Primordi è un rubrica aperiodica, curata da Mattia Grigolo.
Ci piacciono degli esordi narrativi e ne scriviamo. Ma solo esordi.
«Sono il poeta della donna come dell’uomo,/e affermo che è grande essere donna come essere uomo,/e che nulla è più grande della loro madre». Così scriveva Walt Whitman in Canto di me stesso, un lungo poema che può essere considerato un canto della fluidità, in cui i confini fra le nazioni, i generi sessuali, passato e presente sono annullati e l’essere umano può esprimere se stesso in quanto moltitudine e insieme di contraddizioni. Quanto ai versi citati, Whitman sembra anticipare il tema dell’androginia, già trattato ad esempio da Samuel Taylor Coleridge nella sua Biographia Literaria e da Virginia Woolf in Orlando e in parte anche in Una stanza tutta per sé, per i quali la mente androgina è un Giano Bifronte che unisce nostalgia a presente, una mente creativa che unisce la violenza alla spiritualità.
Quello che manca ultimamente nel parlare della mente androgina è una lingua capace di esprimere la fluidità, che annulli e allo stesso tempo unisca problemi passati a quelli presenti e i generi sessuali. Un’operazione del genere è riuscita a farla Dominik Holzer, classe 1992 e originario di Berna, che per creare un’identità fluida e non-binaria è diventato Kim de l’Horizon, un alter ego letterario nato a Gethen nel 2666, riferimenti, questi, rispettivamente a Ursula K. Le Guin – il pianeta Gethen, citato in La mano oscura delle tenebre, è un pianeta fittizio i cui abitanti non hanno un genere sessuale fisso – e a Roberto Bolaño, in quanto 2666 rappresenta per de l’Horizon il futuro. De L’Horizon è riuscito a trascendere il genere maschile e quello femminile con Perché sono da sempre un corso d’acqua (Il Saggiatore, 2023, titolo originale Blutbuch), un romanzo di debutto che nel 2022 ha vinto il Deutscher Buchpreis, diventando il primo autore non-binary a vincere un premio letterario in Europa. Al conferimento del prestigioso premio letterario tedesco, de L’Horizon si è rasato i capelli davanti al pubblico dedicando il premio alle donne iraniane che combattono per i propri diritti.
Ed è proprio alle donne, o meglio, alle «mie madri mari» che de L’Horizon dedica la sua opera prima. In questo romanzo, il narratore – Kim, per l’appunto – si confronta con la demenza senile della nonna Rosmarie, una donna verso cui il narratore ha avuto sempre soggezione e che al nipote ha sempre dato silenzi invece di parole. Crescendo, il narratore si rende conto che questi silenzi sono dovuti alla vergogna della donna delle proprie ferite, di essere stata una donna sottomessa al volere delle convenzioni sociali e della propria famiglia. La malattia dell’anziana porta il narratore a intraprendere un viaggio nella storia delle donne della famiglia – fra cui anche sua madre Irma – e dentro di sé attraverso lingue diverse che lo aiuteranno a esprimere i silenzi con cui ha vissuto per tutta la vita, ma allo stesso tempo a vivere una nuova identità.
Una particolarità di questo romanzo di debutto è proprio la traduzione dello stesso. Nella settantanovesima puntata del podcast «Copertine» di Matteo B. Bianchi, la traduttrice dell’edizione italiana Silvia Albesano ha raccontato di come, inviando una lettera ai traduttori del proprio romanzo, de l’Horizon abbia dato loro libertà poetica nei punti in cui la traduzione letteraria risultasse difficile. Questo aneddoto ribadisce, quindi, la fluidità del testo, che mostra la sua moltitudine anche nelle sue possibili traduzioni in lingue diverse. Segno di questa ampia libertà è, ad esempio, la scelta del titolo italiano, che si riferisce alla ricerca da parte di Kim della «lingua ma(d)re» giocando sul fatto che in tedesco bernese “Meer” significa sia mare che madre, dove “madre” è “la grande madre” di Whitman, quella che genera moltitudini e che rende possibile il divenire e l’annullamento di ogni confine. A differenza dell’edizione francese, che ha intitolato il romanzo Hêtre pourpre, ovvero “faggio rosso”, rimandando all’albero che nel romanzo gioca un ruolo fondamentale, e dell’edizione spagnola, che ha tradotto letteralmente il titolo tedesco con Libro de sangre, la traduttrice italiana ha scelto un titolo diverso da quello tedesco, ma che comunque evidenzia la polivalenza e la natura fluida del romanzo. La scelta del titolo Perché sono da sempre un corso d’acqua è dovuta al fatto che il titolo tedesco Blutbuch sia impossibile da rendere in italiano nella sua polisemia originale. Quest’ultimo, infatti, attraverso la parola “Buch”, che in svizzero-tedesco vuol dire sia libro che faggio – quest’ultimo termine in tedesco standard è, invece, “Buche” –, evidenzia il legame che c’è fra la scrittura e il sangue, il secondo inteso sia come eredità storica e familiare che come fluidità identitaria.
In Perché sono da sempre un corso d’acqua, la scrittura assume un ruolo fondamentale nel dare voce alla fluidità di genere. La scrittura di de l’Horizon contiene in sé diverse lingue e diversi registri stilistici: l’inglese, il tedesco bernese e l’Hochdeutsch – il tedesco standard – si fondono al registro stilistico inerente alla botanica oppure al linguaggio colloquiale e a quello dei documenti d’archivio e delle testimonianze delle antenate di Kim. A livello di scrittura, l’aspetto più interessante è la quinta parte, scritta interamente in inglese e tradotta in tedesco usando il traduttore online DeepL, un espediente che non ha altri precedenti in letteratura e che secondo Albesano costituisce «ulteriore testimonianza di una ricerca linguistica che non va nella direzione del rigore o della perfezione formale, bensì della contaminazione, e punta a travalicare i confini e gli incasellanti tradizionali». Quest’ultima parte, infatti, presenta nella traduzione dall’inglese delle imprecisioni relative alla concordanza di genere fra nomi, aggettivi e verbi che ribadiscono «la permeabilità di confini che devono apparirci sempre meno invalicabili», e dunque un annullamento di confini che sono in realtà frutto di costrutti culturali e, dunque, artificiali e non conformi alla fluidità della natura.
Kim, allora, inizia fin da subito a tematizzare il problema della lingua, dicendo che «nella mia mother tongue non so come scrivere di me. Dentro ci sono la lingua della madre e i tuoi occhi e io – il mio corpo, i miei corpi, la mia corporeità». In questa riflessione sulla lingua, Kim racconta come per i termini che si riferiscono alle donne e ai bambini venga usato spesso il genere neutro, solitamente usato per gli oggetti inanimati. «Non volevo essere un oggetto», afferma il narratore, «volevo essere una persona, adulta; ed essere adulti voleva dire avere un sesso, uno maschile. Come donna rischiavi di restare un oggetto o diventare un oceano. E io non volevo». La lingua, dunque, sia quella del corpo che quella della scrittura e della parola, esprime di per sé la sopraffazione del corpo, basti pensare a quanto Kim dice nei confronti del francese, lingua che Napoleone ha portato in Svizzera e che il narratore considera «lingua dell’occupazione», oppure al riferimento al binarismo di genere considerato un retaggio fascista. Per Kim è necessario, dunque, trovare «una lingua magica», una lingua che, anche se usa parole note, è considerata comunque straniera, per parlare di ferite che non possono cancellarsi del tutto, in quanto «la pelle si ricordava tutto». La lingua di Kim deve tramandare un trauma, una ferita, perché «lasciare in eredità un trauma significa dunque tramandare una lacerazione, un’assenza di legami, una mancanza di tessuto».
Come fare, allora, a creare una lingua che crei legami con i corpi, con il passato e il presente? La risposta si trova nel faggio rosso – la cui centralità, come accennato prima, viene ribadita nel titolo dell’edizione francese del romanzo – che si trova nel giardino della casa dei nonni, un albero che in realtà racconta una storia di nazionalismo e sopraffazione in quanto a sopravvivere sono stati gli alberi maschi a scapito del faggio madre. Attraverso la storia del faggio rosso, Kim comprende come nell’albero genealogico della sua famiglia manchi il ramo femminile, quello che ha reso possibile la sua identità e quella della sua famiglia, ovvero la storia di donne bollate come pazze, streghe e anticonformiste la cui vita ha lasciato un vuoto che sta a Kim colmare dandogli uno spazio:
«Derrida dice che la lingua funziona attraverso l’assenza. Che la parola «Buche» significa faggio solo per l’assenza di altri significati, perché non significa betulla (Birke), libro (Buch) o pancia (Bauch), non significa sangue (Blut), non significa niente e non significa tutto. Scrivere significa dunque riorganizzare ciò che manca. E uno scritto implica comunque sempre anche l’assenza degli scriventi».
Scrivere significa, dunque, «intrecciare reti che ci trattengano nel mondo: in questo mondo, nel vostro e in quelli ancora possibili». La lingua ma(d)re di de l’Horizon è una lingua bifronte, che unisce passato e presente, violenza e bellezza, corpi feriti e corpi nuovi. Scrivere vuol dire anche «iniziare a guardare sotto le ferite evidenti quelle nascoste, quelle ereditate (come fanno tanti amici)» e «lasciare che i traumi delle nostre famiglie finalmente sgorghino». La scrittura è, dunque, tradimento di quello che ci viene imposto, ovvero il rispetto del silenzio dei soprusi subiti. Kim scrive della nonna e delle altre donne della sua famiglia, e dunque le tradisce, per redimerle, per ribadire la loro esistenza nel silenzio, per dar loro finalmente la libertà e l’umanità che gli è stata negata. Intrecciandosi a loro attraverso la lingua ma(d)re, Kim esiste e può continuare a vivere: le sue ferite sono quelle delle sue madri, e il loro passato di sopraffazione continua nel suo presente.
Perché sono da sempre un corso d’acqua è forse il primo vero tentativo di ragionare sulla lingua e sulla scrittura per rompere il binarismo di genere portando a un nuovo livello riflessioni sull’identità di genere che partono dal corpo elettrico di Whitman e arrivano fino alla mente androgina di Samuel Taylor Coleridge e Virginia Woolf. Per Kim de l’Horizon, l’identità non è altro che un fluire continuo di storia, memoria e presente, corpi femminili e corpi maschili, lingua madre e lingua straniera. Si esiste perché si accetta dentro di sé la moltitudine, perché si rifiuta ogni argine verso ciò che è diverso e ignoto, ma soprattutto perché si riconosce che ogni ferita passata resta incisa sulla pelle del presente, in quanto ogni trauma è sempre ereditario, e una lingua, un corpo e un’identità deve essere in grado di esprimerlo.
Alberto Paolo Palumbo
Dal 1995 tira avanti per non tirare indietro con un pizzico di pragmatismo milanese e impulsività calabrese. Se tutto va come dovrebbe, continuerebbe a insegnare lingua straniera nelle scuole e a tempo perso a scrivere articoli, ma quest’ultimo non per soldi, perché come diceva un vecchio saggio: “ma che contratti? Passione ce vuole!”
Kim de L’Horizon
(Gethen, 2666) con il suo romanzo d’esordio Perché sono da sempre un corso d’acqua ha vinto sia il Deutscher Buchpreis che lo Schweizer Buchpreis.
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