Immagino il suono, un brusio indistinto simile a quello di un enorme alveare. La bandiera della propria nazione ad indicare la direzione verso la luce esterna; il percorso che si snoda attraverso tunnel scuri, illuminati solo da piccole lampade a forma di torcia. Il brusio aumenta di intensità, si trasforma lentamente in un boato, nella voce di una moltitudine. La luce finalmente si apre, accecante. I tunnel sono finiti: davanti agli occhi una pista di atletica nuova di zecca. Tutto intorno centomila persone festanti salutano con la mano destra ben tesa sopra la testa. Ovunque lo sguardo possa arrivare, la svastica. In alto sui pennoni sventolano le bandiere delle quarantanove nazioni partecipanti alla XI Olimpiade. Un giovane atleta vestito di bianco percorre lo stadio con una corsa ad ampie falcate e sale con slancio i gradoni che conducono a una terrazza con un enorme braciere; con la torcia che tiene in mano lo accende. La fiamma divampa senza esitazione alcuna.
Al centro della tribuna un uomo dalla divisa bruna saluta i partecipanti, lo stadio e il mondo intero.
È il 1 Agosto 1936 e quell’uomo è Adolf Hitler.
In venticinque locali della capitale tedesca gli spettatori che non sono riusciti ad ottenere un biglietto per lo stadio stanno assistendo davanti agli schermi a una delle prime trasmissioni televisive in diretta della storia. E’ il trionfo dello sport, dell’estetica e della propaganda messa in atto da Josef Göbbels, ministro del Reich. E’ la sconfitta del Comitato Olimpico Internazionale e delle nazioni partecipanti, incapaci di opporsi e boicottare un evento meticolosamente pianificato per esaltare la Germania hitleriana.
Il magnificente palco di questo spettacolo è uno stadio massiccio, costruito nella periferia occidentale di Berlino. Sorto sulle fondamenta del vecchio Deutsches Stadion, l’Olympiastadion è il teatro dei sogni nazisti e dei futuri incubi del mondo intero.
La Germania si era preparata più di vent’anni prima ad ospitare i giochi olimpici: se la guerra non le avesse fatto un drammatico sgambetto, la manifestazione si sarebbe svolta nella capitale tedesca già nel 1916. Lo stadio era pronto, progettato nei primi anni del ‘900 dall’architetto Otto March e volutamente sprofondato per ben dodici metri nella sabbia dei terreni boscosi di Grunewald. Mancava solo l’inaugurazione ufficiale, ma centinaia di chilometri di trincee, fango, gas mostarda e dieci milioni di morti rovinarono la festa.
E allora sarà per la prossima volta, cara Berlino: ci rivedremo in tempi migliori.
Peccato che l’ottimismo nella prima metà del ‘900 fosse un sentimento molto mal riposto. Nel 1933 il mondo è di nuovo sull’orlo dell’abisso, ma in Germania si festeggia sotto la svastica e, contemporaneamente, si pianifica nei minimi particolari la futura Olimpiade. Il Deutsches Stadion è insufficiente a ospitare le folle che il regime nazista si aspetta e chi meglio di un March potrebbe occuparsi di esaudire le richieste del governo? Il patriarca Otto è morto da molti anni e per rimettere mano all’opera familiare vengono convocati i figli Werner e Walter.
All’atto pratico sarà il solo Werner a rapportarsi con l’Architetto con la A maiuscola del partito nazista: Albert Speer.
Il Generalbauinspektor aveva idee ben chiare su quello che sarebbe stato l’aspetto architettonico della capitale del Reich una volta conquistato il mondo: una città possente, ben piantata su delle robuste gambe di travertino e marmo. Una metropoli capace di lasciare rovine monumentali anche secoli dopo la sua caduta, come l’antica Roma. In realtà tutto il marmo delle cave del mondo non sarebbe bastato per le megalomaniche idee di Speer, ma questo lo sappiamo noi adesso. Nel 1936 Albert e il Führer giocavano con il loro plastico, ignari di tutto.
La proposta di Werner March per il nuovo stadio era un progetto avveniristico fatto di vetrate e ampi spazi, ma le pressioni di Speer lo convinsero a ripensarci: meglio qualcosa di più imponente. E così fu.
Il nuovo campo fu lasciato sprofondato nel terreno, le solide tribune, innalzate per raggiungere l’enorme capienza di 110mila spettatori, costruite usando pietra calcarea e travertino.
L’Olympiastadion era il fiore all’occhiello di un vastissimo quartiere olimpico che comprendeva anche il Maifeld, un enorme gigantesco erboso retrostante la maratona dello stadio, una piscina, un anfiteatro di ispirazione greca antica (la Waldbühne) e numerosi altri impianti dedicati a tutte le discipline sportive presenti all’Olimpiade.
Ci sono milioni di salti ritratti nella storia fotografica delle Olimpiadi. Quello di Jesse Cleveland Owens è, tecnicamente, come molti altri. È il 4 agosto 1936 e si sta disputando la finale della gara di salto in lungo; durante il balzo lo sguardo di Owens appare concentrato, gli zigomi tirati per lo sforzo, la mano destra fende l’aria mentre la sinistra è chiusa come se stesse stringendo qualcosa. La gamba sinistra si prepara a toccare la sabbia per prima, la destra è ancora piegata. I muscoli dell’atleta si possono quasi contare uno per uno.
Il volo dura pochi millesimi di secondo ma, come dirà qualcuno molti anni dopo (e parlando completamente di altro), è “un gigantesco balzo per l’umanità”. Intorno a lui l’Olympiastadion intero sta assistendo alla demolizione del mito della razza ariana. Quando il salto si conclude, Owens avrà al collo il suo secondo oro olimpico.
Il giorno prima le convinzioni naziste avevano già mostrato le prime crepe: Owens aveva stravinto la gara dei 100 metri come se fosse un semplice allenamento e qualche brivido aveva iniziato a percorrere la schiena dei presenti in tribuna d’onore. Possibile che la stessa propaganda nazista si stesse rivelando un boomerang? Le onnipresenti telecamere della regista Leni Riefenstahl, posizionate per riprendere chiome bionde ondeggianti al vento e pallide muscolature, stavano immortalando toni decisamente troppo scuri. Parafrasando Humphrey Bogart in “Quarto Potere”: “Questa è la televisione, bellezza. E tu non puoi farci niente”.
Owens si prepara a conquistare la ribalta anche nel salto in lungo. Ma durante la qualificazione alla finale qualcosa sembra non andare: i primi due salti sono nulli, i piedi dell’americano si staccano oltre la linea consentita e i giudici fanno il loro inflessibile dovere. Ma di questa storia è protagonista anche un ariano, seppur non nel ruolo pensato da Göbbels. Poco prima del terzo e decisivo salto, il principale avversario di Owens gli si avvicina: è il tedesco Carl Ludwig Hermann Long, Luz per gli amici.
Long è alto, slanciato, biondo, con gli occhi chiari e indossa una divisa immacolata. E’ bianco, che più bianco non si può.
Confabula con Owens, poi si avvicina alla pista e posiziona per terra un fazzoletto, trenta centimetri prima della linea di salto; l’americano poco dopo prende la rincorsa e stacca i piedi esattamente all’altezza del fazzoletto. Il consiglio di Long è quello giusto: il salto è valido, Owens si qualifica per la finale.
Trenta centimetri hanno fatto la differenza tra una sconfitta e un successo. Trenta centimetri hanno rafforzato un’amicizia nata durante i Giochi e cancellato una manciata di pregiudizi razziali.
Il giorno dopo l’americano vincerà l’oro nella finale, il tedesco sarà medaglia d’argento.
Gli stessi trenta centimetri sono (probabilmente) costati la vita a Long: il suo gesto non viene dimenticato e lo status di atleta di punta della Germania nazista non basta a fargli evitare il fronte. Il 14 Luglio 1943 si trova insieme al suo reggimento di artiglieria in Sicilia, a difendere il piccolo aeroporto di Biscari (oggi Acate) dagli Alleati. Muore lontano dagli applausi degli stadi, forse ricordandosi solo di quel brusio imbarazzato dei centomila dell’Olympiastadion. E dello sguardo sconvolto della tribuna autorità.
La stessa guerra che aveva ucciso Long due anni dopo arriva anche a Berlino, riducendola a uno spettro di macerie ed edifici in fiamme. L’Olympiastadion è miracolosamente risparmiato dallo scempio ad eccezione della Glockenturm, la torre che ospitava la campana che aveva annunciato l’inizio delle Olimpiadi di diciannove anni prima, che viene incendiata dai sovietici. Quando i britannici prendono il controllo dell’area olimpica, la torre pericolante viene demolita e la campana usata come bersaglio per testare delle munizioni anticarro.
La campana esiste ancora, anche se bucata. Non può più suonare in quanto irrimediabilmente danneggiata, ma rimane una delle poche testimonianze tangibili delle Olimpiadi berlinesi.
Gli anni della divisione di Berlino sono transitori per l’Olympiastadion: viene utilizzato, ma per manifestazioni che riguardano solo mezza città. Lo stadio costruito per la capitale è ormai un gigante che dorme. Qualche concerto di richiamo, alcuni meeting di atletica e poco altro non riescono a risvegliarlo da un torpore che sembra irreversibile.
Nel 1963, in corrispondenza con la prima partita giocata dall’Hertha Berlino sul suo terreno, lo stadio olimpico riacquista un tenue legame con i nostri giorni. I bianco blu non sono uno squadra al livello delle grandi della Bundesliga, ma portano l’onore della parte occidentale di Berlino su tutti i campi della Repubblica Federale.
L’Hertha fu praticamente costretta a giocare allo stadio Olimpico per far sì che fosse utilizzato nel dopoguerra: lo stadio storico in cui la squadra giocava da sempre era il cosiddetto “Plumpe”, nella zona di Gesundbrunnen, che però non poteva competere per imponenza (e capienza) con l’Olympiastadion. E la decisione fu presa.
Da allora l’Hertha non si è più mossa; solo negli ultimi due anni le voci di uno stadio più piccolo e maggiormente dedicato al calcio hanno cominciato a farsi sentire a Berlino, ma la prima pietra del nuovo impianto che farà traslocare altrove la squadra non è stata ancora piazzata.
In concomitanza coi Mondiali di calcio del 1974 il progetto dell’Olympiastadion viene ridiscusso, quasi quarant’anni dopo l’ultimo intervento: viene installata una copertura parziale e molti degli impianti ormai obsoleti sono rinnovati. Nonostante l’importanza storica della struttura solo tre partite del Girone A sono giocate a Berlino. Anche lo scontro di cartello tra DDR e RFT si gioca ad Amburgo, forse per impedire tensioni sportive e politiche all’interno di una città già complicatissima da gestire.
La capienza dello stadio non viene comunque compromessa dalla ristrutturazione e il 26 Settembre del 1969 permette di stabilire il record (ancora imbattuto) per il maggior numero di spettatori della Bundesliga: la partita tra Hertha e F.C. Köln si gioca davanti a ben 88.075 persone.
La riunificazione tedesca è placida per l’Olympiastadion: i festeggiamenti sono tutti nel centro città, la notte del 9 novembre 1989 i riflettori dello stadio sono spenti. Il vento proveniente da est trasporta l’eco delle urla e dei clacson. Se fosse stato un’entità vivente lo stadio sarebbe stato scosso da un fremito pensando al suo futuro destino. Lui, simbolo di un’epoca scomoda che ha lasciato tante ferite aperte.
Ma l’Olympiastadion è solo una massa di pietra, impianti e strutture, dopotutto. Le emozioni non gli appartengono, almeno finché le persone non lo riempiono. E allora continua ad ascoltare i festeggiamenti in lontananza. E attende.
Passano undici anni prima che il suo destino sia deciso. Nonostante qualcuno proponga di lasciarlo al naturale decadimento, facendolo così diventare una rovina testimone di una tragica parentesi storica, l’idea che vince è quella di ristrutturarlo massivamente.
I Mondiali di calcio del 2006 vengono assegnati di nuovo alla Germania (stavolta riunificata) e l’Olympiastadion si riprende il suo ruolo di stadio nazionale.
Gli imponenti lavori di riqualificazione iniziano nel 2000 e terminano dopo quattro anni: il terreno di gioco viene ulteriormente abbassato di circa due metri e mezzo, le tribune vengono rinnovate, i seggiolini cambiati, la copertura resa totale e il colore dominante degli interni cambiato nel bianco blu dell’Hertha. Solo la capienza viene ridotta, portandola a 74.475 posti, tutti seduti. In totale ben 242 milioni di Euro vengono spesi per rianimare il gigante che dorme e renderlo di nuovo presentabile al mondo intero.
Il 13 Giugno 2006 il Mondiale si apre proprio all’Olympiastadion, ospitando la partita del Brasile, campione in carica, contro la Croazia. In totale sono sei le partite giocate nello stadio di Berlino, compresa la finale vinta dall’Italia sulla Francia.
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L’estate scorsa sono andato per la prima volta allo Schwimmstadion, la piscina olimpica adiacente all’Olympiastadion. Dopo una nuotata sono stato seduto sul bordovasca: centinaia di persone come me a godersi l’inaspettata calura estiva, gente di ogni età e cultura a tuffarsi o nuotare, bambini festanti. Uno spaccato della Berlino attuale teletrasportata in una struttura degli anni ’30. Le tribune che si affacciano sulla vasca sono ancora quelle originali che stanno aspettando una ristrutturazione, i cartelli scritti in gotico riportano inevitabilmente la memoria al Terzo Reich. Dietro al trampolino di dieci metri si vedono chiaramente le logge del vero protagonista architettonico della zona, lo Stadio Olimpico.
L’essere stato costruito per veicolare il messaggio di uno dei regimi più abietti che la storia umana abbia conosciuto, rende questo stadio quasi insopportabile; dovrei forse focalizzarmi sul fatto che abbia ospitato una delle Olimpiadi meglio organizzate di tutti i tempi e che al suo interno si siano svolte bellissime storie di sport. Ma non riesco.
Non posso fare a meno di pensare alle lunghe bandiere verticali con le svastiche, al gracchiare degli altoparlanti con la voce di Hitler, alle braccia tese, al sorriso storto di Göbbels mentre assiste al suo capolavoro.
Ora, nel 2018, questo stadio mi sembra una gigantesca opera svuotata del suo reale significato: la propaganda.
Non ce l’ho con l’Olympiastadion né tantomeno con la gente che lo frequenta o con le manifestazioni che organizzano al suo interno. Credo solo che la sua storia sia strettamente, e tragicamente, legata a quello per cui è stato costruito. Potrebbero organizzarci qualsiasi cosa, ristrutturarlo altre migliaia di volte, ma rimarrà sempre correlato al nazismo e alla propaganda.
Adesso è solo un meraviglioso ed avveniristico contenitore senz’anima.
E la cosa più triste è che lo preferisco così piuttosto che imbottito di ottusa ideologia.
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Foto di copertina: © Olympiastadion Official
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