Una betulla di nome Aleksandr
Gennadij Ajgi
INTRO
Sei nel foyer del Radialsystem, un budello lungo e stretto con cemento a faccia vista. Dal tuo sgabello domini l’entrata, che senza fermarsi butta dentro persone.
Radialsystem ti sembra un nome bellissimo per uno spazio dedicato all’arte, anche se in realtà si riferisce al sistema di drenaggio di Berlino realizzato alla fine del XIX secolo. L’edificio che oggi porta questo nome era una delle dodici stazioni di pompaggio e ha pompato acqua fino al 1999. L’architetto Gerhard Spangenberg lo ha restaurato, ha conservato le facciate in mattoni rossi con finestre serliane e fregi in laterizio e le ha avvolte in semplici volumi di cemento e vetro.
Il Radialsystem è una delle tre sedi del festival di musica, danza e teatro VOICES, organizzato da Sergej Nevskij e Marina Davydova e dedicato alle artiste e agli artisti dello spazio ex sovietico. Tra poco comincerà un concerto di musica contemporanea, uno degli eventi più importanti del festival. Intorno a te vola qualche parolina di inglese e di tedesco, ma solo per comunicazioni secondarie e meccaniche: qui vige la lingua russa, sei in uno spazio culturale russofono, sei tra il Baltico e il Pacifico.
Il foyer si è ormai riempito. Dal bar urlano in tedesco che il bicchiere di vino rosso è pronto, ma nessuno viene a reclamarlo.
OB AUS LUFT
Entri nella sala e trovi un posto libero nelle prime file sulla sinistra. Un tale si avvicina al palco e avverte in tedesco che la pianista che doveva suonare nella seconda parte ha dato forfait all’ultimo, poi entrano il soprano Maja Bader e il pianista Leonhard Dering, che eseguiranno Ob aus Luft, musica di Boris Filanovskij su testo di Marija Stepanova.
Stepanova è uno dei maggiori poeti viventi di lingua russa (lei si definisce poeta e non poetessa). Ha vinto una caterva di premi letterari (solo nel 2023 il Leipziger Buchpreis e il Berman Literature Prize, in Italia è pubblicata da Bompiani). Ob aus Luft è la traduzione tedesca del titolo della poesia, Esli vozduh, Se l’aria (tratta dalla raccolta del 2020 Staryj mir), trentatré strofe, di cui Filanovskij ha musicato trentuno.
Filanovskij: «Per me era importante ottenere diversi accostamenti tra le parti: contrasto, continuazione, somiglianza, coerenza di tema, ecc. Quando hai trentuno parti, non possono che riunirsi in macrostrutture e tu devi controllarle e farne un parametro di composizione. Allo stesso tempo ho cercato l’unità totale grazie al contrappunto.»
Bader è piccola. Ha una massa gigantesca di bellissimi capelli castani e ne ha raccolto una palla sopra la testa. Dering invece è altissimo e magrissimo. Ha un cespuglio di ricci sale e pepe in testa ed è così pallido da sembrare incipriato.
Sul pianoforte Dering posa cinque fascicoli di partitura. I primi due volano. Al terzo il pubblico tiene duro, anche se vedi qua e là bagliori di schermi accesi. Il quarto fascicolo non finisce mai.
Filanovskij: «Mi mancano completamente il remplissage e la figuratività. Mi sono avvicinato al testo con la stessa misura di formalismo e distacco con cui sono scritte le messe rinascimentali. Per me questo era l’unico modo di avvicinarmi alla poesia di Stepanova.»
Ti viene in mente una sera di trent’anni fa. Eri al primo anno di università e attraversavi a piedi le sere invernali di Roma, umide e sguaiate, per andare I miti, un piccolo locale di Testaccio che oggi non esiste più e che allora ospitava una rassegna di poesia. Tra impiegati della pubblica amministrazione tormentati e professoresse di liceo in pensione, conoscesti anche veri poeti, come Lucianna Argentino, Francesco De Girolamo e il compianto Massimo Miccoli. Una sera si esibì uno che scriveva composizioni con una sola vocale per volta (ti ricordi solo il titolo di quella con la I: I gingilli di Lilli). Poi fu il turno di una donna accompagnata da un musicista con tastiera (un piano a coda non avrebbe fatto assolutamente scopa con il côté esistenzialista de I miti, oltre a non entrarci). L’esibizione non ti piacque e, non sai più perché, invece di restartene nel tuo angolino, chiedesti la parola con in testa un’espressione di Gianfranco Fini sentita in televisione: «esprimo il più netto dissenso». Il dissenso lo esprimesti: la donna ti chiese chi ti mandasse e confessò al pubblico di essere perseguitata da una banda di haters (non usò questa parola, che ovviamente allora nessuno conosceva, ma un’altra che non ricordi più).
Dering attacca il quinto fascicolo e accade il miracolo: come quando ti riavvicini alla superficie del mare dopo aver nuotato in apnea sott’acqua e non vedi l’ora di respirare, ma pensi al tuffo, alla concentrazione, al rilascio controllato d’aria e allo sforzo per fare un in metro più della volta precedente e vorresti che ci fosse ancora aria nei tuoi polmoni e ancora forza nelle tue braccia e gambe, così senti dentro di te il rammarico, se non il panico, per la prossima fine dell’esecuzione. Gli spettatori sono immobili: chi siede eretto, chi è chino in avanti a cogliere la minima vibrazione sonora prodotta da Bader e Dering.
Filanovskij: «In Esli vozduh Stepanova cerca tracce dei propri cari defunti intorno a sé – nella natura, nella città e nei viaggi – e ne trova ovunque. È una forma di animismo pagano, che viene preso come punto di partenza per l’espressione del dolore più profondo. Non a caso l’autrice ha messo in esergo un verso del poeta russo-ciuvascio Gennadij Ajgi (il popolo ciuvascio ha conservato finora il culto degli antenati e l’animismo). Allo stesso tempo, la voce di Stepanova è estremamente sobria, è un sussurro, manca assolutamente di pathos. La sento molto vicina, sia come musicista, sia come essere umano e ho provato a restituirla nella mia composizione.»
Sei prigioniero in una bolla di dolore e oppressione che la musica ha gonfiato intorno a te. Sei sotto la volta di una notte dell’Asia centrale. Bader e Dering ti guidano come Džaqyp Qulan guida Čičerin alla quête della Luce kirghisa ne L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon, ma come Čičerin fallisce nella ricerca, così la fine della composizione ti impedisce di togliere dagli occhi l’ultimo velo.
PAUSA
Nonostante sia domenica pomeriggio, si respira l’aria compiaciuta del mercoledì sera, quando la metà della settimana lavorativa è scavalcata e sei in vena di follie. Non a caso i finlandesi, che in tema di etilismo non hanno niente da farsi insegnare da nessuno, chiamano il mercoledì pikku lauantai, piccolo sabato.
Nel foyer, l’alcool pompato nelle gole e negli stomaci drena la cantina del bar di vino e birra e lo spazio si riempie di risate e chiacchiere ad alta voce.
SECONDA PARTE
Torni al tuo posto e il tale che prima dell’esecuzione di Ob aus Luft ha detto in tedesco che la pianista della seconda parte ha dato forfait, lo ripete in inglese, segno che in sala gran parte del pubblico non parla tedesco. Subito dopo attacca un vocione alle nostre spalle.
È il basso-baritono Nicholas Isherwood, che esegue un canto tradizionale georgiano, Urumli. Isherwood attraversa la sala a passi lenti, tenendo un cero accesso. La musica è solenne e crea un’atmosfera di attesa. Pensi ai banchetti dipinti dal pittore georgiano autodidatta Niko Pirosmani, che ha rappresentato uomini immobili attorno a tavole imbandite. Sembra che basti un gesto o una parola fuori posto per scatenare una rissa al coltello e far scorrere il sangue.
Il secondo pezzo è di un compositore lituano contemporaneo, Imants Mežaraups. È una dichiarazione d’amore naïve. Con la testa sei rimasto in Georgia, chiudi gli occhi e vedi il ritratto dell’attrice Margarita, di cui Pirosmani era follemente innamorato e che ha dipinto come ipostasi della purezza asessuata.
Il terzo pezzo è di una compositrice estone, che non capisci e ti annoia.
Con il quarto torni in Georgia e ascolti una composizione di Eka Chabashvili ispirata a Franz Kafka. Oltre alla voce, Isherwood suona un triangolo, un tamburo e un piatto. Comincia con la percussione del triangolo, che ti ricorda i rintocchi di una campana, poi produce con la bocca dei suoni che ti fanno pensare al vento. Forse nelle intenzioni dell’autrice era la rappresentazione di una notte praghese, ma vieni trasportato in quella di un paesino italiano di pietra grigia aggrappato a un colle. La produzione sonora di Isherwood prosegue: senti gatti in amore che si rincorrono per i tetti, poi il motore di una Vespa che non ne vuole sapere di ingranare e un’Ape Piaggio che gira nell’oscurità, in lontananza. Arriva l’alba, l’Ape Piaggio continua a girare e la Vespa a non partire. Soffia ancora il vento tra i vicoli del paese. Isherwood recita varie volte l’alfabeto. Sarebbe la decostruzione dell’opus kafkiano? Tra il pubblico, chi ride, chi si tura le orecchie.
Appena l’esecuzione termina esci, anche se mancano ancora cinque pezzi. Non fai in tempo a sentire se Isherwood riceva applausi o fischi.
Immagine di copertina copyright di Andrei Natotcinskii
REDAZIONE
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