Passo in rassegna il contenuto della borsa. Portafogli? Presente. Tabacco e pochette? Presenti. Chiavi? In mano. Tiro la porta di casa dietro di me assicurando la serratura con due mandate. Scendo le poche scale che mi separano dal portone. Lo apro, esco e aspetto di sentire alle mie spalle il tipico rumore sordo di quando la pesante struttura ferrosa batte sullo stipite. Raggiungo la bici, sgancio la catena, salgo in sella, parto. Ho l’impressione di avere dimenticato qualcosa. Cosa? Mescolo di nuovo le mani nella borsa e ripercorro a mente la lista. Credo di avere preso tutto. Avverto una sensazione di vuoto sul braccio destro, ma l’elastico per capelli c’è ed è al suo posto, sul polso, proprio accanto al bracciale nero che non ho mai rimosso da quando mi è stato regalato. Proseguo.
Mi compiaccio del leggiadro venticello estivo di questa giornata che volge al termine e mi rallegro al pensiero della cena marocchina che mi aspetta mentre percorro Maybachufer con la mia due ruote da passeggio. Improvvisamente l’illuminazione. La mascherina. Ecco cosa ho dimenticato. La mascherina. Servirà? Forse no. Faccio una breve carrellata degli spostamenti che seguiranno. Il ristorante è all’aperto, non devo entrare al supermercato e neanche allo Späti. Tutt’al più, se nell’andare in bagno fingerò di coprirmi bocca e naso con un lembo della maglia, chiuderanno un occhio.
Anche se adesso il “prima” ci appare come un miraggio che continua via via ad affievolirsi, in realtà non è passato molto tempo dall’avvento del Covid-19 nella nostra esistenza. Il pesante bagaglio di multisfaccettati effetti collaterali a esso correlati non ha tardato a manifestarsi, dilatando ulteriormente questo intervallo temporale la cui data di fine appare tanto fuggevole quanto il famigerato “ritorno alla normalità”. Un calderone contenente macigni psicologici accostati a una serie di consuetudini, costumi e modi di dire inediti tra cui rientrano anche le mascherine. Tuttavia, questi oggetti che oggigiorno sono riusciti a scalare in tempi inaspettatamente rapidi la hit parade degli articoli indispensabili da portare sempre con sé non sono di certo un’invenzione recente. Per i medici chirurghi rappresentano infatti la consuetudine per antonomasia, così come lo sono per una buona fetta degli abitanti dei paesi dell’Asia orientale, che le indossano sui mezzi pubblici e nei luoghi affollati durante l’intero corso dell’anno. Lo scopo principale di questo dispositivo medico, oltre a ridurre l’inspirazione di particelle di polvere create dall’inquinamento atmosferico, è infatti quello di contenere la proliferazione e la dispersione di agenti patogeni, come batteri e virus. Tale processo viene attivato mediante un altro elemento fino a qualche mese fa per lo più sconosciuto, ma ormai giunto all’apice della sua fama: il fantomatico droplet, nient’altro che l’emissione di microscopiche goccioline respiratorie.
Le radici delle nostre attuali e compatte mascherine sembrano però affondare nel lontano XVII secolo, o forse in qualche epoca precedente, e sono ricollegabili alle ondate epidemiche di peste. In quel periodo esisteva la ferma convinzione che questa temutissima e letale malattia fosse propagata per mezzo dei cosiddetti miasmi, ovvero le esalazioni tossiche legate alla putrefazione, sprigionate dai corpi decomposti nell’aria che veniva respirata. È però tale credenza, che oggi tenderemmo a definire superstizione, ad avere letteralmente plasmato quella che noi conosciamo come maschera del medico della peste: un inquietante e perturbante becco adunco intriso con gli antenati dei nostri odierni filtri: spezie, odori forti e per lo più sgradevoli, aromi e paglia. Questo ripugnante cocktail avrebbe avuto la funzione di combattere l’aria cattiva, impedendole di entrare in contatto con orifizi facciali e mucose come naso, bocca e occhi, che venivano quindi integralmente coperti. Giungevano in soccorso al completamento del corredo un cappello, degli spessi occhiali tondi, una tonaca e dei guanti.
Quale sia stato però il decorso delle mascherine fino all’avvento dei prototipi dei modelli moderni, frutto delle intuizioni dei medici Johann von Mikulicz Radecki, Carl Flügge e Paul Berger, resta un fenomeno avvolto da un alone di mistero e leggenda. Queste tre figure, vissute nella seconda metà del 1800, hanno fornito un contributo cruciale per la comprensione dei processi di trasmissione degli agenti patogeni. Fondamentale per lo sviluppo degli attuali dispositivi di garza con filtri è stata la constatazione attribuita al chirurgo Paul Berger, che sembrerebbe essere riuscito a dimostrare come le goccioline emesse durante l’enunciazione e la respirazione possano causare infezioni anche in condizioni di asepsi apparentemente soddisfacenti. Nasce così il concetto di operazione svolta in ambiente sterile, al fine di incrementare le possibilità di successo della stessa e di assicurare la guarigione del paziente. Si dice che questa sia stata la prima definizione di una mascherina utilizzata a scopo precauzionale, risalente al 1897: “Un impacco rettangolare di sei strati di garza, cucito sul bordo inferiore al grembiule di lino sterilizzato e il bordo superiore tenuto contro la radice del naso da corde legate dietro al collo”. Tale descrizione non differisce poi del tutto da quella delle comuni mascherine chirurgiche ormai note.
Prima dello scoppio della pandemia di SARS-CoV-2, che è stata in grado di modificare radicalmente le nostre abitudini quotidiane, le nostre paure, i nostri sogni e i nostri progetti (per lo meno quelli legati all’infausto anno in corso), nel mondo occidentale c’era ben poca consapevolezza e soprattutto uno scarso interesse nei confronti di questi castranti oggetti sudati che censurano respiro e labiale tagliando via parte della nostra individualità estetica. Li vedevamo quando andavamo dal dentista o ci sottoponevamo a un’operazione eseguita in anestesia locale, e avevamo erroneamente imparato ad attribuirli in maniera esclusiva all’outfit di queste figure professionali. A rendere popolari le mascherine sono state in primo luogo le leggi vigenti, che variano di Paese in Paese e di settimana in settimana, conseguenti alla paura di un brutale e apocalittico contagio su vasta scala. I primi modelli a essere stati sfoggiati sono stati, per l’appunto, quelli chirurgici sopra menzionati, anche se la mercificazione in pieno stile capitalista non si è fatta attendere poi a lungo. A insinuarsi nelle nostre consuetudini, parallelamente a questi dispositivi “usa e getta” realizzati con una quantità di garze in tessuto-non-tessuto di polipropilene inversamente proporzionale alla loro qualità, sono state innanzitutto le impronunciabili sigle delle cosiddette “mascherine egoiste”, FFP2 ed FFP3 (note oltreoceano come N95 e N99). Se dotate di valvola, infatti, esse risultano particolarmente protettive chi le indossa, ma non per eventuali interlocutori o soggetti nelle dirette vicinanze. Da qui il prepotente soprannome.
Con un Coronavirus piombato come un fulmine a ciel sereno nelle nostre vite, tali presidi sanitari si sono diffusi a macchia d’olio in ogni angolo del pianeta, già durante le prime settimane di emergenza. Non essendo stata in alcun modo preannunciata un’ondata virulenta che le avrebbe improvvisamente rese indispensabili su base quotidiana per l’intera popolazione mondiale, la loro disponibilità sul mercato, dimostratasi insufficiente a sopperire alla crescente domanda, ha causato una lievitazione dei prezzi ai limiti dell’inverosimile. Una FFP3 usa (poche volte) e getta, in Italia, durante il primo mese di lockdown, era arrivata a costare fino a 10 euro al pezzo. La scarsità aveva conferito a questi articoli un alone che li consacrava a qualcosa tra un oggetto di culto e un disco a tiratura limitata, e serviva ai negozianti a giustificarne l’importo, nonché a favorire la nascita di un mercato nero in piena regola.
Questo nuovo carattere esclusivo acquisito dalle mascherine ha però anche innescato dei meccanismi di sovversione economica, ampiamente abbracciati dagli amanti del fai-da-te che si sono subito armati di macchina da cucire ricavando dai loro scampoli ogni sorta di protezione per naso e bocca. In seguito a una breve fase di rodaggio, in cui le nuove creazioni venivano cedute in dono ad amici e parenti, attorno a esse si è sviluppata una florida compravendita sulle piattaforme online e, successivamente, anche offline. Ecco la moda primavera-estate 2020, che vede sostituire le tonalità azzurrino e verdino pallido, sinonimo di ambiente ospedaliero, con una moltitudine di fantasie e colori. L’enorme confusione della prima fase pandemica aveva costituito il terreno fertile per la diffusione di dispositivi in tessuto o lavorati a maglia, o addirittura di semplici bandane legate dietro la nuca. Solo in seguito agli allarmi lanciati dai telegiornali e dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità inizia a insediarsi nella collettività la consapevolezza che, per proteggere se stessi e gli altri, sarebbe più indicato indossare modelli contenenti filtri. Spuntano così nelle mascherine home made taschini pronti a contenere tutto ciò che l’umana immaginazione, supportata dalle catene di bufale di WhatsApp e da altri canali non ufficiali, possa concepire come un filtro anti-Covid: la carta forno, i panni dello Swiffer, i fogli di alluminio, i filtri dell’aspirapolvere.
In maniera piuttosto tempestiva vengono pronunciate nuove smentite da parte degli organi ufficiali riguardo all’inefficacia delle soluzioni DIY, unite alle preghiere di proteggersi in modo consapevole. Scompaiono quindi carta forno e Swiffer, tuttavia restano le mascherine in tessuto non filtrante, ormai divenute un vero e proprio must. I vari brand di abbigliamento iniziano a stamparne versioni recanti il proprio logo e a rivenderle allo stesso prezzo di una maglietta o di un paio di pantaloni in una sezione della vetrina a esse dedicata. Ma non sono solo i marchi di moda a cavalcare l’onda del nuovo accessorio cult, bensì qualsiasi organizzazione, azienda o associazione esistente, compresi gruppi musicali e politici. L’intramontabile successo delle T-shirt e delle borse di stoffa stampate, saldamente associate a un’affermazione di se stessi e del proprio stile, viene soffocato su due piedi dall’hype delle mascherine. Senza avere neanche avuto il tempo di rendercene conto, esse sono state oggetto di una metamorfosi che le ha innalzate a vero e proprio statement. Un successo pop.
Come ogni successo pop che si rispetti, anche questo non può che suscitare dei risvolti al limite del paradossale. Sin dall’inizio di questa nuova era non è stato raro incappare, per strada o nel web, in esseri umani che scelgono di proteggersi dal virus in modi particolarmente stravaganti, come per esempio con maschere in stile medico della peste o dotate di valvola antigas, a metà tra un cosplay di Chernobyl e un concerto Industrial. Con il trascorrere dei mesi, il tempo è accorso in aiuto agli sviluppatori di soluzioni innovative volte a fronteggiare le effettive scomodità e i limiti delle mascherine. Uno dei primi dibattiti ad aprirsi fu quello legato all’impossibilità di leggere il labiale. Se tale condizione può mettere in difficoltà persino i normoudenti (che solo di recente hanno preso coscienza di quanto possa essere importante il labiale ai fini della comprensione), per le persone con difficoltà o totale mancanza di udito la presenza di una membrana coprente diventa un grave limite di accessibilità.
A domanda risposta. Con finalità di sensibilizzazione in merito a questa tematica sono nate diverse associazioni dedicate alla creazione e alla diffusione di varianti speciali delle comuni mascherine, dotate di finestra in materiale plastico trasparente sulla parte frontale atta a proteggere la bocca lasciandola visibile. Facendo però di necessità virtù, oltre a questa utile versione accessibile, ne sono nate numerose altre dalle funzionalità più fantasiose. Imperversano su Kickstarter campagne volte al finanziamento di progetti per la realizzazione di modelli tecnologici, come quello smart con traduttore simultaneo in 8 lingue integrato, o quello che sfrutta l’effetto ventosa aderendo in modo saldo al viso per rendere superflui i tediosi laccetti. Proprio la volontà di eliminare i laccetti, o almeno di ridurre il fastidio che recano, ha dato il la alla nascita di un promettente mercato di cinturini di prolunga da poggiare sulla nuca per bypassare il padiglione auricolare.
Le polemiche che ruotano intorno al fastidio causato dai dispositivi medici, nonché alla pandemia stessa, proliferano espandendosi in ampi territori e talvolta assumendo accezioni che sfociano in fake news e teorie del complotto. Rese più o meno obbligatorie nella maggior parte degli Stati mondiali nell’ambito delle norme di distanziamento sociale necessario a contenere la diffusione del virus e dei danni da esso provocati, le mascherine sono entrate in simbiosi con la nostra quotidianità. Le linee guida che ne determinano l’utilizzo cambiano a seconda del luogo, anche se alcune costanti si ripetono in maniera sistematica per via delle direttive dettate dall’OMS. Per esempio è indispensabile indossarle quando si è in nei luoghi chiusi in cui non è possibile garantire una distanza interpersonale di circa due metri, come sui mezzi di trasporto, nei negozi, supermercati, centri commerciali, ma anche in ristoranti e nei pub. Questo ultimo punto ha generato una nuova formula di entertainment che ruota intorno al binomio on/off: nei locali è vietato ballare e, quando ci si alza dal proprio tavolo per andare in bagno o per ordinare al bancone, bisogna proteggere naso e bocca. Avvolte da una fitta coltre di nebbia appaiono invece le modalità di impiego nelle scuole, da poco tornate attive seppur con grande timore e circospezione.
Ai numeri in aumento, in buona parte causati dagli spostamenti estivi, alcuni governi hanno ovviato con l’inasprimento delle misure anti-contagio. L’Italia ha per esempio disposto dal 16 agosto la chiusura di ogni forma di discoteca e, similmente alla Francia che ha reso obbligatorio l’uso delle mascherine anche in strada, dalle 18 alle 6 del mattino (fascia oraria in cui presumibilmente avrebbe origine la maggior parte degli assembramenti) in nessuna regione si potrà uscire senza indossarle. In Germania esiste addirittura un ridente termine semiufficiale volto a designare le persone che si rifiutano di adeguarsi alle norme in vigore: Maskenmuffel, ovvero “coloro che si lamentano della mascherina”.
Se infatti da una parte esistono gli ultrà di questo presidio precauzionale, dall’altra non tutti sono disposti ad abbandonarsi senza remore ad una tale costrizione. Le ragioni sono svariate e si possono sommariamente riassumere con le seguenti categorie: fastidio, caldo, acne, potenziali rischi per la salute, motivazioni politiche. I furbetti che la indossano con il naso di fuori, al braccio come una pochette o sotto al mento hanno inoltre ispirato il rigoglio di numerosi meme, più o meno divertenti, che invadono il web a intervalli regolari. Tuttavia, oltre a queste soluzioni allegoriche dettate dalla pigrizia, per molti individui i motivi del rifiuto sorgono alla luce di quelle che vengono definite teorie della cospirazione. La più estesa è legata al fatto che i dispositivi di protezione individuale, costringendo a respirare la propria aria, provochino una carenza di ossigeno e l’aumento di anidride carbonica nel sangue, possibile causa di alcalosi, svenimenti, infarti e cancro. Un’altra leggenda metropolitana si appoggia alla credenza che il virus possa rimanere intrappolato e proliferare tra le fibre, mentre altri rimarcano gli eventuali danni alla salute dei bambini.
Queste e altre le congetture sono alla base del movimento No Mask, capillarmente diffuso su scala globale. I suoi adepti e promotori, tra cui il farmacista Stefano Montanari, fanno leva sulle argomentazioni di natura sanitaria per affermare la propria crociata contro la privazione delle libertà individuali e la costrizione a un atto di sudditanza nei confronti dei potenti. Gli estremisti No Mask sarebbero di fatto un’estensione negazionista dei No Vax, secondo i quali il virus non sarebbe altro che un apparato volto a controllare l’ordine e la popolazione mondiale. In tutto il pianeta assistiamo di giorno in giorno allo scatenarsi di manifestazioni inneggianti alla ribellione contro le mascherine, persino in città o nazioni fortemente colpite dalla pandemia, come per esempio Madrid, che ha ospitato una rivolta capitanata nientemeno che da Miguel Bosé, o gli Stati Uniti, dove i dispositivi hanno assunto la valenza di un simbolo politico. Il primo agosto, a Berlino, sulla Strasse der 17. Juni (emblematica strada sulla quale negli anni abbiamo visto marciare a suon di Techno i paladini della Love Parade) si è tenuta una grande manifestazione di protesta contro il Coronavirus, dove sembra si siano assembrate, baciate e abbracciate circa ventimila persone, schierate in prima linea dietro slogan come “Veniamo obbligati a indossare la museruola” oppure “Obbligo di mascherina, vaccino e 5G. No grazie”. Il 29 agosto, nella capitale tedesca ha avuto luogo un evento simile che ha scatenato un polverone mediatico, nonché svariati tira e molla giuridici in merito alla legalità di tale operazione.
Oltre a personaggi dello spettacolo e divulgatori, molte personalità politiche sbandierano la propria posizione antitetica rispetto ai provvedimenti vigenti, esortando il proprio elettorato a fare altrettanto. Per fare due nomi, Jair Bolsonaro e Matteo Salvini. Quest’ultimo, che fino a meno di un mese fa si prodigava in discutibili atti provocatori entrando in Senato senza protezioni con fare indisponente, i primi giorni di agosto sembra aver ritrattato per motivi che non ci è dato conoscere, sollecitando le persone “a usare la testa”. Allo stesso modo, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che da sempre aveva fatto vanto del suo atteggiamento beffardo nei confronti della situazione pandemica, sembra ora agitare le folle al grido di “indossare la mascherina è un atto patriottico”.
Altri dibattiti sono sorti invece riguardo la questione dell’età minima a partire dalla quale non bisognerebbe eludere dalle protezioni. Stando alle ultime dichiarazioni dell’OMS, ai singoli Paesi verrebbe garantito il libero arbitrio per la fascia che va dai 6 agli 11 anni, mentre l’imposizione scatterebbe al compimento dei 12 anni. Tale apertura interpretativa costituisce attualmente succulento materiale per le campagne elettorali dei vari schieramenti, alcuni dei quali sfruttano a loro favore le argomentazioni legate ai potenziali pericoli per la salute causati da un uso prolungato del dispositivo. Con la volontà di contrastare questa irrefrenabile ondata di disinformazione, la stampa mondiale si affanna all’impazzata nel diffondere notizie di stampo scientifico o per lo meno basate su dichiarazioni ufficiali. Ci troviamo quindi a barcamenarci in un impervio oceano di articoli che tentano di smascherare le bufale e illustrarci quale sia la corretta modalità di impiego delle mascherine, il modo migliore per igienizzarle e sanificarle, o ancora di classifiche dei vari modelli in base alla loro utilità e al modo in cui agiscono. Chiaramente, tutto ciò contribuisce ad accrescere non poco il clima di confusione globale.
Tuttavia la ridicolizzazione, la politicizzazione e la non accettazione dei dispositivi sanitari sono fenomeni antichi quanto gli oggetti in questione, tanto che i primi movimenti organizzati sembrano risalire ai tempi della Spagnola. Nel 1918, a San Francisco, la Anti-Mask League si ribellava a questo vincolo con argomentazioni simili a quelle proposte in sede contemporanea, tra cui rientravano la scarsa igiene e la necessità di concentrarsi su questioni più urgenti causate dalla pandemia, in primis la disoccupazione. Inoltre, stando alle testimonianze di matrice pittorica, già nel Rinascimento sembra che questo abbia rappresentato un tema di attualità, in quanto in alcuni dipinti figuravano soggetti con naso e bocca coperti da fazzoletti e altri tessuti. L’arte è per antonomasia predisposta a ritrarre le epoche, ed è proprio grazie a essa se oggi siamo in grado di ricostruire usanze, abitudini e peculiarità di popoli passati. Anche i nostri discendenti si serviranno dei lasciti creativi prodotti in questo inconsueto periodo, che, carichi di ironia e criticità, immortalano per mezzo di rielaborazioni e opere originali un disagio societario senza precedenti per il mondo moderno. Tra le più popolari troviamo la reinterpretazione della “Gioconda” del buon vecchio Leonardo, oppure quella del “Il bacio” di Francesco Hayez, non più libero e appassionato ma osteggiato da strati di tessuto che occludono le cavità orali dei due soggetti, e la “meta-rivistazione” de “La ragazza con l’orecchino di perla” di Johannes Vermeer. Se già nel 2014 la versione satirica di questo dipinto firmata Banksy era apparsa su un muro di Bristol, ai tempi del Covid metà del viso della donna si veste di bianco.
E non è l’unico episodio in cui la street art ci mette alla prova con immagini che sembrano voler rimarcare la forzatura del distanziamento sociale applicato anche ai rapporti più stretti, con l’intento di farci riflettere sul concetto di fiducia addirittura nei confronti del prossimo più prossimo. La prima volta che mi sono imbattuta in un murale a tema Coronavirus era il 20 marzo 2020, a circa due settimane dall’inizio del soffocante lockdown italiano. Mi ero avventurata in una passeggiata clandestina nell’allora deserto Parco degli Acquedotti, dal quale erano scomparsi anche i tanto contestati runner. Avevo voglia di passeggiare su un prato, lontano dai cubi di cemento, anche se i decreti escludevano questa possibilità. Come tutti, ero ancora inconsapevole in merito alla durata dei provvedimenti, e questo horror vacui mi spaventava. Appena imboccato uno dei vialetti mi sono vista costretta a modificare la mia traiettoria poiché il mio sguardo aveva incrociato quello accusatorio e minaccioso di una coppia di fidanzati che portavano a passeggio un cane al guinzaglio. Non ero in tenuta da ginnastica, non avevo animali con me.
Mentre nella mia mente riecheggiavano pensieri poco rassicuranti, ho scorto sui suggestivi resti degli acquedotti Romani una grafica in bianco e nero. Raffigurava due amanti alle prese con un bacio, incuranti delle ingombranti maschere antigas che li censuravano, formando al contempo una sorta di tunnel di collegamento tra le due bocche. In un secondo momento ho capito di trovarmi davanti alla nuova opera dello street artist Hogre. Ricordo in modo vivido quell’attimo, l’impatto violento che ha avuto su di me. Ciò che maggiormente mi aveva turbato non era l’immagine in sé, bensì la percezione che questa fosse stata in grado di cristallizzare il lato oscuro delle strette del governo finalizzate a proteggere la popolazione dal virus. La sensazione attanagliante che quest’ultimo fosse penetrato in modo talmente invasivo nelle nostre vite da non abbandonarle presto aveva assunto una forma concreta.
Ricordo anche che il murale mi aveva riportato in un istante alla desolazione del paesaggio circostante, che altro non era che lo specchio di ciò che la società stava affrontando. Mi era piombata addosso la consapevolezza che le scomode mascherine ci avrebbero accompagnato ancora per diverso tempo, avendo acquisito delle accezioni che trascendevano le questioni igieniche e che ci preparavano a un nuovo modo di affrontare i rapporti umani. E ora mi chiedo se, una volta che le avremo appese al chiodo per sempre, saremo in grado di allontanare il loro fantasma o se il solco che stanno scavando rimarrà indelebile.
La foto di copertina è © Tomáš Hustoles
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