farsi prodigiosa, e non viceversa. La frenesia, poi, ha le sue pause; il regista tedesco è eccezionale nel rimanere attento e lucido nel mantenere uniti i personaggi. Non c’è tempo, non serve. I rapporti si fanno sempre più saldi, dentro Victoria ci si salva la vita continuamente e reciprocamente. Credendo sempre nel prossimo. Non c’è nessuna ruffianeria, ma la sincera voglia di provare emozioni vere, profonde e l’incapacità dovuta all’assenza di riferimenti, che siano familiari o fuori dal nucleo, di affrontare il mondo violento e crudele senza scappare o spaventarsi, convincendosi che non si possa in fondo, essere felici, se non per pochi e brevi momenti. E anche nel dramma, nei momenti peggiori, che senso ha stare male, se non lo puoi condividere? Se non lo puoi gridare agli altri, a chi tiene a te? Non c’è possibilità né di guardare indietro, né davanti, ma solo quello che succede adesso, nel presente.
Mi domando, e chi guarda si domanda, perché ci si possa emozionare così tanto di fronte a questo film, che è struggente e fa rabbia “perché non dovrebbe andare così”. L’educazione alla tristezza è pervasiva e la schifiamo, la respingiamo, allora Victoria ci piace per questo, perché è pulita, un pizzico incosciente ed esplora, e ci aiuta ad esplorare con lei, tutti i sentimenti possibili. Ci piace perché non ci siamo abituati più, a questo esercizio emotivo. In questo mondo da apparato gastro-industriale, ci si è adeguati al ribasso, generalizzando e semplificando lo scenario.
Victoria è un film delicato, che viaggia a 300 all’ora sui sentimenti, mantenendone sempre il controllo, il pudore. Un caos non calmo, ma equilibrato, senza mai un solo patetismo. Un unico piano sequenza, nudo e crudo, vero e senza soluzione di continuità, senza artifici stilosi, niente a che fare con certe giostre destinate all’inerzia, nulla da spartire con tante opere pseudo-intellettuali al limite della disonestà. Qui c’è una regia serrata e dinamica, che semina momenti di dolcezza purissima in un dramma, che dramma non doveva essere mai. Qualcuno ha scritto che la tecnica virtuosa del regista Sebastian Schipper immerge e non distrae: è questo il cinema, è questa la grande illusione che non deve mai venir meno, quasi una missione, più che un mestiere.
E pensare che nei primi due tentativi il regista non voleva essere nemmeno presente alle riprese, per non mettere sotto pressione gli attori. In questo caso invece, al terzo film, decide di prendere in mano la situazione e di guidare il gruppo. Victoria è l’eterno prodigio che di tanto in tanto si materializza davanti agli occhi, poche volte come in questo caso sotto sano sforzo, dei fortunati testimoni. Un privilegio che commuove e carica, obbligando a lasciarsi andare, per sentirsi forti perché vivi, perché presenti a sé stessi e agli altri. Ecco perché Victoria ci piace così tanto: perché ha fiducia nell’essere umano.
Non scappa dai ragazzi appena uscita dal club, ma sente che può fidarsi.
Non scappa quando potrebbe, perché è coinvolta e non abbandona chi l’ha “vista” quando era invisibile.
Non rimane mai a metà campo, Victoria va a rete o torna a fondo. Prende sempre posizione. Ma mai a metà strada, mai spiazzata. Sempre pronta a reagire. A provarci, almeno.
Citando un bellissimo libro, “Arcipelago N”, di Vittorio Lingiardi, i narcisi, coloro che sono privi di empatia e quindi manipolatori per necessità, si guardano allo specchio e vedono solo se stessi. Non c’è nessuno accanto a loro, e sono a posto così. Victoria davanti allo specchio vede se stessa. Unica, certo, come dobbiamo sentirci tutti noi, ma con accanto a lei tantissime altre persone. Sono così tante che non si colgono i volti, ma sorridono tutte.
Pensare che non doveva nemmeno esserci nel film, Victoria.
*Domitilla Marzuoli è illustratrice di notte e ricercatrice umanistica di giorno. Si forma in Lettere Classiche e persegue il sogno di diventare educatrice umanistica. Cresce in un ambiente artisticamente fertile e, alla scuola della nonna scultrice, sviluppa la propensione creativa, immergendosi nella pratica materica dell’arte figurativa e pure della scrittura. Ama sognare e trasognare, illustrando ciò che le parole non sono in grado di esprimere: la caratterizzano l’uso crudo del colore, la semantica diretta e disinibita delle scene illustrate. Quando non scarabocchia cammina senza una meta o legge graphic novels accanto al camino con un buon Chianti.
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